Antonìn Dvořàk – Stabat Mater per soli, coro e orchestra op. 58

A

In pianto presso la croce: lo Stabat Mater di Dvořàk

 

Nato nel villaggio boemo di Nelahozeves (l’odierna Múhlhausen) nel 1841, morto a Praga nel 1904 (sicché anche questa esecuzione di un suo capolavoro s’inserisce con pieno diritto nell’ambito delle celebrazioni del centenario), Antonìn Dvořàk proveniva da una famiglia della piccola borghesia radicata in un robusto ceppo contadino. Fu avviato precocemente alla musica, com’era costume dei suoi avi e della sua terra, ma non fu un compositore precoce: colse infatti il primo vero successo nel 1873, a trenta e passa anni, con un Inno patriottico che si inseriva compiutamente nella corrente irredentista propria degli ambienti culturali boemi. E’ dell’anno seguente un riconoscimento prestigioso, con la vittoria di una borsa di studio del governo austriaco assegnata da una giuria composta, fra gli altri, dal famoso critico Eduard Hanslick e da Johannes Brahms. Tali tappe della carriera di Dvořàk seguivano da vicino anche la personale evoluzione dello stile del compositore. Se gli esordi creativi si erano svolti all’insegna della scuola neotedesca di Liszt e di Wagner, il cui modernismo sembrava più adatto a veicolare i contenuti nazionalistici peculiari della cultura cèca – ideali nei quali Dvořàk credeva fermamente -, fu proprio intorno al 1873 che lo stile di Dvořàk subì una brusca virata verso il sinfonismo puro e gli ideali di classico equilibrio della forma, ideali che trovavano nuova linfa nelle melodie di ispirazione popolare. Fu appunto questa peculiare mistura fra equilibrio formale e melodiosità slava che portò a riconoscere in Dvořàk un musicista dalla personalità inconfondibile, né conservatore né radicale, capace di apparire alla borghesia boema come un’incarnazione dell’identità nazionale, o anche di farsi ammirare di fronte all’intera Europa (e in seguito nel Nuovo Mondo) per la raffinatezza della scrittura e la solidità costruttiva delle sue opere. In questo processo di evoluzione e di affermazione un ruolo non secondario fu giocato da Johannes Brahms, che oltre a divenire un modello di riferimento per l’autore boemo, lo sostenne con il suo incoraggiamento, presentandolo fra l’altro all’editore Simrock di Berlino. Proprio Simrock si accollò il rischio di pubblicare la prima grande opera corale di Dvořàk, lo Stabat Mater, dopo che il lavoro era stato eseguito per la prima volta con buon successo a Praga il 23 dicembre 1880 sotto la direzione di Adolf Czech. Composto fra il 1876 e l’autunno del 1877, lo Stabat Mater è strettamente legato a una catena di eventi luttuosi che avevano colpito in quel breve volgere di tempo la famiglia del musicista: la morte prematura, uno dopo l’altro, dei suoi tre bambini. Dvořàk, uomo di fede profonda, rimase tanto segnato da questi avvenimenti che cercò conforto in un archetipo del lutto materno e iniziò a mettere in musica, pur non conoscendo bene il latino, i versi duecenteschi della famosa Sequenza di Jacopone da Todi dello Stabat Mater: un percorso negli abissi del dolore scandito dalle invocazioni e dall’angoscia di una Madre, la Madre di Dio, in pianto presso la croce del divino suo Figlio. Partita come una confessione privatissima, l’opera si venne poi però sciogliendo in una semplicità rasserenante, appena velata da un’ombra, costante, di tristezza e confortata dai tratti di una partecipe coralità popolare. In altri termini, la tragedia personale dell’autore si stempera nell’afflato collettivo e il passo duro, aspro, legnoso del testo medievale si quieta in impreviste oasi di serenità. Atteggiamenti musicali tipici del dolore romantico (modi minori, andamenti cromatici, accordi di settima diminuita, rulli di timpani e simili) si alternano frequentemente a modi maggiori e a climi rasserenati, quasi a suggerire l’afflizione stessa come uno stato transitorio verso la beatitudine. In questa composizione solenne, ieratica e al tempo stesso delicata, di forte ispirazione sacra e religiosa ma non confessionale, con alcune puntate nella drammaticità di segno teatrale, Dvořàk conferì alla melodicità un tono alto, sempre sostenuto però dal respiro del patrimonio etnico della sua terra, e una compunzione classica che la eleva a un lirismo di richiamo quasi schubertiano, mentre la costruzione musicale è improntata a un’austerità che a momenti ricorda addirittura Händel. I dieci pezzi in cui è suddivisa l’opera, distribuita tra parti solistiche e corali, hanno un andamento e un carattere uniforme, tendenzialmente grave e moderato (si tratta in realtà di dieci tempi tutti quasi lenti, trattenuti, con un unico scatto vivace nell’Amen conclusivo) e sembrano voler smussare gli angoli, distendere la tragedia in un bagno di malinconia corale che trova consolazione nell’immensa nostalgie per le melodie, i ritmi, i colori, i riti del proprio originario villaggio di campagna. Questo idioma locale affiora continuamente nelle pieghe

dello Stabat Mater, col suo soffio struggente, le cadenze di danza, l’intimità raccolta. Anche se non mancano momenti di scrittura severa, dominati da un contrappunto robusto e da sonorità amplificate

è il tono affettuoso, mite e rassegnato, a far da pedale all’intera composizione. Sonorità fresche, tinte campestri, dolcezza, ritualità chiesastica si compongono in una misura spirituale che attraversa il dolore mirando alla conquista di una calma serenità.

La cornice espressiva resta morbida e contemplativa persino nelle figure iniziali della visione della Madre addolorata in pianto presso 1° croce da cui pende il            Figlio,   disegnate su frammenti di scale

cromatiche discendenti a ondate, quasi fossero ferite sotterranee, venature di un indicibile dolore. Il successivo Quartetto “”Quis es homo”” rende quasi visivamente l’immagine del pianto, del dolori della madre di Cristo davanti a tanto supplizio: ma è un tormento che diviene voce di un sentimento universale. L'””Eja, Mater”” è una marcia funebre nella quale il coro assume su di sé lo strazio del martirio e chiede di poter condividere le lacrime del lutto materno. Al basso solo è affidato il quarto numero, “”Fac, ut ardeat cor meum””, ma ben presto vi si aggiunge il coro a diffondere calore e intimità, pronto a preparare il lirismo affettuoso del brano seguente, una cullante pastorale in 6/8

germinata dalle parole dell’incipit “”Tui nati vulnerati””. Accenti austeri, di declamazione scolpita, assume l’aria del tenore con coro “”Fac me vere””, dove emerge in primo piano il tema della vicinanza e della condivisione, in efficace contrasto con la assorta, devota preghiera del coro in pianissimo “”Virgo Virginum preclara””. Gli ultimi tre numeri presentano un percorso di intensificazione emotiva. “”Fac ut portem”” è un duetto per soprano e tenore, accompagnato da un ricco procedere dell’armonia che dà slancio al lirismo dei due solisti. “”Inflammatus”” è invece un’aria per contralto solo di stile quasi barocco, concitato, intensamente espressivo, acceso dal sentimento della speranza. Il “”Quando corpus morietur”” conclusivo, nel quale ai quattro solisti si aggiunge il coro, rappresenta il vertice drammatico del lavoro, riportando al clima severo e punteggiato da cromatismi dell’inizio ed evidenziando così l’architettura circolare, anzi chiusa a cerchio, della partitura. Di qui si stacca il solenne ottimismo dell’Amen finale, in re maggiore e in tempo Allegro molto: un’invocazione alla pace e all’eternità della vita oltre la morte, nella quale del corpo dissolto rimarrà soltanto l’anima e ad essa sarà donata la gloria del Paradiso.

Daniel Oren / Micaela Carosi, Petra Lang, Massimiliano Pisapia, Giorgio Surian, Orchestra e Coro (diretto da Marco Faelli) dell’Arena di Verona
Fondazione Arena di Verona, Stagione Lirica 2003/2004

Articoli