Arte e coscienza in Bruckner

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Per quanto non si possa affermare che sia un autore popolare, Anton Bruckner ha una sua presenza nel repertorio, che gli assicura una certa visibilità a cavallo tra i classici e i tardo romantici. La prima ragione è del tutto oggettiva: Bruckner è un autore di cui il repertorio delle grandi orchestre sinfoniche non può fare a meno. E ciò vale, almeno in parte, anche per i direttori d’orchestra. Ne è riprova il fatto che dove si dà una tradizione sinfonica consolidata, ossia non soltanto in Austria e in Germania ma anche in Inghilterra e di riflesso negli Stati Uniti, Bruckner è stabilmente eseguito e trattato con tutti gli onori; assai meno invece in Italia e in Francia, paesi nei quali una tradizione sinfonica altrettanto consolidata, almeno per quanto riguarda l’Ottocento, storicamente non esiste. Vero è che una certa omologazione del repertorio e delle orchestre è da tempo in atto dovunque e dunque queste distinzioni sono ormai superate; e di ciò Bruckner ha ulteriormente beneficiato, pur rimanendo fondamentalmente un autore problematico e non facile.
    Il caso di un compositore operante nella seconda metà dell’Ottocento e quasi esclusivamente dedito alla creazione di sinfonie (in aggiunta figurano solo opere sacre vocali, e nel campo della musica da camera un pezzo unico, peraltro notevolissimo, il Quintetto per archi), è abbastanza raro nella storia di un periodo nel quale proprio il genere della sinfonia era ormai costretto a coesistere con altre forme di espressione più congeniali allo spirito del tempo. Altrettanto raro è il modo in cui Bruckner visse la propria vocazione di musicista: apparentemente privo di modelli, isolato in una dimensione d’intatta devozione, poco o nient’affatto disponibile a entrare nel dibattito delle idee e delle polemiche dell’epoca. La sua biografia è così povera di avvenimenti da rasentare l’anonimato. Modeste le sue origini (era nato ad Ansfelden, nell’Austria superiore, il 4 settembre 1824), provinciali le sue ascendenze (di famiglia contadina, maestro elementare il padre), defilata la sua posizione anche quando entrò in contatto con l’ambiente metropolitano di Vienna, dove pure ricoprì ruoli istituzionali importanti come insegnante al conservatorio e all’università. L’immagine che consacra Bruckner è quella del mite organista della cattedrale di Linz, felice nella sua nicchia, diligente e fiducioso nella sua attività, in pace con se stesso e con il mondo: dedito solo “”a Dio e alla musica””, come ebbe a dire Liszt. Un’eco di questo mondo spirituale e caratteriale, nel quale comunemente si vedono gli attributi di un’ingenuità disarmante, di una specchiata saldezza morale, di una sana robustezza contadina occultata dietro la maschera di una formale timidezza (chi fosse in realtà Bruckner rimane per noi, e forse lo fu per lui stesso, un mistero), si estende anche nelle sinfonie; di quel mondo, e delle sue esperienze, serbando anche spiccati tratti stilistici quasi immodificabili, nella tendenza a sentire la musica, anche nei momenti più profani, come un inno di lode a Dio modellato sulle sonorità solenni dell’organo. Fede in Dio di un fervente cattolico (legatissimo ai riti della liturgia), sensibile alle manifestazioni della gloria divina sommamente incarnate nella fisionomia fisica, storica e spirituale, del paesaggio, e di quello austriaco in particolare, che per Bruckner rimase sempre il paesaggio dell’anima: il bosco e la campagna, il ruscello e il villaggio, la chiesa e la scuola, il ballo campestre e l’abbazia. L’abbazia, soprattutto; e una su tutte, quella di Sankt Florian, dove aveva compiuto il suo apprendistato e nella quale vide sempre un centro di auguste memorie e di nobile raccoglimento, tanto caro da esser scelto per tempo come luogo dell’eterno riposo: la cripta sotto il “”suo”” organo, il luogo di culto bruckneriano per eccellenza.
    Esiste però una biografia sommersa di Bruckner, ed è quella che ci rivela la sua musica, frutto di un continuo, instancabile superamento. Superamento, forse, anche di un’angoscia repressa, che cerca e trova nell’arte lo sfogo inconscio negato alla vita. Le cattedrali sonore di Bruckner sono, come ha scritto Max Graf, “”l’ultima grande musica barocca, da ascoltarsi nelle grandi chiese a cupola, dove masse di luce e d’ombra fasciano le colonne, le nicchie e le volte, dove schiere d’angeli dorati calano sugli altari, dove splendono immagini di marmo, dove oro ed affreschi inebriano i sensi e tuonano organi possenti””. Ma sono anche, per converso, organismi che si muovono in piena autonomia strutturale, retti da un senso dell’equilibrio e delle proporzioni che, per quanto dilatato a dismisura, ambisce alla misura classica, all’architettura ariosa e in sé compiuta, senza orpelli: edifici romanici e gotici al tempo stesso, che guardando da una prospettiva astorica ma non decadente realizzano l’ideale della musica assoluta. Pertinace in Bruckner è la convinzione che la sinfonia non debba abbandonare mai la forma primaria in quattro movimenti: due possenti colonne esterne incorniciano sempre i due movimenti centrali – l’Adagio e lo Scherzo, sempre in questa successione, salvo che nelle terminali Ottava e Nona – in un arco teso e grandioso.
Anche il vissuto appare trasfigurato nelle misure dell’arte. Vere e proprie fissazioni connotano come un filo rosso la concezione sinfonica di Bruckner: il tremolo come simbolo del risvegliarsi oscuro della coscienza, punto di partenza di un cammino di iniziazione che converge verso la celebrazione del corale, punto di massima espansione dello svolgimento in elaborazione; la particolarissima tecnica delle progressioni, consistente nello slancio verso la conquista di un’affermazione sonora trionfale improvvisamente interrotta e sospesa sul silenzio; lo stile “”a terrazze””, che mutua dall’organo i passaggi repentini tra registri diversi se non opposti, trasferendoli nello spettro della dinamica e nella individuazione delle diverse famiglie strumentali. Sono elementi che definiscono non soltanto uno stile ma anche una poetica, fatta di precise costanti. In Bruckner, per esempio, i temi, elementarmente predestinati alla vita sinfonica, non tendono a svilupparsi intrecciandosi, ma a coesistere giustapponendosi: la sua musica non diviene nel corso del tempo, ma abbraccia il corso del tempo riempiendolo e conquistandolo. Il suo andamento è perifrastico e individua nell’errare i propri spazi immaginari, fisici e mentali. Le lunghe arcate a cielo aperto delle meditazioni bruckneriane sospendono il tempo e lo spazio in una assorta contemplazione statica, per trovare poi negli Scherzi impulsi ritmici incisivi e palpitanti di vitalità quasi primordiale, terrena. Sono panorami che si squadernano nelle masse della grande orchestra con evidenza plastica e varietà di forme, ma che rimangono sempre saldamente orientati da un processo musicale interno, cui è sotteso un programma interiore.
Non mancano a questi paesaggi inquietudini sottili, fulminei abbandoni alla depressione e uno strano pudore, dal quale poi riemerge una forza energica e compatta. Le interminabili modulazioni, così fitte e avvinghianti da tradursi a volte in un vero e proprio discorso continuamente “”aperto””, rimandano a una visione di instabilità tipica di un atteggiamento nevrotico, del quale molto farà tesoro Gustav Mahler nelle sue straniate ossessioni; la frattura ormai quasi completa del periodare strofico, lo stesso moto a spirale delle progressioni melodiche sono aspetti di una forma mentis che mette a dura prova le certezze granitiche dell’armonia in più ampie speculazioni, per trovare poi nel porto capiente della dottrina del contrappunto un denso compimento. L’idea di totalità viene rifondata in una nuova visione, nell’essenza. La problematica del dopo Beethoven, che tanto angustiò Brahms, vi appare come superata, sostituita semmai da una spontanea inclinazione verso Schubert, che porta alla scoperta di una dimensione di sogno, insieme individuale e universale, e da un’assimilazione profonda, tenace delle tecniche compositive e della strumentazione di Wagner, il suo idolo. Anche da questo punto di vista Bruckner ci appare come un creatore isolato ma attento, che getta ponti saldissimi verso il futuro.
Proprio la fanciullesca ammirazione per Wagner (si racconta che in sua presenza una volta fosse caduto in ginocchio, letteralmente in adorazione) valse a Bruckner  più di un’incomprensione alla sua epoca. Aveva avuto l’ingenuità di dedicargli la Terza Sinfonia, infilandoci anche qualche tema della Tetralogia. La cricca Hanslick-Brahms, che spadroneggiava a Vienna, si mise immediatamente all’opera: la prima esecuzione, il 16 dicembre 1877, fu accompagnata da una tempesta costante di derisioni e di fischi, seguita dall’abbandono in massa della sala all’ultimo tempo: alla fine vi si trovavano, con l’autore, non più di una dozzina di persone. Ciò non gli impedì di perseverare e di concepire per Wagner, nell’Adagio funebre della Settima Sinfonia, una delle più struggenti celebrazioni della morte di un grande che la storia della musica ci abbia tramandato. Anche in questi casi Bruckner non perdeva la sua imperturbabilità, rimettendosi alla volontà del Signore, del quale era servo fedele, senza risentimenti per chicchessia. Solo una volta, richiesto dall’imperatore Francesco Giuseppe su che cosa si potesse fare per lui, rispose umilmente: “”Guardi, Vostra Maestà, se può ottenere che questo Hanslick scriva un po’ meno scortesemente di me””. Erano questi i suoi modi. Non stupisce che venisse etichettato come un debole e che gli amici, o coloro che credevano in lui, si affannassero per venirgli in soccorso. Agli allievi che si permettevano di consigliare o appartare ritocchi alle sue partiture al fine di renderle più abbordabili non si oppose mai con decisione: forse anche quello era un segno della divina Provvidenza. Ma oggi che conosciamo per filo e per segno le sue intenzioni e che possiamo ritornare alle lezioni originarie, ci accorgiamo di quanto superiori fossero le sue intuizioni, coerenti le sue ampie elaborazioni, soprattutto necessarie da cima a fondo.
Bruckner fu una figura contraddittoria, inesplicabile e in parte quasi assurda. Il lascito musicale ribadisce la sua grandezza, ma lascia irrisolto l’enigma sui rapporti non soltanto tra vita e arte, ma anche tra arte e coscienza. L’impressione monolitica di monumentalità deriva in primo luogo dal fatto che egli, nelle sue nove Sinfonie (più due giovanili senza numero), sembra comporre sempre lo stesso tipo di sinfonia, compiere sempre lo stesso tragitto dalle tenebre alla luce. Per quanto possa variare la qualità e il formato, il modello di fondo rimane inalterato e individua una concezione del mondo. Come definirla? Forse, al tempo stesso, immanente e predestinata. Resta però il mistero di che cosa si celi dietro questa incrollabile fiducia nell’eloquenza della sinfonia: un sisma profondo e sotto certi aspetti devastante. E’ dalla relazione tra questi aspetti che trae vigore e interesse la creazione artistica di Bruckner. Per un estremo paradosso la sua ultima Sinfonia, dedicata nientemeno che “”al buon Dio””, rimase incompiuta, monca proprio di quel finale che ne avrebbe dovuto suggellare l’apoteosi. Quest’erma sublime che chiude il periplo della vita artistica di Bruckner suggerisce un’incompiutezza che retrospettivamente si riflette su tutta la sua figura: un tratto straordinariamente moderno. Ma senza drammi, senza residui di una coscienza della crisi. O almeno senza segni esteriormente apparenti. Nel pomeriggio dell’11 ottobre 1896, mentre componeva al pianoforte il finale della Nona Sinfonia, Bruckner fu preso da un brivido, chiese del tè caldo, si mise a letto e molto semplicemente, semplicemente com’era vissuto, morì. E fu tutto.      
                    
    Sergio Sablich
 

DOCUMENTI

“”Portava sempre una giacca nera di lana ruvida; aveva la testa rasata, il naso aquilino, il collo d’avvoltoio sporgente da un ampio colletto bianco. Teneva il largo cappello di feltro in una mano, nell’altra un fazzoletto azzurro, per asciugarsi il sudore che gli scendeva sulla fronte o ripulirsi dal tabacco da naso i corti baffi grigi. E’ da meravigliarsi che frotte di monelli gli dessero la baia?””. Così un contemporaneo descrive Anton Bruckner. Sono scarsi i ricordi o gli aneddoti che ci parlano di colui che una volta disse di comporre “”affinché quando Dio mi chiamerà e mi domanderà: ‘Che ne hai fatto del talento che ti ho dato?’, io possa superare la prova””. Bruckner non ha lasciato testimonianze scritte della sua vita di artista. Se si eccettuano le Lezioni di armonia e contrappunto all’Università di Vienna, edite a Vienna nel 1950, che rivelano la puntuale acribia del suo magistero tecnico ma non affrontano mai questioni di estetica, null’altro possediamo del suo rapporto con la musica: esso, come quello di Schubert, è interamente affidato alla creazione. Poco ci informano le lettere, che hanno un tono sommesso e formale, puramente d’occasione. Esse confermano la natura schiva e appartata del musicista, restio ad affrontare, anche di passaggio, questioni che lo riguardino sia come compositore sia come uomo. Ne riportiamo un paio, tipiche della sua personalità. La prima è una lettera al figlio del suo maestro di contrappunto Simon Sechter: “”Quando ero ancora organista del duomo di Linz, mi recai per Pasqua dal mio maestro Sechter a Vienna, per consegnargli alcuni lavori di contrappunto. Con il cuore in tumulto sottoposi a Sechter gli esempi. In un punto mi ero permesso di allontanarmi dalle sacre regole. Sechter però non ammetteva libertà nella composizione. In questi casi diventava terribile. Quando il maestro giunse al punto temuto, scosse gravemente il capo. Poi mi guardò con aria di rimprovero, mi puntò contro l’indice e disse contrariato: ‘Mi pare che anche Lei sia uno di quelli…’ E io mi vergognai moltissimo””. La seconda è una lettera contenente una goffa proposta di matrimonio (con esito negativo: benché lo desiderasse ardentemente, Bruckner non si sposò mai) a Josefine Lang, del 16 agosto 1866 (Bruckner aveva dunque già 42 anni): “”Stimatissima, gentilissima Signorina! […] La mia più grande e sentita preghiera, che con questa mia oso rivolgere a Lei, Signorina Josefine, è per sapere se la Signorina Josefine volesse gentilmente per la mia futura tranquillità comunicarmi per iscritto nel modo più aperto e sincero la Sua ultima e definitiva ma anche decisiva risposta alla domanda: posso nutrire speranze in Lei e chiedere ai Suoi cari genitori la Sua mano? O non Le è possibile fare con me il passo coniugale per mancanza di una personale propensione? Guardi Signorina che la domanda è assolutamente decisiva, La prego insistentemente di farmi pervenire per iscritto il più presto possibile o l’una o l’altra risposta in modo altrettanto deciso e chiaro. Per favore, la Signorina Josefine dica questo ai Suoi cari genitori e a nessun altro (La prego di voler mantenere il più stretto riserbo) e scelga uno dei due punti della domanda sopra esposta in accordo con i Suoi cari genitori. Il mio caro amico Suo Signor fratello mi ha già preparato a tutto e dovrebbe secondo la sua promessa averLa già informata. Le ripeto la domanda: vuole la Signorina apertamente, sinceramente e in modo del tutto definitivo scrivermi se: posso chiedere la Sua mano, o ricevere da Lei un totale, eterno diniego? La prego di non usare perifrasi o frasi interlocutorie di mezze promesse, giacché per me il tempo massimo è già scaduto (sono inoltre sicuro che non sia facile cambiare il Suo effettivo sentimento, perché la Signorina è molto assennata). La Signorina può dirmi la pura verità senza preoccuparsi, perché essa in ogni caso mi apporterà tranquillità. In attesa di ricevere al più presto una risposta risolutiva, Le bacio la mano. Anton Bruckner””.          
    Se Wagner considerava Bruckner “”il più importante sinfonista dopo Beethoven””, il suo rivale Brahms non fu certo tenero nei suoi confronti: “”In Bruckner non abbiamo a che fare con delle opere, ma con una vertigine che in uno o due anni sarà morta e dimenticata. Immortali le opere di Bruckner, o forse davvero Sinfonie? Mi viene da ridere”” (testimonianza di Friedrich Klose, in Il mio apprendistato con Bruckner). Ben nota l’acrimonia di Eduard Hanslick, il potente e temuto critico musicale viennese sostenitore di Brahms, che per tutta la sua vita non perse occasione di dargli, anche volgarmente, addosso. Più curiosa questa posizione di Hans Pfitzner, espressa in una lettera al critico Walter Abendroth del 24 settembre 1940: “”Ho ascoltato di nuovo la Nona Sinfonia di Bruckner prefiggendomi ancora una volta di ‘convertirmi’ e di trovarci tutto il bello possibile. Invano! Il risultato è stato che sono più che mai convinto che egli non sia veramente un ‘grande’ e che sia uno sforzo inutile prodigarsi in suo favore: per parte mia non mi lascerò mai più impressionare dal giudizio degli altri. Né più né meno di prima faccio un’eccezione per gli Scherzi, che sono pezzi nei quali si presentano ancora musica e idee, tutto il resto è un gavazzare senza meta nella dinamica e nell’armonia; debbo dirlo chiaramente: si tratta di un dilettante più grande che al naturale! Non cambio più la mia opinione, forse cambierà invece il giudizio del mondo: ne riparleremo tra 15-20 anni””.
    In Italia Bruckner ha potuto contare su un cenacolo di paladini votati alla sua arte, promotori dell’Associazione Italiana “”A. Bruckner”” (nel 1958) aderente alla “”Internationale Bruckner-Gesellschaft”” di Vienna: pionieri appassionati e meritori, ma spesso troppo di parte per risultare in tutto credibili. La voce più autorevole ed equilibrata è quella di Giulio Confalonieri, che nella sua Guida alla musica (volume II, edizioni Accademia) ha dedicato a Bruckner pagine assai ispirate. Particolarmente chiarificatore il passo sui rapporti con Wagner: “”La strumentazione di Bruckner è fondamentalmente diversa dalla strumentazione di Wagner. Basti citare il modo con cui il Maestro austriaco passa bruscamente da una ‘famiglia’ strumentale ad un’altra, senza quelle prolungazioni di almeno un istrumento, che Wagner usava per legar meglio i due colori. Basti citare l’uso bruckneriano delle trombe, in registro grave per far da basso in episodi esclusivamente affidati ai legni e ai corni; basti notare la frequenza con cui Bruckner ‘disarmonizza’ una frase, lasciando un suo membro (spesso l’ultimo membro) del tutto privo di accordi o contrappunti di sostegno; basti ricordare le brevissime interpunzioni di un istrumento di ‘famiglia’ estranea alla famiglia in quel momento impiegata, interpunzioni minime, isolate, quasi inavvertibili, secondo una concezione che Wagner rifiutava in modo assoluto […] Simili procedimenti, che in parte riflettono la tecnica dell’organo, differenziano profondamente, sul piano orchestrale, lo stile di Bruckner e lo stile di Wagner. Altra novità del maestro di Ansfelden, per lo meno novità parziale, sono quei ‘pianissimo’ di tutta l’orchestra, estesa dai contrabbassi, dal trombone basso, dal controfagotto fino ai flauti e ai violini in ‘sopracuto’. Assai spesso, in tali momenti, l’orchestra di Bruckner risuona come il respiro dell’universo””. Come sempre effervescenti e acute le sortite di Giorgio Vigolo (qui il suo Omaggio a Bruckner, da “”Il Mondo””, 1957): “”Per strano che possa sembrare, egli è uno dei musicisti più avanzati, si protende sulla estrema Tule del romanticismo e del sinfonismo, vi sta issato come un santo solitario fra le nuvole di picchi altissimi. Egli è in un certo senso un musicista profetico che ha dei sogni sinfonici nei quali gli appare la musica del futuro, la musica che verrà dopo di lui, con Mahler e i suoi successori […] La singolarità che fa di lui forse un caso unico nella storia di tutta la musica, è la sua doppia essenza. Per un lato è un figlio del popolo, un vero contadino, rimasto tale fin quando ad Arturo Nikisch, che gli aveva diretto la sua prima sinfonia, sgusciava per riconoscenza nella mano, andandolo a ringraziare, uno scudo d’argento di cinque gulden. Episodio che vale tutta una biografia. Semplicità, candore, innocenza, fede assoluta fanno di lui quasi l’ultimo figlio della Natura, rispecchiante i nevai e i pascoli dell’Austria superiore. Per l’altro lato, questa sensibilità naturale, primitiva, ingenua, mette le più grandi forze, i tesori di un’anima ancora intiera, non scissa, ricca di vita sentimentale e affettiva, a disposizione di una ricettività estetica, raffinata all’estremo. E ciò fa di Bruckner uno strumento ultrasensibile, capace di captare i più misteriosi messaggi, le istanze più segrete della musica in un mondo del suono che si dissolve””.     
    Compositore di direttori e per direttori, Bruckner ha ricevuto proprio da questi significativi riconoscimenti. Dal nostro Gianandrea Gavazzeni, per esempio, che nello scritto Il ‘Minnesanger von Got’ (Anton Bruckner), accostamenti e distacchi (in Non eseguire Beethoven e altri scritti, 1974) afferma con la sua solita cultura e perspicacia: “”Direi che il periodare di Bruckner applica con evidenza e larghezza l’aggettivo sostantivato. Il periodo musicale – di preferenza ellittico – ne fa un momento chiave, lo usa quale elemento congiuntivo e risolutivo… Di qui si valuti il rapporto fra l’intervallo che rientra in una media consueta, e l’intervallo nuovo, uscito di getto da un’esigenza individuale. Su questo rapporto s’instaura e cresce il melos di Bruckner… Oltre la biografia, oltre le vicende e il costume di un’epoca e di un ambiente. Nel melos, nei suoi avvii, nelle insistenze, nei ritorni, è la vita morale stessa di Bruckner. Senza diaframmi, mercé rapida comunicazione. Un caso di identità morale ed estetica. Al di là della biografia, appunto, quale materia esistente di per sé, slacciata dalle occasioni di una società, d’un periodo di storia. Eppure è anche storia tutto questo. Perché rientra oltre che nella vita di un individuo, nella storia di un genere musicale, di una pratica religiosa, di una società. Scartati i dati biografici dopo la prima informazione, l’autonomia estetica e morale vigoreggia…””. Ma è il “”guardiano della musica”” Wilhelm Furtwängler, tra i sommi interpreti bruckneriani (debuttò a vent’anni dirigendo proprio la sua Nona Sinfonia), ad aver lasciato una delle testimonianze più belle e partecipi (in Suono e parola, 1938): “”Artisti come Bruckner, nel mondo che li circonda, hanno l’effetto di massi erratici, di memorie di un grande, remoto passato. Essi sembrano legati meno di altri al mondo esterno e alle sue necessità storiche, da esso meno dipendenti. Già con ciò si spiega l’incomprensione che sempre e necessariamente incontrano nella loro vita. Ma proprio per questo costringono tutti e ciascuno a prendere una precisa posizione. Non possiamo che affrontarli direttamente, in quanto uomini d’oggi, occhi negli occhi, oppure trascurarli del tutto. Essi attendono e pretendono anche dall’ascoltatore quella dedizione e quel rapimento senza riserve che porta con sé un frutto meraviglioso. L’umanità non presagisce che cosa significhi per un artista portare un tal destino. Egli ha veramente il suo serto di spine. Ma a noi conviene ringraziare, con riconoscenza e umiltà, la divina Provvidenza, per aver donato a noi ed alla nostra nazione un simile messaggero””.
                        (s.s.)         

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