Antonìn Dvořàk – Stabat Mater, per soli, coro e orchestra

A

Il nome di Dvořàk viene per lo più associato al compositore di sinfonie, delle Danze slave e di qualche concerto (soprattutto quello per violoncello) mai uscito dal repertorio. La sua produzione è pero molto più copiosa e abbraccia non solo il teatro e la musica da camera ma anche la musica sacra, con numerosi lavori di vasto impegno compositivo. Questa produzione trova raramente spazio al di fuori dei paesi slavi, dove è invece un cardine del repertorio; la sua presenza si è mantenuta viva soprattutto in Inghilterra, dove Dvořàk colse le sue prime affermazioni proseguendo una ininterrotta tradizione corale e oratoriale che si riallacciava a Händel: fu qui che l’esecuzione diretta dall’autore it 13 marzo 1884 fece conoscere internazionalmente lo Stabat Mater.

La composizione risaliva ad alcuni anni prima e traeva origine da una serie di eventi luttuosi che segnarono con particolare ferocia la vita del musicista: la morte, nel breve volgere di pochi mesi, dei suoi tre bambini. Lo Stabat Mater fu la sua risposta di cattolico fervente ai superiori disegni della Provvidenza: una riflessione sul mistero della morte e una reazione al dolore che lo aveva colpito. In quei mesi la sua produzione registrò una febbrile impennata, come se nel lavoro egli cercasse una ragione di vita da opporre alla disperazione della morte. Il primo abbozzo dello Stabat Mater fu steso tra il febbraio e il marzo 1876 dopo la scomparsa della figlioletta Josefa, la composizione seguì in aprile e maggio. Messo da parte per altri lavori (fra cui il Concerto per pianoforte,  il Trio in sol minore, il Quartetto in mi maggiore e le Variazioni sinfoniche op. 78) venne ripreso dopo che nel1’estate 1877, a un mese di distanza l’una dall’altro, morirono la figlia Ruena, di undici mesi, e il primogenito Ottokar, di quattro anni. In due mesi scarsi l’opera fu strumentata e la partitura completata il 13 novembre 1877. La prima esecuzione avvenne a Praga il 23 dicembre 1880 sotto la direzione di Adolf Czech nel concerto annuale della Società dei compositori cechi, cui l’opera venne dedicata; altre ne seguirono nei due anni successivi (il 2 aprile 1882 a Brünn con Leos Janacek sul podio). Ma fu la gia ricordata esecuzione londinese e far conoscere quest’opera in un ambito non solo nazionale.

Attribuita al frate francescano Jacopone da Todi, vissuto nel XII secolo, la sequenza latina dello Stabat Mater, tradizionalmente eseguita per la festività del Venerdi Santo, è uno dei testi indubbiamente più suggestivi della liturgia cattolica. Il dolore della Madonna sotto la croce assume tratti di intensa drammaticità, si scioglie in compianto non soltanto individuale e trova alla fine un conforto nel significato stesso della sofferenza, riflesso di quella patita in croce per la salvezza dell’umanita. Con la sua religiosità fortemente umanizzata, con il realismo delle sue immagini, ora di un’icasticità quasi popolaresca ora di una teatralità violentemente spezzata, con la tensione drammatica che attraversa le venti strofe della poesia, scabre terzine in cui un senario sdrucciolo rompe il ritmo di due ottonari rimati, questo testo ha attratto molti musicisti prima e dopo di Dvořàk: da Despres a Palestrina a Scarlatti, da Pergolesi a Rossini a Verdi, fino a Szymanowski e Penderecki. Anche nel mutare degli organici e della veste compositiva il testo mantiene un carattere originale e una forza espressiva semplice e immediata, fatta di verità e di chiare simbologie: la musica vi aderisce con una naturalezza che ha nella evidenza delle parole quasi una predisposizione al canto, alla scultorea rappresentazione delle figure.

Dvořàk articolò le venti strofe del componimento poetico in dieci parti in sè concluse, variando per ognuna la disposizione dell’organico vocale, distribuito fra quartetto di solisti e coro. Solo nel primo e nell’ultimo numero il quartetto e il coro sono usati insieme: questi due numeri sono strettamente collegati anche tematicamente, in modo da incorniciare l’intera composizione. Il cui percorso rappresenta una progressiva ascesa dalla oscurità alla luce, come se la meditazione sulla sofferenza trovasse a poco a poco in se stessa la forza per aprire spiragli alla speranza e convertirsi in ferma accettazione della fede: e sotto questo aspetto la sofferenza stessa è vista come una lenta ma continua transizione verso la beatitudine. Due elementi connotano l’intero lavoro. II primo è il dominio a lungo incontrastato delle tonalità minori, che creano un’atmosfera non tanto lugubre e desolata quanto pensosa, severa, carica di attese. Solo nel quarto numero, nell’invocazione alla Santa Madre affinchè imprima le ferite del figlio nel cuore dell’uomo, si afferma, accompagnata solennemente dall’organo, una tonalità maggiore, mi bemolle e poi mi maggiore. Si chiarisce cosi l’interpretazione che del testo da Dvořàk: 1’assunzione consapevole del dolore da parte dell’uomo attraverso la mediazione della Vergine e il compianto di Cristo e la ragione che consente di dare un significato anche alle sofferenze più imperscrutabili. L’angoscia cede il passo all’abbandono incondizionato nella fede. Tutta la seconda parte sembra anelare a questa conquista. E la progressiva affermazione delle tonalità maggiori, fino al conclusivo “”Amen”” che annulla il cupo si minore dell’inizio nel tripudio di un giubilante re maggiore, ne rappresenta simbolicamente il passaggio. Di pari passo con questa costruzione tonale che da unità e sostanza all’opera Dvořàk accelera la dinamica e intensifica la tensione, fino a farla sfociare nell’””Allegro molto”” del doppio fugato conclusivo. I1 tempo di base è però 1’Andante, che ricorre con diverse specificazioni nella maggior parte dei numeri, in alternanza con il Largo. Tempi dunque distesi, non lenti ma pacati, scorrevoli ma non rapidi, che danno alla cantata sacra quel carattere di calma, austera meditazione mai precipitata e affannosa, semmai invece intrisa di rassegnazione prima e di consolazione poi. Ineluttabile è il dolore, ma nella durezza della sua presenza nel mondo sta la spinta a trovare la trasfigurazione della coscienza.

Accanto al quartetto dei solisti e al coro misto a quattro voci, trattato per lo più al completo, la partitura prevede un organico orchestrale tradizionale: due flauti, due oboi e corno inglese, due clarinetti, due fagotti, quattro corni, due trombe, tre tromboni, basso tuba, timpani e archi. Il ruolo dell’orchestra e preminente non solo nelle introduzioni e nelle conclusioni di ogni singola parte, ma anche nella definizione di uno sfondo che da rilievo al canto, risalto alla rappresentazione. E’ un clima molto variegato, nel quale dominano le tinte scure (violoncelli e fagotti, clarinetti), con drammatiche sottolineature date da rulli di timpani e tremoli degli archi, rischiarate da uscite dei corni, degli oboi e dei flauti, voci tipiche della sensibilità romantica, e intessute nella trama degli archi, con funzione ora di contrappunto ora di raddoppio al canto. Nonostante la densità dell’orchestra la scrittura è estremamente differenziata e calibrata, figurativamente accesa dalle idee tematiche, molte delle quali hanno radici nel canto popolare, ed elaborata per slanci netti e iterazioni incisive soprattutto nel ritmo. Dal punto di vista formale prevale la struttura ternaria; stilisticamente, piu che alla ombrosa tristezza di Brahms, il compositore più ammirato da

Dvořàk, si intravedono le tracce di un’inventiva melodica modellata su Schubert, del cui tono malinconico e lirico si ode spesso 1’eco. Una breve descrizione dei singoli numeri puo servire a mettere in luce la varietà degli atteggiamenti compositivi pur nella fondamentale unità dell’insieme.

I – Stabat Mater dolorosa (Andante con moto in si minore, Quartetto e Coro). E’ la parte piu estesa, che da sola dura un quarto della partitura, riunendo le prime quattro terzine della sequenza. Si apre con una cupa introduzione orchestrate nella quale viene presentato il motivo fondamentale, una Scala cromatica discendente, simbolo della croce. La progressiva concentrazione espressiva ottenuta con 1’aggiunta delle famiglie strumentali culmina in un fortissimo quasi gridato di estrema tensione drammatica, su una settima diminuita ripetuta due volte a piena orchestra, figura tipica del dolore romantico. I1 coro riprende l’intera sezione intonando con crescente intensità la prima terzina, la visione della Madre dolente ai piedi della croce. Il principio del contrasto si alterna a quello dell’integrazione e conduce all’entrata dei solisti (nell’ordine tenore, soprano, basso, contralto), che intonano ciascuno una terzina. Si sviluppa così un grandioso insieme di solisti e coro, simmetricamente chiuso dalla ripresa della parte iniziale, la visione della croce in un quadro questa volta quasi pietrificato dal dolore.

II – Quis est homo (Andante sostenuto in mi minore, Quartetto). Comprende altre quattro terzine del testo. Si basa sul “”motivo della domanda”” (“”Chi non piangerebbe vedendo la Madre di Cristo in tanto supplizio?””), esposto all’unisono dai legni e ripreso dal contralto, poi dagli altri solisti. A “”Pro peccatis suae gentis”” appare una nuova idea tematica, che si incunea nella precedente quasi a volerla spiegare con la risposta del riconoscimento della colpa, viene cornbinata con essa e conduce a una calda, gemente trenodia nel momento in cui il testo rievoca lo spirare di Cristo. Di grande effetto la conclusione orchestrale, un lamento funebre che intreccia al ritornello del motivo della domanda it compianto per la morte del Salvatore in croce.

III – Eja, Mater (Andante con moto in do minore, Coro). Su una sola strofa, la nona, il coro accompagna una marcia funebre che ha tratti riconoscibili di musica paesana, quasi il coro rappresentasse ora in una processione l’immagine popolare della Madre di Dio, fonte di amore, venerandola con candida religiosita.

IV – Fac, ut ardeat (Largo in si bemolle minore, Basso solo e Coro). Questo dialogo tra it basso e il coro femminile, a cui solo alla fine si aggiunge la sezione maschile, sulla decima e undicesima terzina unite insieme, si basa sul contralto tra l’invocazione piena di pathos del solista e la risposta trasfigurata, serenamente consapevole del valore della sofferenza, del coro accompagnato dall’organo e, con modulazione improvvisa, nel modo maggiore. La scrittura omofonica del coro contrappone uno spessore saldo e forte alla linea spezzata, cromaticamente inquieta del solista, compiendo il passaggio decisivo dal dubbio e dall’incertezza alla sicurezza della fede.

V – Tui Nati vulnerati (Andante con moto in mi bemolle maggiore, quasi allegretto, Coro). Di nuovo viene isolata per il coro solo una strofa, la dodicesima, per dar vita questa volta a una placida Pastorale scandita dal ritmo di 6/8 su un regolare movimento di crome dell’orchestra e, per la prima volta nel corso dell’opera, impiantata in una tonalita maggiore. Questo movimento si interrompe sulla parola “”poenas”” (“”dividi con me le pene””) su un forte improvviso, energico, con insistite ripetizioni. Ma a poco a poco la Pastorale riprende il suo andamento, rasserenante e luminosa.

VI – Fac me vere (Andante con moto in si maggiore, Tenore solo e Coro). Ora l’uomo non ha più paura della morte e chiede senza sgomento di unirsi al cordoglio ai piedi della croce (tredicesima e quattordicesima terzina). Questa volta è il tenore solo ad essere accompagnato dal coro maschile a tre e quattro parti. La melodia del tenore viene ripresa dal coro con affettuosa partecipazione, ed ha un riconoscibile carattere popolare. Anche l’orchestra sembra partecipare con fede ormai risoluta al compianto; e non vale l’immagine minacciosa della croce, subito sottolineata dal trapasso nel modo minore (“”Juxta crucem tecum stare””), a turbare la certezza di una rappacificazione collettiva anche col dramma del Calvario.

VII – Virgo virginum (Largo in la maggiore, Coro). Dodici battute di introduzione orchestrale preparano 1’entrata del coro, sul testo della quindicesima terzina. II coro procede compatto, per lo piu senza accompagnamento, nell’intonare con delicata intimita un inno di lode alla verginità di Maria, interrotto dai festosi ritornelli dell’orchestra. E’ un momento di distensione lirica, abbellito dalle fioriture che si rincorrono fra le voci, in una quiete limpida e rarefatta.

VIII – Fac, ut portem (Larghetto in si minore, Soprano e Tenore soli). Il duetto dei solisti, le due voci piu acute e chiare, e preceduto da una introduzione orchestrale armonicamente sospesa, che si scioglie solo all’entrata del soprano nel modo maggiore (re maggiore). Le due terzine numero sedici e diciassette Sono distribuite in un contrappunto imitativo che si richiama allo stile antico dei duetti di Händel, come se gia si preparasse una conclusione piu solenne e grandiosa.

IX – Inflammatus et accensus (Andante maestoso in re minore, Contralto solo). Questa grande aria per contralto sulle terzine diciotto e diciannove prende spunto dal testo, che annuncia il giorno del giudizio e prega la Vergine perche interceda per i peccatori; e la musica lo sottolinea con robuste figure dei bassi che squassano in una monumentalità quasi barocca,1’energica melodia dell’oboe e dei violini. E il canto stesso, con i suoi ritmi puntati, le sue fioriture vocalizzate e le improvvise cadute per larghi intervalli suggerisce una drammaticità bloccata sul ricalco di stili antichi. Può sembrare strana questa deviazione dal tracciato fondamentalmente romantico dell’opera: essa si spiega col fatto che si sta preparando 1’apoteosi finale, il definitivo approdo a un ottimismo trascendentale.

X – Quando corpus morietur (Andante con moto in re maggiore, Quartetto e Coro). I1 Finale si ricollega all’inizio, riunendo quartetto, coro e orchestra. Anche il suo schema riprende quello della prima parte, ma contrappone al motivo cromatico discendente una nuova figura, ascendente, che a poco a poco conduce dall’esitante si minore allo splendente re maggiore, in coincidenza significativa con le parole “”Paradisi gloria””. Segue il gioioso “”Allegro molto”” con il doppio fugato sull””`Amen””. Al punto culminante il coro si stacca dall’orchestra e dà vita a un episodio a cappella nel quale il testo dell’ultima strofa viene ripetuto per esaltare in uno squarcio di luce la visione della gloria del Paradiso, cui è destinata 1’anima immortale. Con questo congedo si riafferma il valore della vita oltre la morte, e l’ultima parola detta dall’uomo può essere raccolta dall’orchestra, nella chiusa in tempo molto tranquillo e in pianissimo.

Georges Prêtre / Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1991-92

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