La giara abitata
La genesi della commedia coreografica in un atto La giara , l’autore la raccontò insieme con molte altre notizie sulla propria vita e sulle proprie opere in un libro essenzialmente documentario, e perciò utilissimo, non privo di calore e di fascino, oltre che coerente per principio; un libro autobiografico che Casella pubblicò nel gennaio 1939, quando gli sembrava di poter fare ormai un bilancio delle proprie esperienze artistiche, peraltro non ancora concluse, e a cui dette un titolo delizioso, che alla giara simbolicamente si ricollegava per chiudervi dentro, e subito rivelarli, i segreti: o sia i contenuti di quelle stesse esperienze. Segno che quel richiamo a un’opera di molti anni prima era ancora eloquente e quasi rappresentativo di un’intera esistenza umana e artistica.
Nella sezione documentaria che nella presente pubblicazione segue in appendice, il passo relativo alla Giara è riportato integralmente. Basterà qui dunque ricordarne alcuni punti, e chiarire qualche passaggio. Anzitutto sulla commissione, giunta del tutto inaspettata da parte del direttore dei Ballets Suédois, Rolf de Maré, per interposta persona; anzi con duplice intervento prima di Satie, con motivi alquanto bizzarri, e poi di un’amica newyorkese. E lecito supporre che alla base di questa vi fosse una serie di coincidenze anche fortuite, di varia natura: non solo l’urto di Satie con i suoi ex colleghi di cordata, ma anche l’ambizione di Maré di entrare in concorrenza con Diaghilev, contrapponendo al successo del Tricorno di Manuel de Falla (la nuova versione a grande orchestra per i Ballets Russes del Sombrero de tres picos, 1919) un balletto tipicamente italiano e interamente affidato ad artisti italiani: cosa che Diaghilev non aveva mai fatto. Un balletto moderno, rappresentativo dei caratteri etnici nazionali, che non riuscisse però estraneo alle correnti d’avanguardia europee, cosí come in quegli anni di straordinario fervore creativo si manifestavano nel balletto, soprattutto a Parigi. Non a caso la composizione di ambiente italiano doveva far parte di una serata di rivisitazione dei folclori, allora di moda nella danza moderna, accanto a un balletto su una antica leggenda persiana, a uno tratto da una fiaba di Andersen e a una giapponeseria ‘dada’. Noteremo di passaggio – attingendo a informazioni fornite da Elisa Vaccarino – che i Ballets Suédois del mecenate e impresario di origine svedese Rolf de Maré (1888-1964), direttore del Théâtre des Champs-Elysées, dal 1920 al ’27, erano nati sulla scorta e dalla costola dei Ballets Russes di Diaghilev nel 1920, dopo che Michel Fokine, che aveva abbandonato la compagnia russa per gelosia nei confronti di Nijinsky, era stato chiamato a dirigere il ballo all’Opera di Stoccolma; vissuti solo fino al 1925, portarono in scena a Parigi fra l’altro Les mariés de la Tour Eiffel su musica di Auric, Honegger, Milhaud, Poulenc e su libretto di Jean Cocteau (1921), Relâche con musica di Erik Satie, immaginato da Francis Picabia con l’inserto cinematografico Entr’acte di René Clair (1924), e La création du monde di Milhaud con le scene e i costumi di Fernand Léger (1923). La scelta di Casella per un balletto italiano equivaleva dunque a una vera e propria consacrazione, che dimostrava il prestigio del compositore agli occhi delle avanguardie europee; per quanto l’accostamento dell’Italia a culture e mondi esotici tanto lontani nello spazio e nel tempo possa sembrare a noi oggi piuttosto curiosa.
Anche se tali sentimenti di rivalsa non rientravano nelle sue abitudini, Casella fu forse ulteriormente lusingato da questa offerta di un avversario di quel Diaghilev che anni prima aveva rifiutato la partitura del balletto Il convento veneziano, composto nel 1912-13: lavoro che per un singolare destino la Scala gli aveva richiesto proprio in concomitanza con la nuova commissione (vi andò in scena nel febbraio del 1925, tre mesi dopo La giara). La scelta cadde, dietro suggerimento di Mario Labroca, sulla novella di Pirandello, autore già preso in considerazione da Casella; e si può aggiungere che Labroca, uomo non solo generoso ma lungimirante, seppe evidentemente intuire che quel soggetto si adattava all’occasione di un balletto assai meglio di quanto avesse pensato lui stesso quando aveva avuto l’intenzione di musicarlo in forma di piccola opera lirica: e soprattutto che si adattava a Casella. La giara di Pirandello non era stata ancora pubblicata nell’ambito della serie Novelle per un anno (con questo titolo, e accanto ad altre novelle pubblicate precedentemente su rivista, apparve solo nel 1928 presso R. Bemporad e F.); ma la sua conoscenza risaliva a molti anni prima: era uscita nel «Corriere della Sera» il 20 ottobre 1909 ed era riapparsa nella raccolta Il carnevale dei morti a Firenze nel 1919, diventando subito una novella celebre, almeno in chi seguiva Pirandello come autore non solo di teatro (il 1921 era stato l’anno dei Sei personaggi in cerca d’autore, il 1922 quello dell’Enrico 1V il dibattito sul suo teatro era dunque entrato più che mai nel vivo). Nel 1917 Pirandello ne aveva ricavato una commedia in un atto e in dialetto siciliano, ‘A giarra, messa in scena al Teatro Nazionale di Roma dalla Compagnia di Angelo Musco: una versione in lingua fu poi pubblicata nel 1925 anch’essa da R. Bemporad e F. I toni farseschi vi sono accentuati, l’esile trama drammatica è sviluppata con estrema economia di mezzi attorno ai due personaggi principali, don Lollò e Zi’ Dima: nell’epilogo, è don Lollò stesso che con un calcio manda a spaccarsi contro un albero la giara, dalla quale il gobbo esce illeso e trionfante. E a lui spetta l’ultima parola.
La riduzione della novella a libretto fu compiuta da Casella insieme con Pirandello e con Jean Börlin, primo ballerino e coreografo della compagnia svedese, durante una vacanza in Sicilia, nei luoghi stessi dove era stata immaginata la vicenda. Casella vi lavorò intensamente durante l’estate del 1 924, dal 12 luglio al 27 agosto, in completa serenità e felicità creativa. La prima rappresentazione, da lui stesso diretta, ebbe luogo il 19 novembre del 1924 al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi e risultò il maggior successo della serata. Non solo per merito della musica, unanimamente elogiata dalla critica e dai numerosi musicisti presenti, ma anche per la bellezza delle scene e dei costumi, opera di Giorgio de Chirico, scelto dal maestro stesso: un’ambientazione mediterranea che rendeva in modo favoloso e splendente i colori e la luce della Sicilia, fondendo danza, musica e poesia in una grande, animata pittura di popolo e d’arte. Il successo ebbe tale risonanza che La giara cominciò una fortunatissima carriera internazionale, attirando a sé, quasi a prolungamento di quella prima presentazione, non solo coreografi di primissimo piano ma anche pittori famosi per le scene e i costumi. Fra questi Renato Guttuso, che nel 1957 partecipò alla memorabile ripresa del balletto al Maggio Musicale Fiorentino con la coreografia di Aurelio M. Milloss: e sono quelle scene che oggi rivediamo. Già nel 1924 Casella aveva tratto dall’opera una Suite orchestrale che contribuí ulteriormente a far conoscere la musica anche in sede sinfonica: pubblicata come op. 41 bis, fu eseguita per la prima volta a New York il 29 ottobre 1925 sotto la direzione nientemeno che di Mengelberg.
Se si eccettua il già citato balletto Il convento veneziano, il cui titolo originale è Le couvent sur l’eau, su soggetto di Jean Louis Vaudoyer, allora ancora irrappresentato, La giara è il primo lavoro di Casella per il teatro. Non si tratta di un balletto tradizionale, ma di una «commedia coreografica» (la stessa indicazione figura sulla partitura del Convento veneziano): ossia di un’azione teatrale nella quale la danza è solo una componente accanto alla pantomima e alla commedia mimata, con l’aggiunta di un intervento cantato. In altri termini, Casella lavorò su un particolare ‘genere’ di teatro che guardava alle tendenze piú avanzate del tempo e il cui modello piú vicino si trovava nelle creazioni di Falla, analoghe anche nel recupero del folclore, autentico o riplasmato come rifacimento stilistico della musica colta: nel balletto in un atto El amor brujo e ancor piú nella «farsa mimica» El corregidor y la molinera, poi estesa a balletto nel Tricorno. Piú in generale, ciò corrispondeva anche alle sue idee sull’opera. Le quali nelle loro linee fondamentali erano ancora fortemente influenzate da Busoni e dalla polemica antiromantica propria della sua generazione, sia nella contrapposizione dell’opera a forme chiuse al dramma musicale wagneriano, sia nella preferenza per soggetti fantastici, fiabeschi e per situazioni già di per sé musicali, come danze, pantomime e mascherate. A ciò va aggiunta l’idiosincrasia per la vocalità come sfogo lirico delle passioni e per la continuità dell’azione drammatica a sfondo psicologico o narrativo: temi che Casella avrebbe sviluppato in seguito nell’ambito del teatro vero e proprio, ossia dell’opera.
Un altro punto da chiarire è la presenza in questo lavoro del carattere folclorico e nazionale. Casella si servi di parecchio materiale popolare siciliano, ma utilizzandolo in modo assai personale e libero. L’unica citazione dichiarata è la canzone siciliana che si ode intonata fuori scena poco prima dell’epilogo: «La storia della fanciulla rapita dai pirati», una melodia tolta dalla raccolta Canti della terra e del mare di Sicilia (1883) dell’etnomusicologo Alberto Favara. Una melodia, appunto, che risuona come una voce «dolce e nostalgica, quasi dolorosa» (come indica la didascalia) dell’anima popolare. Ma l’accompagnamento, e l’armonizzazione, la trasportano in una dimensione di sogno, allusiva e simbolica piú che realistica, che corrisponde a una visione reinventata della sonorità e dello stesso linguaggio della citazione. In altri termini Casella non vi si immedesima, ma la ripensa e la trasfigura in una apparizione puramente ideale.
Questa fase di libera ispirazione popolare (lo stile, come lo chiamò Massimo Mila, del «folclore inventato») fu comune in quel tempo ad alcune delle forze piú vive della musica europea e ne accompagnò molte ansie di ‘verità’ e di rinnovamento. In Casella, la differenza fra questo uso del materiale popolare e quello di opere precedenti, come la Suite in do maggiore op. 13 e soprattutto la Rapsodia per grande orchestra Italia op. 11, entrambe del 1909, non sta soltanto nella diversa padronanza dei mezzi tecnici. La giara porta a compimento ciò che nelle due precedenti composizioni era soltanto abbozzato ma tuttavia presente, ossia la creazione di uno stile a un tempo italiano per il suo spirito e moderno per le conseguenze a cui conduce nel linguaggio e nelle forme, fino a diventare stile. Non è forse un caso che proprio le due precedenti composizioni italiane fossero accettate, per interessamento di Gustav Mahler, dalla Universal, lo stesso editore che pubblicò a tambur battente l’op. 41, ossia La giara. La primitiva fase del nazionalismo vi è superata sostituendo all’inserimento di una documentazione popolare, volta a raggiungere una ‘apparenza’ nazionale, una piú meditata e approfondita fusione del folclore nel tessuto musicale; dove naturalmente essenziale è anche la componente scenica e rappresentativa rispetto al mezzo puramente sinfonico, sia nella forma neoclassica della suite sia nella forma moderna della rapsodia sinfonica. Il problema di Casella compositore negli anni Dieci era soprattutto dimostrativo nel duplice senso storico e di conquista personale. Si trattava per lui di reagire all’impressionismo e in particolare al debussysmo che dominavano l’ambiente musicale nel quale si era formato, per giungere a uno stile architettonico piú lineare e monumentale, di carattere severo e privo di superflue ornamentazioni. E a questo fine, oltre a quello di creare una musica autenticamente italiana in un periodo di acceso nazionalismo, miravano i ricorsi al folclore, garanti almeno in prima battuta di riconoscibilità, concretezza e immediatezza espressiva. Qualcosa di costruttivo e di positivo, dunque, da opporre alle fumosità impressionistiche e ai tormenti neoromantici.
Assai diversa era la situazione alla metà degli anni Venti. Quando scrisse La giara, Casella aveva attraversato un lungo periodo – che approssimativamente si estende dal 1913 al ‘23 – di fertile crisi, di riflessione e di sperimentzione delle nuove tendenze della musica europea e dei suoi linguaggi, in senso storico e tecnico. E ciò aveva orientato la sua poetica in modo piú personale e consapevole insieme. La virata neoclassica era il risultato del superamento di impressionismo ed espressionismo: qualcosa che nel ritorno al passato della musica strumentale italiana e nella «rinascenza del senso classico» identificava non una chiusura artificiosa ma l’istanza della chiarezza, dell’ordine e della disciplina artistica. E in questo senso anche il nazionalismo aveva cambiato prospettiva, si era armonizzato con altri, piú generali valori. Del resto, Casella era ormai consapevole che il ricorso al folclore non rappresentava la salvezza della musica, e non era forse neppure utile alla definizione di un carattere nazionale dell’arte. Proprio nelle pagine conclusive dei Segreti della giara questi concetti sono espressi con la massima limpidezza critica. «Taluni intendono», scrive Casella, «il carattere nazionale nel senso folkloristico, vale a dire credono che adoperando il compositore temi tolti dalla voce del popolo o dalle raccolte regionali, basti questo espediente a far opera nazionale. […] Vi è però un carattere nazionale infinitamente piú importante, ma anche molto piú arduo da definirsi; è quello ad esempio di un Schumann oppure di un Debussy. Qui ci troviamo di fronte ad un’arte i cui legami colla razza e colla tradizione risultano da una quantità incalcolabile di precedenti esperienze, travagli, lotte, conquiste, realizzazioni, momenti vari tutti ed espressioni di un’anima unica e primigenia che è poi quella del popolo. Somma di valori spirituali che si chiama comunemente tradizione, monumento alla base del quale sta è vero l’humus popolare, ma che finalmente viene innalzato a suprema realtà artistica dall’azione del genio». E tornava poi a ribadire la sua visione della classicità, anche alla luce della storia: «Si è ormai rifatta la convinzione (nei migliori di noi almeno) che l’idea della vera classicità non possa essere che la rinascita di un equilibrio superiore nella creazione, una rinascita ad un tempo classica e romantica per la sua pienezza e serenità di forma e come idea soggettiva di una attualità nutrita di tradizione. Nozione poi che corrisponde precisamente al momento politico, il quale persegue sul suo piano analoghi obiettivi».
Il carattere nazionale di un’opera come La giara va dunque inteso in una dimensione non puramente folcloristica – il materiale popolare è un mezzo di definizione poetica solo nella misura in cui viene integrato nel linguaggio della musica d’arte – ma come espressione di bellezza e di tradizioni che si rispecchiano nella creazione di forme significative; dove il sentimento nazionale è colore, sfondo, ambiente e atmosfera, ma in un atteggiamento che non si sottrae al processo di assimilazione tendente a trovare la sintesi in un nuovo ordine, in un accordo pienamente realizzato di invenzione e tecnica, aderente e armonizzato con le acquisizioni della musica contemporanea. Paradossalmente, la conquista dell’identità nazionale coincide con il superamento in prospettiva europea di una visione angusta e provinciale del carattere nazionale.
Questa conquista non si realizza solo nella stratificazione dei linguaggi sotto il profilo armonico, contrappuntistico, melodico e ritmico, nella purezza dei timbri e nella solidità dei temi, ma anche nelle opzioni formali, stilistiche. E la strada percorsa da Casella trova nella Giara una definizione nell’ambito del teatro. Ne offre una prova già la riduzione della novella a scenario. La componente ambientale, lo sfondo naturalistico, il pittoresco locale, tutto ciò che appartiene a un’immagine convenzionale della Sicilia come terra esotica è interamente assorbito dalla musica, che con i propri mezzi ne fornisce non solo la illustrazione ma anche la decorazione. Non occorrono cosí le descrizioni d’ambiente che nella novella, con ben altre implicazioni psicologiche e satiriche, forse con piú profonde e acide allusioni e metafore, si alternano alla storia vera e propria della giara spaccata e riparata: tutto qui è solo occasione per un gioco brillante e divertito, in fondo sereno e ottimistico. E se spariscono alcuni personaggi secondari (per esempio l’avvocato cui don Lollò ricorre per ogni minima controversia, in Pirandello spunto folgorante di parodia sociale), altri ne vengono aggiunti per semplici ragioni di concretezza rappresentativa: le tre ragazze contadine e Nela, figlia di don Lollò, «ragazza graziosa e molto piacevole», che si intrattiene con il malcapitato conciabrocche e chiamando a raccolta i contadini ne provoca da ultimo la liberazione. E chiaro che l’aggiunta di un personaggio femminile principale (nella novella la sua parte è assorbita dal gruppo dei contadini, un protagonista per cosí dire corale) è un espediente teatrale per vivacizzare l’azione: ma conferisce alla riduzione della novella un tratto di finezza nuova (oltre che un personaggio da sfruttare nell’azione coreografica).
Si è già detto che La giara non è un balletto ma una commedia coreografica. Non è solo questione di nomi: ad episodi di danza vera e propria si alternano infatti la commedia mimica e la pantomima. Le danze non si succedono l’una all’altra, ma sorgono al momento voluto entro un tessuto di narrazione musicale, che non esclude neppure alcuni procedimenti di svolgimento tematico. Non solo: gli episodi di danza, scanditi da ritmi vivaci per lo piú di tarantella, sono riservati a momenti dell’azione in cui la danza è già prevista nella novella come espressione collettiva di gioia, come movimento o come esplosione di energia vitale. In essi la musica interviene come un fatto naturalistico e realistico insieme. Per il resto, l’azione segue una precisa sceneggiatura, e questa si svolge nella forma di un recitativo pantomimico indicato in partitura fin nei minimi dettagli: per esempio i colpi assestati sulla giara per provarne la solidità dopo la riparazione, o il ruzzolare della giara giú per la china, sono resi dalla musica in forma descrittiva, quasi onomatopeica. E ciò si ripete ogni qualvolta la scena lo richieda o lo consenta, e sempre con la massima intenzione ed evidenza.
Di questa azione che la musica descrive si ha un esempio fin dall’inizio, nel Preludio, che rappresenta una specie di prologo ovviamente inesistente nella novella: su un ritmo di siciliana che a sua volta subito immette nel clima musicale dell’opera appare davanti al velario chiuso Zi’ Dima, il vecchio conciabrocche, come se stesse passando di lí per caso (e la musica subito ne definisce il carattere e la figura in un Allegro grottesco); accorgendosi a un tratto della presenza del pubblico, se ne stupisce e scompare celermente nel mezzo del velario. L’effetto teatrale – e di un teatro colto, moderno, novecentesco – è immediatamente efficace. Il ritorno del Tempo i chiude il Preludio in una simmetria pensata in termini sinfonici, se non puramente musicali.
Quando la scena si apre, i contadini di ritorno dal lavoro danno vita a una prima danza, direttamente attinta dal patrimonio siciliano: il «Chiòvu» (in siciliano: chiodo), di chiaro sapore popolare, rusticano. Questa si trasforma poi in una danza generale, dove lo spunto popolare ampliandosi si trascende in una libera reinvenzione che segue sviluppi ben piú che semplicemente folcloristici. Abbiamo qui un esempio caratteristico del passaggio da un tipo di musica popolare a una ricreazione che abbandona il terreno del folclore per addentrarsi incisivamente nei territori del rifacimento stilistico secondo i mezzi della musica d’arte piú avanzata: nei ritmi, nei contrappunti e soprattutto nelle armonie, oscillanti modalmente e tonalmente. La spontaneità e la disinvoltura con cui ciò avviene è sicuramente frutto di un calcolo: ma Casella riesce a rendere impercettibili i punti di sutura e a far sembrare del tutto naturale la transizione. Si potrebbe dire che qui il carattere nazionale si manifesta come risultato di un processo di assimilazione linguistica e non come mero dato di partenza.
Un vistoso gesto drammatico – l’irruzione di tre ragazze spaurite, che sembrano annunciare una grave disgrazia, accompagnate da un Grave, quasi funebre, che ne rispecchia la costernazione – introduce pateticamente, quasi si trattasse di un corpo agonizzante, la enorme giara spaccata; e si noterà appena come sulla ‘formula del lamento’, un topos della musica occidentale (ossia un semitono discendente), s’inserisca l’immagine musicale della giara spezzata, costituita da accordi cromatici che danno l’idea di una rottura, di una figura spezzata. Assai plastica è invece la presentazione della scena di furore di don Lollò, nella quale ancora una volta la musica coniuga una forte evidenza rappresentativa con una pregnanza linguistica che sembra trascendere la pura funzionalità drammatica.
Con l’entrata di Nela, la figlia di don Lollò, anche la musica pare rischiararsi e ingentilirsi nella danza, fino a farsi distesa, carezzevole e suadente: melodia tipicamente italiana, certo, ma screziata di luci riflesse. Con quella di Zi’ Dima, sul ritorno della figura tematica e ritmica del Preludio (convenientemente sbilenca gente come un manto di stelle, che si dissolve a poco a poco perdendosi nel silenzio della notte.
Ciò che poi segue porta rapidamente a conclusione la commedia: dal Brindisi che accende gli spiriti nell’esaltazione dell’ebbrezza, al Finale orgiastico e barbarico, quasi brutale. E la danza, ora, può tornare a reclamare i suoi diritti; tutto e tutti accomunando in un tripudio generale che col rito popolare della festa può finalmente sfogare negli slanci della musica i suoi colori piú sgargianti, la sua tavolozza piú ricca e le sue luci piú abbaglianti. Folclore all’ennesima potenza; ma non solo folclore, nella giara abitata da Casella.
Gianandrea Gavazzeni, Giuseppe Mega / Maggiodanza, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino