A Vienna la mostra per il bicentenario mozartiano rivela i suoi limiti già a partire dall’allestimento di Gae Aulenti. Lo scopo di collocare l’uomo nella sua epoca è così soverchiante da relegare in secondo piano l’eccezionalità del compositore
Vienna – La cosa più bella della mostra è il titolo: «Zaubertöne». Proviene dal diario di Schubert, una nota del 14 giugno 1816: «Questo rimarrà per tutta la mia vita un giorno chiaro, luminoso, bello. I suoni magici della musica di Mozart mi risuonano ancora sommessi, come da lontano. Così queste belle impressioni ci rimangono nell’anima, senza che nessun tempo, nessua cerimonia le possa confondere, e agiscono in modo benefico sulla nostra vita».
Più che un’occasione mancata, la grande mostra del bicentenario a Vienna (fino al 5 settembre) è la conferma di un imperativo categorico: celebrare a tutti i costi Amadeus. Amadeus, non Mozart: ssia quella controfigura artificiosamente creata da una ricezione superficiale e sfalsata, tanto più astuta nella sua esíbita anti-retorica. Non culto ma business. Entrando nel monumentale foyer del Künstlerhaus in Karlsplatz ne siamo subito avvertiti, con involontaria ironia: «In queta mostra la musica è offerta da Mozart e dalla Philips». Grazie, Amadeus, tu esisti anhe per la gioia delle case dicografiche.
Scriveva qualche giorno fa Piero Buscaroli dei pericoli che si annidano in queste ricorrenze. Qui li avrebbe visti riassunti tutti. La pretesa di informare, di chiarire, di promuovere la consapevolezza storica inquadrando Mozart nella «vita sociale della sua epoca», è diventata la parola d’ordine di una tendenza ormai dominante. La curatrice della mostra, Marie-Louise von Plessen, se fa interprete nel saggio d’apertura del lussuoso catalogo (614 pagine, 400 scellini): «Questa mostra vuole ricreare un mondo di esperienze proprio e tipico di Mozart, dissipando incantesimi ed enigmi». E in che modo? Ma intrecciando il profilo biografico in senso strettamente cronologico con un percorso di ascolti in cui frammenti di sue composizioni si presentino nella forma compressa del collage, e inserendo il tutto nell’ambiente culturale e sociale nel quale si svolse l’ultimo, lungo tratto della vita di Mozart: il decennio dal 1781 al 1791, quello del suo soggiorno a Vienna.
E’ infatti questo il tema della mostra: “Mozart a Vienna”. Il periodo dell’infanzia prodigiosa e della giovinezza che fece sensazione in Europa viene sbrigativamente esaurito in pochi metri quadrati, come «prologo» al vero, grande capitolo della libertà conquistata ed esercitata produttivamente nella capitale. Con una certa fierezza un tabellone immette nel vivo riportando a caratteri cubitali un passo di una lettera al padre: «Vienna… il posto migliore del mondo».
Quella delle citazioni estrapolate da lettere, documenti e testimonianze, di Mozart e di altri, e riprodotte ingigantite come fregi alle pareti, è un po’ il leitmotiv dell’esposizione: un modo per colpire, con frasi più o meno memorabili, l’attenzione del visitatore. Indifferentemente trattando sia colui che è in grado di riferire quei passi al loro contesto (Mozart aveva il dono di essere fulminante: ma non era così ingenuo come spesso si vuol far credere, nelle sue calcolate, lucide strategie), sia chi invece li prende per oro colato, e magari ne trae conseguenze immediate, assolute. Si manifesta qui una contraddizione che sala dopo sala si accentua: quella di non dare un metodo di lettura per farsi un’idea del significato dei materiali esposti in relazione a Mozart.
Tale contraddizione è presente anche nell’allestimento, assai discusso a Vienna, di Gae Aulenti. La quale comprime gli spazi ariosi e sontuosi dei due piani del palazzo in una ininterrotta successione di strettoie, cunicoli e cripte, con grate ferrigne e strutture di legno che si alternano a luminose vetrine e pareti bianche. L’idea di un labirinto nel quale ognuno possa scegliere
schede che non si limitano a fornire informazioni e spiegazioni sulla loro nascita, esecuzione e fortuna (perfino riportando un sunto della trama), ma ambiscono a illustrare la situazione storica o personale in cui videro la luce. Privilegiando sempre Vienna, anche quando Praga, per esempio, gioca un ruolo decisivo nell’affermarsi del compositore.
Non sempre il collegamento è significativo. Ciò che manca è soprattutto il senso del teatro, la definizione di ciò che contraddistingue l’individualità di Mozart nell’ambiente che lo circondava, e che insieme lo attirava e lo respingeva. Si può fare una storia sociale sulle Nozze di Figaro, o su Così fan tutte: ma non riducendola a una esposizione generale dello stato della servitù e della nobiltà alla fine del Settecento, o a una indagine sui rapporti tra Mozart e le donne, sulla prostituzione, i giochi di società o la vita militare. In assenza di una documentazione più completa (Salisburgo per esempio non ha concesso i suoi cimeli; cosicché l’unico ritratto originale esposto è quello detto dello speron d’oro, proveniente da Bologna, insieme con una parte dei ritratti di compositori collezionati da Padre Martini), molto si è puntato sulla ricostruzione d’epoca e d’ambiente. Con automatismi alquanto scontati. Per esempio. Mozart viaggiò molto? Ed ecco allora ogni sorta di informazioni e curiosità sulle condizioni dei viaggi di allora: le carrozze e le stazioni di sosta, il nécessaire o la farmacia da trasporto, gli scaldapiedi, e perfino un elegante, un po’ sinistro Wc da viaggio. Incombeva la minaccia dei turchi? Giù allora con spade, cannoni, insegne, uniformi, mappe e fortificazioni, utensili di guerra e di pace, strumenti, tabacchiere, appelli ed eserciti schierati. Giuseppe II e le sue riforme? Niente viene tralasciato: dai nuovi ordinamenti scolastici e burocratici, all’urbanistica e alle casse da morto per i funerali di terza classe. La massoneria? Eccola illustrata nelle sue logge, nei suoi riti, nelle sue aspirazioni dichiarate e nascoste, nei suoi più noti esponenti. Ma soprattutto ciò che domina è la volontà di dar conto della vita di tutti i giorni a Vienna. E il trionfo del quotidiano: gli arredi, i vestiti, le case, i palazzi, i divertimenti, le serate a teatro, le passeggiate al Prater. Non che tutto ciò non abbia a che fare con Mozart, naturalmente: ma andrebbe ugualmente bene in una mostra su Bonno, Salieri o Süssmayr.
Semplificato da un lato, allungato nel brodo della storia sociale e del costume dall’altro, lo specifico di Mozart non emerge se non per improvvise illuminazioni: una lettera, un autografo musicale, un volto di artista che con’ lui collaborò, un luogo finalmente capace di suscitare una memoria o di fermare il tempo. Perché quella Vienna nella quale si compì il suo destino in un decennio di implacabile passione ormai non esiste più: è finzione, o tutt’al più ricordo. L’illusione di restituirne le vestigia con documenti d’epoca, ce lo dicono a ogni fermata le carte topografiche, le piante, le vedute, le incisioni, le silhouettes, gli oggetti d’arte, i dipinti e le stampe popolari, non basta per informare e spiegare. Il mondo di Mozart è in lui stesso, non fuori di lui: e questo è ciò che da sempre andiamo cercando, talvolta credendo di capire, talvolta rassegnandoci ad accettare semplicemente, con animo grato, il miracolo delle sue invenzioni. Mai prevedibili, mai scontate. Mai integrabili in una realtà materialmente afferrabile, se non in quanto ambigua.
Il resto è Amadeus. Quello che nel pazzesco guazzabuglio di citazioni, di frammenti, di suoni che vanno e vengono accavallandosi da una sala all’altra dell’esposizione, creando perversi scontri tonali, ritmici, melodici, timbrici che a un amico dell’ordine e della chiarezza quale egli fu mai sarebbero parsi accettabili, si offre, dimidiato, agli stupori di massa. Vienna il miglior posto di questo mondo? Sappiamo che cosa intendesse quando scriveva così al padre. Oggi, ne riderebbe anche lui.
da “”Il Giornale””