Antonìn Dvoràk – Sinfonia n. 7 in re minore op. 70

A

La Sinfonia “”del tempo torbido””

 

Accanto a Smetana e Janàček – rispettivamente più anziano e più
giovane di lui di circa una generazione – Dvořàk è l’esponente centrale della musica nazionale ceca, quello che meglio rappresenta il tentativo di integrazione fra tradizione colta e spirito popolare slavo. Dei tre egli appare il più vicino alle correnti classiciste del romanticismo. La sua adesione alle strutture formali classiche non è infatti mediata da rovelli ideologici, né schermata da filtri intellettuali: l’ispirazione genuinamente popolare che vivifica il suo fecondo e spontaneo melodismo è lungi dal porsi polemicamente come alternativa ai modi creativi della tradizione eurocentrica, con cui tende invece a fondersi contemperando un robusto senso formale e una naturale ricchezza d’invenzione: il tutto sempre sotto il segno di una comunicativa diretta e di un innato, fondamentale ottimismo. In questa integrazione risiedono l’importanza della soluzione stilistica adottata da Dvořàk nell’ambito delle scuole nazionali del secondo Ottocento e il segreto della grande popolarità goduta ai suoi tempi, e oggi ingiustamente ridimensionata, tanto dalle sue composizioni sinfoniche e dai suoi tre Concerti per strumento solista e orchestra quanto dai lavori di più pretta ispirazione nazionale e di sensibile reinvenzione folklorica, Danze slave in testa.

Dvořàk è autore di nove Sinfonie, ma soltanto cinque sono entrate a far parte del repertorio, e soltanto una del grande repertorio. Le prime quattro, composte tra il 1865 e il 1874, non furono ritenute degne di pubblicazione dall’autore e videro editorialmente la luce solo dopo la sua morte. Le altre hanno una doppia numerazione, a seconda che si consideri l’ordine cronologico di composizione o quello di pubblicazione. La Quinta Sinfonia (in fa maggiore, 1875) fu pubblicata come Terza op. 76 nel 1888; la Sesta (in re maggiore, 1880) come Prima op. 60 nel 1882: così la Sinfonia n.7 in re minore apparve come n. 2 op. 70 nel 1885, e come tale è spesso ancora indicata. Seguirono l’Ottava in sol maggiore del 1889 (pubblicata come n. 4 op. 88 nel 1892) e infine l’ultima, più famosa di tutte, la Nona in mi minore del 1893 (ovvero Quinta nel 1894, Dal nuovo mondo). Esse furono pubblicate dall’editore Simrock di Berlino, l’amico per il cui tramite Dvořàk aveva conosciuto il suo idolo Brahms; con 1′ unica eccezione della Ottava-Quarta, acquisita da Novello a Londra e per questo nota anche con l’appellativo di “”inglese””.

La Settima Sinfonia di Dvořàk risale all’epoca delle prime affermazione internazionali del compositore. Il lavoro nacque su richiesta della Società Filarmonica di Londra, che glielo commissionò sull’onda degli strepitosi successi da lui ottenuti durante la sua prima visita a Londra del marzo 1884, quando furono eseguite con successo parecchie composizioni, tra cui la Sinfonia in re maggiore (l’unica fino ad allora pubblicata) e lo Stabat Mater. Non bisogna dimenticare che fino a quel momento la notorietà internazionale di Dvořàk era legata soprattutto alla caratterizzazione esplicitamente folklorica delle Danze slave, la cui prima serie, subito trascritta per orchestra dall’originale per pianoforte a quattro mani, proprio Simrock aveva caldeggiato e pubblicato nel 1878. Il successo colto a Londra aveva convinto Dvořàk, allora impegnato a coltivare soprattutto il sogno del teatro, a riprendere in mano il discorso della Sinfonia: decisione che, almeno a giudicare dagli abbozzi e dalle lettere ad amici ed editore, gli costò una fatica più grande e una meditazione più profonda di quanto fosse stato richiesto prima da qualunque altro suo lavoro. Il modello perseguito è esplicitamente quello di Brahms, la cui Terza Sinfonia, diretta dall’autore, Dvořàk aveva ascoltato a Vienna nel 1883 e poi nuovamente con ancor maggiore impressione a Berlino alla fine di gennaio del 1884. Da queste premesse discende il carattere della Settima Sinfonia, alla cui severa tensione calata in un clima espressivo perfino austero parve confarsi uno di quei sottotitoli cari all’immaginario poetico dell’individualismo romantico: “”del tempo torbido””. In essa Dvořàk tentò una delle sue più ambiziose mediazioni: dare a un contenuto tragico una dimensione epica senza perdere di vista l’ideale di una riflessiva e omogenea coesione formale, attraverso e oltre Brahms.

Nata tra la fine del 1884 e la metà di marzo del 1885 (per l’esattezza la data finale apposta sulla partitura.è 17 marzo 1885), fu eseguita per la prima volta al St. James Hall di Londra il 22 aprile dello stesso anno sotto la Direzione dell’autore. Nonostante la buona accoglienza, Dvořàk ebbe dei ripensamenti e ne rielaborò alcuni passi, soprattutto del movimento lento (se si deve prestar fede all’eccellente edizione discografica realizzata da Wolfgang Sawallisch con l’orchestra di Filadelfia, la ascolteremo invece nella versione originare). Ma la sensazione di aver colto nel segno Dvořàk la ebbe soltanto allorché assistette, il 27 e il 28 ottobre del 1889, a due straordinarie esecuzioni dirette a Berlino da Hans von Bülow a capo dei Filarmonici: il suo entusiasmo fu tale che volle inserire un ritratto del celebre direttore nel frontespizio della partitura, aggiungendovi sotto queste parole: “”Che Lei sia lodato! Lei ha portato alla vita il mio lavoro!””.

Il contenuto espressivo del primo movimento, che può degnamente essere accostato all’illustre modello bramhsiano, è sintetizzato dal tema appassionato e gravido di presagi che viole e violoncelli espongono all’inizio: quasi un misterioso sospiro venato di disperazione, ma con un senso crescente di tensione. Si oppone ad esso un secondo tema più affabile e disteso, in si bemolle maggiore, nella cui cantabilità virilmente malinconica luccicano altre reminiscenze brahmsiane, per esempio del tema principale dell’””Andante”” del Secondo Concerto per pianoforte. Gli interventi su questa melodia alleggeriscono la tensione che gli elementi tematici e ritmici del primo tema comunicano all’intero movimento, pervadendone lo sviluppo, breve e pregnante, e soprattutto la ripresa assai accorciata, che sfocia in una coda in fa maggiore di tono dichiaratamene epico: giubilo che subito si spegne nel ritorno a re minore e nella poetica conclusione, quando – quasi depurato della sua carica emotiva – il tema è echeggiato dolcemente da due corni fino a dissolversi nel silenzio.

Il secondo movimento è in fa maggiore, secondo la più classica delle relazioni tonali. Esso oscilla tra serenità e inquietudine: all’inizio e alla fine l’atmosfera è di una calma, quasi spirituale rassegnazione, di impronta elegiaca; ma in mezzo trovano spazio molte esplosioni di contrastante passione. Qui un lirismo di derivazione marcatamente romantica, non privo di colorature naturalistiche – si noti l’impiego in chiave evocativa del timbro nobilmente appassionato del corno – lascia affiorare memorie lisztiane ed echi wagneriani, culminanti in una quasi citazione tristaniana. L’arte della strumentazione sfrutta un’ampia tavolozza di colori orchestrali, quasi perdendosi nel sogno di un paesaggio mitico, arcadico: tanto che vien quasi la tentazione di considerare questo movimento come un ricordo di visioni lontane, arcanamente trasfigurate dall’emozione.  

Conformemente alla tradizione classica la tonalità principale (re minore) ritorna nel terzo movimento, che nonostante il titolo “”Scherzo”” è in effetti un robusto furiant basato su due melodie esposte simultaneamente sui metri contrastanti di 6/4 e 3/2. Il clima elegiaco del secondo movimento si dissolve nella baldanzosa energia di un ritmo di danza rinvigorita da energiche sottolineature contrappuntistiche. La medesima sovrapposizione ritmica persiste lungo il Trio, imperniato nella tonalità contrastante di sol maggiore; ma qui il materiale tematico è prevalentemente in 6/4, mentre il ritmo in 3/2 è affidato alle figure di accompagnamento.

La struttura del Finale si ricollega a quella del primo movimento, quasi a voler stabilire una correlazione simmetrica improntata alla stessa circolarità. L’ inizio, senza preamboli, è tenebroso e carico di tensione, ma lo sviluppo si rasserena fino alla comparsa di una struggente melodia esposta dai violoncelli che non può non far pensare all’equivalente momento del Finale della Terza di Brahms. La cifra espressiva conferma la parabola emotiva dell’intero lavoro ma nello stesso tempo la trascende verso una conclusione senza meno positiva, guidata dai due energici temi principali ora riuniti in una perorazione trionfale, sigillata a piena orchestra in apoteosi dalla coda in re maggiore.

Wolfgang Sawallisch / Philadelphia Orchestra
Ente Autonomo del Teatro Comunale di Firenze, 60° Maggio Musicale Fiorentino

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