La Messa in fa minore di Bruckner
Un uomo tanto intensamente legato alla fede cattolica come Anton Bruckner non poteva, anche quale autore, trascurare il genere sacro, tanto più considerando il paese, i luoghi e le tradizioni in cui si svolse il suo lungo apprendistato: prima l’abbazia di Sankt Florian (1845-56), poi la cattedrale di Linz, sede del primo importante incarico come organista (1856-68). La frequentazione della musica sacra in Bruckner è il risultato dell’una e dell’altra premessa: di una innata predisposizione a concepire in termini di devozione la stessa vocazione alla musica, ad essa destinando la propria vicenda umana prima ancora che artistica (di lui Liszt ebbe a dire che viveva solo “”per Dio e per la musica””) e di una fedeltà ostinata a un’area circoscritta, provinciale, che neppure il clima viennese della maturità riuscirà a modificare. Un’eco di questo mondo spirituale e caratteriale, nel quale comunemente si vedono gli attributi di un’ingenuità disarmante, di una specchiata saldezza morale, di una sana robustezza contadina occultata dietro la maschera di una formale timidezza (chi fosse in realtà Bruckner rimane per noi, e forse lo fu per lui stesso, un enigma), si estende anche nelle Sinfonie, genere nel quale Bruckner eccelse per quantità e qualità; di quel mondo, e delle sue esperienze, serbando anche spiccati tratti stilistici quasi immodificabili, nella tendenza a sentire la musica, anche nei momenti più profani, come un inno celebrativo modellato sulle sonorità grandiose dell’organo.
La massima parte della musica sacra di Bruckner è precedente al suo ingresso nella Sinfonia, disponendosi in un’epoca che va dagli studi giovanili nell’abbazia di Sankt Florian (ma quella di Bruckner fu, sotto l’aspetto degli studi, una lunga, interminabile giovinezza) fino alle prime timide comparse sulla scena viennese, della quale Bruckner poi fu, anche se misconosciuto, assoluto protagonista (anche istituzionalmente: professore di conservatorio prima, all’università poi). Le sue origini si possono idealmente cercare proprio nel barocco architettonico della fastosa abbazia collegiale, che agli occhi di un bambino di provincia e per natura quasi timoroso della vita (vi arrivò daAnsfelden, dove era nato, nell’età dell’infanzia) dovevano sembrare una grande finestra aperta sul mondo: forse un incentivo alla creazione, certo un centro di auguste memorie e di nobile raccoglimento, tanto amato da esser scelto per tempo come luogo dell’eterno riposo (una cripta sotto il “”suo”” organo). Terminati gli studi primari, Bruckner fu avviato (come Schubert, alla cui biografia rimandano non poche affinità) alla carriera paterna di maestro di scuola, che non precludeva affatto un diuturno contatto con la musica. Le prime pagine corali e sacre risalgono proprio a questo periodo e coesistono senza fratture con la composizione di danze popolari per le feste paesane: elevazione religiosa e adesione spontanea alla realtà più umile del popolo contadino saranno i connotati di una formazione lenta e paziente, incline alla profondità ma senza speculazioni intellettuali. Uno stile sacro di nicchia, familiare nelle cappelle musicali ecclesiastiche, si fonde con la progressiva presa di possesso della dottrina del contrappunto, in un fertile amalgama con le tradizioni più antiche e più recenti. Conseguenza di questo ampliarsi del raggio compositivo è la conquista dell’orchestra come mezzo comunicativo, che a vario titolo impregna di sé le composizioni sacre degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta.
Punto di arrivo di questa evoluzione sono le tre Messe composte tra il 1864 e il 1868 (ma tutte e tre, secondo un’ossessione tipica di Bruckner, rivedute più volte negli anni successivi), rispettivamente in re minore, in mi minore (con orchestra di soli fiati) e in fa minore: quest’ultima, la più importante per dimensioni e immedesimazione, è la cosiddetta Grosse Messe, “”Grande Messa””. Alla sua origine vi fu una commissione della cappella imperiale di Vienna dopo il buon successo ottenuto il 10 febbraio 1867 dall’esecuzione della Messa in re minore da parte del direttore dei concerti della Società degli Amici della Musica Johann Herbeck (era la prima volta che una composizione sacra del non più giovane organista del duomo di Linz era risuonata a Vienna). Bruckner vi lavorò a partire da settembre (era reduce da una grave crisi depressiva, fenomeno ricorrente in quegli anni, da cui la Messa lo aiutò a guarire) e la ultimò in varie fasi (era solito prima abbozzare la composizione completa, poi realizzare la partitura) il 9 settembre 1868. In seguito avrebbe apportato ancora delle modifiche alla metrica e alla strumentazione nel 1881 e tra il 1890 e il 1893. Nel frattempo la Messa era stata eseguita più volte. Alla prima avvenuta il 16 giugno 1872 a Vienna nella chiesa degli Agostiniani sotto la direzione dell’autore seguì quella, sempre diretta da Bruckner, della Hofburgkapelle il 3 dicembre 1873: qui l’operacappella imperiale di Vienna dopo il buon successo ottenuto il 10 febbraio 1867 dall’esecuzione della Messa in re minore da parte del direttore dei concerti della Società degli Amici della Musica Johann Herbeck (era la prima volta che una composizione sacra del non più giovane organista del duomo di Linz era risuonata a Vienna). Bruckner vi lavorò a partire da settembre (era reduce da una grave crisi depressiva, fenomeno ricorrente in quegli anni, da cui la Messa lo aiutò a guarire) e la ultimò in varie fasi (era solito prima abbozzare la composizione completa, poi realizzare la partitura) il 9 settembre 1868. In seguito avrebbe apportato ancora delle modifiche alla metrica e alla strumentazione nel 1881 e tra il 1890 e il 1893. Nel frattempo la Messa era stata eseguita più volte. Alla prima avvenuta il 16 giugno 1872 a Vienna nella chiesa degli Agostiniani sotto la direzione dell’autore seguì quella, sempre diretta da Bruckner, della Hofburgkapelle il 3 dicembre 1873: qui l’opera entrò per così dire nel repertorio e fu ripresa nel 1876, 1877, 1882, 1883 e 1884, sempre sotto la guida dell’autore, a quel tempo ormai di casa a Vienna.
La Grande Messa in fa minore abbina un forte impegno sinfonico (evidente anche nell’organico: legni a due, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi, organo ad libitum) a una vasta concezione formale, del tipo della Messa solenne (proprio nel senso della Missa solemnis di Beethoven, che ne è il modello più prossimo): più che alla chiesa, essa è destinata alla sala da concerto. Ciò contrasterebbe, e in parte contrasta, con l’immagine più convenzionale (falsa) di un Bruckner tutto semplicità e odor d’incenso, rivelando invece non solo l’intenzione ma anche la capacità di pensare in grande, in termini religiosi ma non confessionali, secondo un’idea della fede di alto profilo. Nella intonazione del testo liturgico si manifestano sovente un’ansia drammatica (di uno che mai frequentò e tanto meno trattò il teatro), una nostalgia struggente, un’innocenza accorata, una
spazialità interiore che non possono essere riferite alle certezze dogmatiche della fede: essa stessa è qui messa alla prova, e alla fine riconquistata, grazie a un lavoro di scavo e di riconoscimento che passa emotivamente attraverso l’evocazione e il ripensamento. Anche dal punto di vista tecnico la partitura, che cronologicamente si colloca tra la Prima e la Seconda Sinfonia, è tutt’altro che sprovveduta o ingenua: già prima di comporla Bruckner aveva avuto modo di ascoltare a Linz le opere di Wagner (Der fliegende Holländer, Lohengrin e Tannhäuser, curiosamente la sua preferenza andava a quest’ultima) e di entusiasmarsi per il loro autore al punto da recarsi nel 1865 a Monaco alle prove del Tristano, per conoscerlo di persona. Inoltre gli studi di armonia e contrappunto con Simon Sechter e quelli di orchestrazione e forma musicale con Otto Kitzler lo avevano fortificato nella mano e nella testa, ossia nella scrittura e nella concezione, rendendogli ancor più familiare lo stile elevato della Messa come complesso architettonico e organico. Ma ancor più istruttivo, nel rapporto tra convenzioni e innovazioni, è il trattamento delle quattro voci soliste e del coro, integrato al punto da costituire un’eccezione nel panorama delle Messe del secondo Ottocento. Anziché riservare ai solisti arie individuali in forma chiusa, Bruckner li impiega in maniera concertante sia per la intonazione di singole parti sia per un variegato canto alternato ad antifona tra soli e coro. Quest’ultimo a sua volta alterna passi all’unisono di carattere omofonico e salmodiante (spesso su un solo accordo ripetuto) a sezioni contrappuntistiche in stile fugato o imitato, senza però fare sfoggio di virtuosismo fine a se stesso. Questa discrezione e questa compattezza sembrano rappresentare l’idea stessa di Bruckner di una composizione sacra più spirituale che religiosa, di vasto respiro unitario e di profonda, concentrata interiorità.
Il Kyrie, in forma tripartita e in tempo Moderato, si apre con una assorta introduzione orchestrale nella quale gli archi, a entrate imitate, espongono la figura fondamentale di un tetracordo discendente, che si muterà poi simmetricamente nella ripresa in ascendente. L’ingresso del coro conferma l’atmosfera grave e solenne dell’esordio, apportando appena una maggiore tensione nelle ascese cromatiche delle voci. La parte centrale (Christe eleison) è di poco più animata: la introduce un assolo del violino (subito un pensiero a Beethoven, che nella Missa solemnis aveva affidato al violino solo i passi più sublimi del Benedictus), cui rispondono il basso e il soprano solisti in canto alternato con il coro. Un progressivo crescendo che impegna tutta l’orchestra conduce al climax dell’invocazione, per poi ridiscendere pianamente verso il clima calmo e severo dell’inizio: il brano si conclude con un sommesso salmodiare del coro in pianissimo, sostenuto con delicatezza dall’orchestra.
Con contrasto immediato, il Gloria in excelsis Deo inizia con un esplosivo fortissimo nella tonalità di do maggiore e in tempo Allegro. Momenti di tripudio, con il coro riunito in insiemi omofonici assai serrati, si alternano con momenti estatici, secondo un’alternanza tra pieni e vuoti che rimanda allo stile delle Messe barocche, ma con una rifinitura che non abbandona mai la misura classica. La tecnica del canto suddiviso tra solisti e coro si ripropone nel Gratias agimus tibi (soprano e contralto soli) e ancor più nella sezione centrale (Andante quasi adagio, in re minore) Qui tollis, dominata da tumultuose ondate degli archi e da energici interventi dei fiati (oboi, corni) su un canto procedente ora per ampi intervalli ora per gradi con-giunti cromatici. Il soprano solo riporta al tempo I e alla tonalità di base nel Quoniam tu solus Sanctus, dove il movimento si fa più ansimante, quasi drammatico, per raggiungere direttamente, senza mutare atteggiamento, semmai appena distendendolo, le parole finali in gloria Dei Patris. Amen, che vedono il coro nuovamente riunito omofonicamente.
A questo punto si innesta, su un tempo più moderato (Piuttosto lento), la fuga di rito: essa si basa su due soggetti di plastica evidenza (salti d’ottava ripetuti), intrecciati fra loro con sapientissima scrittura contrappuntistica ma mantenuti in un tono di tranquilla compostezza.
Il Credo ribadisce i principi compositivi, tecnici e stilistici fin qui esibiti. L’articolazione del testo è abbastanza elementare, scandita dalle riprese del fiammeggiante tema iniziale su Credo (Allegro in do maggiore) e guidata dall’ampia spaziatura di sonorità magniloquenti che ricordano i registri dell’organo. Non mancano tuttavia momenti particolarmente ispirati: tra questi soprattutto 1′ Et incarnatus est (Moderato misterioso), intonato trepidamente dal tenore solista, sostenuto dalle voci femminili del coro e accompagnato dalle melodie fruscianti del violino e della viola soli, e il successivo Crucifixus, dove è il basso a dialogare con il coro per rievocare con attonita commozione il ricordo della passione e della morte di Cristo. Manca però alla convenzione la consueta fuga finale su Et vitam venturi saeculi..Amen; o meglio, essa è soltanto accennata, avviata e bloccata dalla sempre più perentoria affermazione del tema a corale del Credo.
La sensazione che Bruckner si trovi più a suo agio nei momenti di suadente lirismo è confermata dalle tre parti conclusive della Messa, che ne innalzano considerevolmente la temperatura espressiva. Il Sanctus, che abbandona quasi subito un clima di immota, ariosa concentrazione per celebrare con scatto improvviso e deciso l’Hosanna in excelsis, è di fatto soltanto un ponte verso la splendida meditazione del Benedictus, intonato dal quartetto dei solisti e dal coro su una dolcissima melodia infinita dopo un’introduzione degli archi dagli accenti premahleriani: questa pagina è senza dubbio la più toccante, intima e illuminata dell’opera, ancora più esaltata retrospettivamente, per contrasto, dal ritorno un po’ raffreddante dell’Hosanna in excelsis. Ma come per riprendere il discorso dalle altezze a cui era pervenuto, ecco l’Agnus Dei, in un clima se possibile ancora più decantato, distillato e interiorizzato: una calma, serena contemplazione che dal cielo discende sulla terra, equamente suddivisa tra orchestra, coro e solisti in un canto che figurativamente abbraccia tutto il mondo. E quando dal dolente fa minore si passa, senza alcuna enfasi, al fa maggiore della chiusa, la ricomparsa, sospeso su un disegno ipnotico dei violini, del tetracordo discendente iniziale della Messa sembra avvertire che la trasfigurazione si compie soltanto accomunando, in un’ideale fratellanza, pietà e pace: ma in pianissimo, quasi svanendo nel nulla.
Wolfgang Sawallisch, Norbert Balatsch / Susan Anthony, Marjana Lipovšek, Deon van der Walt, Kurt Moll, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica sinfonica 2001-2002