Al Maggio c’è Salammbô manca solo Musorgskij

A

Una sviante edizione dell’opera in forma di concerto

Nell’esecuzione poco entusiasmante si salva solo la Borodina

La presentazione della Salammbô di Musorgskij con i complessi dell’Opera di San Pietroburgo diretti da Valerij Gergev ha portato al Maggio, per la prima volta in questa edizione, un vago sentore di festival. Non che l’idea fosse straordinaria o schiudesse prospettive inaudite; ma al confronto con quanto si è ascoltato finora si trattava finalmente di una proposta accettabile. Giacché Salammbô è piú che uno fra i tanti progetti d’opera lasciati incompiuti da Musorgskij: se è vero, come diceva Richard Strauss, che i semi della creatività si ritrovano nelle prove giovanili e nelle scelte, anzi nelle esclusioni, che queste spesso comportano, cosicché anche da esse è possibile ricostruire il senso di un percorso, per Musorgskij l’esotica, estetizzante Salammbô rappresentò una presa di coscienza, il momento chiarificatore prima dell’adesione al realismo popolare della storia nazionale russa. È qui che si determinarono certi presupposti: in modo tale da non consentire, dopo la svolta, ripensamenti o nostalgie.

Infatuato, nell’ardore dei suoi ventiquattro anni di inquieto osservatore del mondo e dell’uomo, dalla lettura del romanzo di Flaubert (si era nel 1863), Musorgskij decise immediatamente di ricavarne una grande opera in quattro atti e sette quadri, scrivendo lui stesso il libretto. Si arenò ben presto, titubante di fronte alla complessità di un’impresa così lontana dalle sue corde, e fors’anche umiliato dalle sarcastiche reazioni degli amici, in quel nido di vipere che fu il tanto mitizzato gruppo dei nazionalisti russi. Del progetto rimasero in tutto soltanto sei pezzi di diverso carattere e di non amplissime dimensioni, eccentricamente distribuiti nell’arco di un’opera che mai, neppure nelle intenzioni, ebbe unità e compiutezza teatrale: improponibili dunque se non in forma di concerto, come a Firenze. Il fatto che delle sei scene composte soltanto due risultino interamente orchestrate rende necessario, sui materiali esistenti, un delicato lavoro di revisione e di completamento della partitura. Compito che è stato affidato, con crismi di ufficialità e primogenitura riservata al Maggio, al compositore Aleksandr Nagovitzin, secondo criteri peraltro non trasparenti. Il risultato si discosta palesemente dall’altra versione realizzata una dozzina d’anni or sono dal direttore Zoltan Pesko alla Rai di Milano. E non appare migliore di quello. L’impostazione filologica di non mischiare il linguaggio strumentale individuato a partire dal Boris (dove frammenti della Salammbô furono tuttavia utilizzati in luoghi particolarmente importanti) ma di ricostruirne una sua indifferenziata preistoria è puramente induttiva: e stride anzitutto con le parti originali dell’autore. Quando mai Musorgskij raddoppia per tratti cosi estesi il canto all’unisono coi violini, usa gli arpeggi, i tremoli degli archi e i rulli di timpano alla maniera tedesca, francese o peggio italiana, impastai legni in modo vischioso e stucchevole? E che c’entrano i corni chiusi alla Mahler, il garrulo triangolo e il vibrafono, in evidente contrasto anche con la filologia? Insomma, a conti fatti questa strumentazione relega Musorgskij in un limbo convenzionale che non gli appartiene se non riduttivamente e da cui anche l’esecuzione, non entusiasmante, a parte la bella vocalità di Olga Borodina, stentava a sottrarlo: così allontanandolo da noi.

da “”Il Giornale””

Articoli