La prima Kammersymphonie op. 9, finita nella versione per quindici strumenti solisti il 25 luglio 1906 ed eseguita a Vienna nel 1907 dal Quartetto Rosé con altri strumentisti, è un’opera di svolta nella produzione schönberghiana, una pietra miliare sulla strada della sua evoluzione artistica. Senza voltare del tutto le spalle al passato, suo e della tradizione musicale a lui più vicina, Schönberg vi sperimentò con decisione, forse anche con intenti programmatici, nuove soluzioni espressive, estendendo la sua ricerca a tutti gli elementi del comporre: dalla elaborazione tematica al rapporto tra contrappunto e armonia, dalla configurazione formale all’assetto strumentale. E’ quest’ultimo l’aspetto più caratteristico, m anche più problematico, della prima Sinfonia da camera: titolo già ambivalente nella sua formulazione . E’ chiaro che con la scelta di un organico di quindici strumenti solisti (flauto, oboe, corno inglese, clarinetto in re, clarinetto in la, clarinetto basso, fagotto, controfagotto, due corni in fa, primo e secondo violino, viola, violoncello e contrabbasso) l’autore intendeva allontanarsi dal gigantismo orchestrale del sinfonismo romantico e tardo romantico, da lui già accostato in precedenti lavori, e puntare con risolutezza verso uno stile breve e conciso, estremamente concentrato, che gli consentisse di indagare, per così dire allo stato puro, complessi problemi di linguaggio rinunciando alle ripetizioni, alle progressioni e allo sviluppo tematico. E’ interessante a questo proposito riportare quando Schönberg stesso ebbe a dichiarare molti anni dopo, nel 1949: “”Se questa composizione è un vero punto di svolta nella mia evoluzione da questo punto di vista, esso lo è ancor più per il fatto che presenta un primo tentativo di creare un’orchestra da camera. Si poteva forse già prevedere il diffondersi della radio, e un’orchestra da camera in questo caso sarebbe stata in grado di riempire la stanza di un appartamento con una quantità sufficiente di suono. C’era forse la possibilità, in prospettiva, di poter provare con un gruppo ristretto di strumentisti a costi inferiori in modo più approfondito, evitando le spese proibitive delle nostre orchestre-mammuth. La storia mi ha deluso da questo punto di vista: la mole delle orchestre ha continuato a crescere, e nonostante il gran numero di composizioni per piccolo complesso, anch’io ho dovuto tornare a scrivere per grande orchestra””.
Schönberg non si riferiva soltanto alle Variazioni per orchestra, di cui diremo tra poco, ma anche alla versione per grande orchestra della stessa Kammersymphonie op. 9, realizzata nel 1935 e frutto di un ripensamento del rapporto fra ricerca linguistica e realizzazione strumentale. Presupposto del lavoro è infatti la assoluta equiparazione tra i quindici strumenti solisti, con la parziale eccezione dei corni in numero di due e con funzione di guida. Questo equilibrio di fondo, improntato a rigorosa unitarietà nonostante le continue asprezze e deformazioni timbriche, è il tratto distintivo della nuova concezione schönberghiana: in prospettiva, superamento della poetica espressionista e punto di partenza sulla strada della dodecafonia. La tendenza alla condensazione e alla funzionalità di ogni singola unità si estende a tutti i piani della composizione: non a caso l’autore riconosceva, con evidente soddisfazione, che qui “”veramente è stabilita un’intima reciprocità fra melodia e armonia in quanto ambedue riconnettono in una perfetta unità lontane relazioni di tonalità, traggono conseguenze logiche dai problemi affrontati e contemporaneamente compiono un grande progresso in direzione dell’emancipazione della dissonanza””.
Non altrettanto logiche e conseguenti, e quindi soddisfacenti, dovettero sembrargli invece le ragioni, in via di principio ineccepibili, che avevano portato alla scelta della insolita strumentazione. Ancora nel 1916 il compositore notava: “”Credo che in fondo questo uso solistico degli archi in rapporto a tanti fiati sia un errore. Viene infatti meno la possibilità che un solo strumento ad arco, per esempio un violino solo, possa dominare al di sopra di tutti gli altri quando questi suonano insieme””. Non bisogna dimenticare che Schönberg, anche prima di affrontare alla radice il tema della comunicazione nella sua opera-testamento Moses und Aron, era ossessionato dal problema della comprensibilità e temeva che le sue novità, della cui necessità era convinto, incontrassero ostacoli non in quanto tali, ma in quanto non rese completamente percepibili all’ascolto. E per quanto per esempio si adombrasse non poco con Busoni allorché questi nel 1909 aveva pensato di trascrivere il secondo dei Drei Klavierstücke op. 11 in una “”interpretazione da concerto”” proprio per renderlo più pianistico e più accessibile all’ascoltatore, il dubbio che il “”difetto”” della sua opera giovanile, che il vecchio Mahler aveva confessato di “”non capire””, risiedesse nella strumentazione, lo spinse alla decisione della tarda versione orchestrale, in una fase di riordinamento delle sue stesse innovazioni.
A noi oggi, forse anche grazie ai progressi in fatto di consapevolezza e qualità esecutiva che i cinquant’anni trascorsi dalla morte dell’autore hanno assicurato, la versione originale appare non soltanto preferibile ma addirittura irrinunciabile. Essa sta all’altra posteriore un po’ come un testo ostico e assai complesso ma folgorante sta al suo commento esplicativo: questo aiuta a comprendere l’altro, ma non sostituisce o modifica il testo stesso. Basta ascoltare il memorabile inizio, con l’idea armonica del pezzo (ossia la serie per quarte sovrapposte) prima distribuita in accordi (“”Lento””) e poi esposta melodicamente dal corno solo (“”Molto presto””), per rendersi conto della necessità di una scrittura brusca e aggressiva, accumulata su superfici sonore crude. Essa, nella sua rudezza, è coerente con il processo innovativo in cui si incarna il legame tra verità interiore ed espressione esterna, rappresentata dalla stessa compresenza di un’armonia tonale (mi maggiore, perfino indicata in chiave) con un’armonia liberamente atonale. La fittissima densità della scrittura polifonica è l’esatto corrispettivo di una concentrazione formale che costringe nell’arco ininterrotto di un solo movimento frastagliato i caratteri dei quattro tempi tradizionali di una sinfonia. Non un poema sinfonico, ma un delirio incandescente e razionale nel quale una mostruosa forma-sonata pentapartita ingloba, dopo l’esposizione dell’Allegro di sonata, uno Scherzo seguito dalla Durchführung (davvero più “”svolgimento”” che “”sviluppo””) e, prima della ripresa, che funge anche da finale, un Adagio dolcissimo e bruciante. Per questa cavalcata selvaggia alle soglie di allucinate introspezioni non occorre un’intera orchestra, ma una rappresentanza scelta di apostoli.
Arnold Schönberg
Variazioni per orchestra op. 31
Introduzione: Mässig, ruhig (Moderato, tranquillo) – Thema: Molto moderato – I variazione: Moderato – II variazione: Langsam (Lento) – III variazione: Mässig (Moderato) – IV variazione: Walzertempo (Tempo di valzer) – V variazione: Bewegt (Mosso) – VI variazione: Andante – VII variazione: Langsam – VIII variazione: Sehr rasch (Molto rapido) – IX variazione: L’istesso tempo, aber etwas langsamer (ma un poco più lento) – Finale: Mässig rascher (Moderatamente più rapido), Presto, Noch rascher (Ancora più rapido), Adagio, Presto.
Iniziate a Berlino nella primavera del 1926 e terminate, dopo una lunga interruzione, a Roquebrune in Francia nell’estate del 1928, le Variazioni per orchestra op. 31 sono il primo lavoro strumentale di grandi dimensioni di Schönberg successivo all’istituzione del nuovo ordine dodecafonico. La ragione esterna di questa composizione, stando a una dichiarazione dell’autore stesso (Intervista con me stesso, del 6 ottobre 1928), fu dimostrativa: ritornando con questo pezzo all’orchestra tradizionale dopo aver sperimentato le leggi della “”composizione con dodici note”” in piccoli complessi, Schönberg intendeva sfidare le difficoltà pratiche che si opponevano alla diffusione del suo pensiero musicale, dal momento che il pubblico mostrava in generale di essere impressionato soprattutto da composizioni di organico piuttosto ampio (“”In nazioni di civiltà più recente i nervi, meno affinati, esigono il monumentale, ed è quasi impossibile allora non attirare l’attenzione durante l’esecuzione: se non altro così c’è sempre qualcosa da vedere””). Quanto alla necessità del metodo dodecafonico e alla sua definizione, Schönberg aveva e avrebbe affermato più volte di esservi giunto attraverso una graduale esperienza che lo aveva portato, quasi inconsapevolmente, su questa strada. “”Non fu né una via strettamente rigorosa, né un manierismo, come spesso accade nelle rivoluzioni dell’arte. Personalmente detesto di essere considerato rivoluzionario perché non lo sono. Ciò che ho fatto non fu né rivoluzione, né anarchia. Fin dai primissimi inizi ho sempre posseduto un senso assai sviluppato della forma e una forte avversione per l’esagerazione. Non v’è ricaduta nell’ordine, perché non ci fu mai disordine. Non v’è ricaduta in nessun senso: v’è solo un’ascesa verso un ordine superiore e migliore”” (lettera del 2 giugno 1937 a Nicolas Slonimsky) .
Le Variazioni per orchestra op. 31 sono anzitutto un condensato di scienza contrappuntistica applicata al sistema dodecafonico: una sorta di Arte della fuga della composizione seriale. Infatti, per quanto Schönberg utilizzi ancora una forma tradizionale e operi un arricchimento dei mezzi espressivi attenendosi alla forma della variazione intesa soprattutto in senso ritmico-melodico, l’insieme che ne deriva, e il modo stesso in cui viene impiegata la serie di dodici note, configurano una costruzione musicale basata sulla variazione in divenire, aprendo la strada al principio della variazione integrale di tutti i parametri dello spazio sonoro (altezza, durata, intensità, timbro) che troverà in Webern il suo compimento. Di questa duplicità Schönberg era perfettamente consapevole. Nella fondamentale Analisi delle “”Variazioni”” op. 31, scritta per una conferenza tenuta alla radio di Francoforte il 22 marzo 1931, egli affermava: “”Le Variazioni per orchestra sono vicine senza dubbio a un tipo di impostazione sinfonica, anche se questo è contraddetto dal fatto che, per quanto le singole variazioni possano avere un’intima coesione, esse sono pur sempre allineate una dopo l’altra, giustapposte, mentre il processo sinfonico è un’altra cosa: in esso le immagini musicali, i temi, le figurazioni, le melodie, gli episodi si susseguono come scadenze del destino in una vita umana, in modo certamente assai vario ma pur sempre logico, collegato e interiormente coerente, costruttivo dal loro interno, non sono cioè puramente e semplicemente contrapposti. Forse questo paragone potrà chiarire la differenza: le variazioni sono come un album contenente vedute di un luogo o di un paesaggio, che vi mostrano singoli punti, mentre la sinfonia è simile a un panorama, dove certamente si potrebbe anche osservare ogni particolare per se stesso ma dove in realtà questi particolari sono strettamente collegati e intrecciati fra loro””.
Le Variazioni per orchestra sono dunque un’opera di tecnica rigorosa e di costruzione quasi geometrica, ma, come scrive acutamente Giacomo Manzoni, “”la sostanza musicale non si rovescia mai in aridità o accademismo. In effetti sotto questa veste puntuale freme e ancora si contorce la coscienza espressionistica dell’autore in un delirio raggelato che richiama le costruite allucinazioni di Kafka o gli spazi di Klee, increspati di impercettibili fremiti d’angoscia. L’impiego rigoroso dei principi compositivi della dodecafonia porta seco altresì una novità letteralmente clamorosa che da tecnica si capovolge in qualitativa, e costituisce una delle peculiarità più singolari dell’opera: stante il divieto posto da Schönberg di evitare nel metodo dodecafonico il raddoppio d’ottava, anche a scopo di rinforzo strumentale, queste Variazioni sono la prima composizione della storia dell’orchestra in cui ogni agglomerato sonoro si presenta privo di tali raddoppi, quali invece erano di uso del tutto corrente in qualsiasi composizione orchestrale anche nel campo della libera atonalità””. In questa direzione va anche il trattamento della strumentazione, che unisce alla massa dei normali strumenti ad arco e a fiato (questi ultimi a quattro) alcuni strumenti specificamente “”timbrici”” come l’arpa, la celesta, il mandolino, lo xilofono, il Glockenspiel, il flexatono (idiofono a frizione simile alla sega), il carillon e una nutrita schiera di percussioni, allo scopo di ottenere, all’interno dell’orizzonte polifonico, ricche rifrazioni timbriche e nuovi colori strumentali di segno caratteristico.
A ciò concorre anche la natura apertamente melodica del tema, presentato dopo una sezione di Introduzione nella quale gli incisi melodici costitutivi del tema stesso “”prendono rilievo a mano a mano in una sorta di bruma indistinta”” (ancora Manzoni): vi compare, simbolicamente, la citazione del motivo di quattro note legato al nome Bach (in notazione tedesca: si bemolle, la, do, si naturale), destinato in seguito a svolgere un’importante funzione di raccordo tra inizio e conclusione. Il tema delle variazioni, esposto dai violoncelli e concluso dai violini, assomma tutte e quattro le forme della serie, nell’originale e nella trasposizione alla terza minore. Le successive nove variazioni, ciascuna di carattere assai ben profilato, rispecchiano esattamente l’articolazione formale del tema. La prima lo presenta negli strumenti gravi, con figurazioni varie, assegnate a parti ora principali ora secondarie. Nella seconda variazione il primo violino e il primo oboe presentano l’inversione del tema in imitazione a canone: questa variazione, in tempo lento, ha carattere cameristico, in quanto impiega quasi solo strumenti solistici. Nella terza variazione, di carattere impetuoso e appassionato, il tema è affidato prima ai corni e poi alla tromba, in un crescendo travolgente di energia sonora e ritmica. Segue una variazione in tempo di valzer (un valzer “”idealizzato, lento, cantabile, che assomiglia al Ländler””, precisa l’autore), con il tema appena riconoscibile eseguito da tre strumenti soli (arpa, celesta e mandolino) e la melodia principale assegnata all’inizio al flauto, poi al clarinetto, infine ai violini. La quinta variazione, quella centrale, è forse la più complessa: essa è costituita da molti elementi che vengono incessantemente variati sull’ostinato di un ritmo angoloso introdotto dai tromboni e riflesso in sincope nel registro grave (difficile all’ascolto notare come questo ritmo comprenda in sé le note del tema). La sesta variazione è un Andante di intonazione cantabile, nel quale il tema ricompare distesamente in forma di accompagnamento ai tre violoncelli solisti. Con la rarefatta settima variazione spicca in primo piano l’elemento timbrico: mentre una figurazione che è svolta come parte principale passa di strumento in strumento, il tema volteggia all’estremo acuto affidato inizialmente a ottavino, Glockenspiel, celesta e quattro primi violini soli. L’ottava e la nona variazione, entrambe assai brevi, in tempo “”molto rapido”” (ma “”un poco più lento”” la seconda), possono essere accomunate in quanto si basano sulla stessa figurazione tematica e sono di carattere analogo: irruente e fremente la prima, più distesa e cameristica la seconda, con carattere quasi di marcia funebre. Eccoci ora al vasto finale, sorta di “”sentenza”” riassuntiva. Esso inizia con una introduzione che richiama nuovamente il nome di Bach in maniera particolarmente solenne; seguono una serie di ulteriori elaborazioni del tema delle variazioni, in molte varianti, forme a specchio e diminuzioni, con alternanza di tempi mossi, moderati e rapidi. “”Nel finale”” – spiegava Schönberg – “”non si sentirà più il tema delle variazioni in tutta la sua estensione, ma solo scomposto in frammenti, in singole tessere che vengono collegate tra loro in modo diverso””. Prima del Presto si ha ancora l’interruzione di un Adagio, dove il tema delle variazioni riappare in sovrapposizione contrappuntistica.
Le Variazioni per orchestra op. 31 di Schönberg furono eseguite in prima assoluta il 2 dicembre 1928 a Berlino da Wilhelm Furtwängler nella stagione dei Berliner Philharmoniker. Il programma comprendeva anche la prima esecuzione alla Filarmonica della cantata per baritono e orchestra Lethe op.37 di Hans Pfitzner, un’aria dalla Euryanthe di Weber e la grande Sinfonia in do maggiore di Schubert. L’accoglienza fu disastrosa, tanto che alla ripetizione del concerto, il 3 dicembre, il pezzo di Schönberg venne tolto dal programma. Può essere utile riportare quanto Schönberg osservava nella già citata analisi delle Variazioni: “”Questa è la mia situazione: sono in minoranza non solo nei confronti degli amici della musica leggera, ma anche di fronte agli amici della musica seria. A nessuno viene in mente di essere ostile agli eroi che osano affrontare il volo transoceanico o al polo nord, in quanto la loro impresa risulta subito palese a tutti. Ma benché l’esperienza abbia dimostrato che molti uomini erano pionieri già da lungo tempo, e che si trovavano sulla giusta via quando ancora li si riteneva esploratori con qualche rotella fuori posto, l’ostilità della maggioranza si rivolge sempre contro coloro che si spingono verso l’ignoto nei campi dello spirito””.