Si racconta che una volta, qualche anno fa, Leonard Bernstein avesse dato una grande festa all’Hotel Bayerischer Hof di Monaco dopo un concerto senza sapere che in una suite attigua alloggiava, di passaggio, Herbert von Karajan. Seccato dalle intemperanze dei convitati (Bernstein amava le compagnie numerose e rumorose, cioè allegre), Karajan chiese al portiere di notte chi mai fosse quell’importuno che gli impediva di riposare, e che lo facesse smettere. Ma saputo che era Bernstein, subito cambiò tono, e inopinatamente ordinò che gli venissero portate all’istante alcune bottiglie di champagne francese, offerte da lui stesso.
La mattina dopo, Karajan ricevette un enorme cesto di rose, naturalmente rosse, con il quale Bernstein ricambiava il gentile omaggio.
Non so perché la notizia della morte di Bernstein mi abbia fatto tornare in mente questo episodio spassoso. Forse perché la sua scomparsa suscita la stessa emozione di quella provata poco più di un anno fa, quando morì Karajan.
E accostarne le figure, nel ricordo e nel rimpianto, diviene quasi automatico. I due più inimitabili direttori d’orchestra della nostra epoca ci hanno lasciato, e noi siamo rimasti più poveri senza di loro, senza due formidabili personalità che hanno cambiato, e per opposte ragioni, il modo stesso di concepire l’interpretazione musicale.
Anche Bernstein era cambiato, in questi ultimi anni. Il suo modo di dirigere, pur non perdendo nulla delle sue caratteristiche qualità, che sul podio si manifestavano con smorfie e salti, contorsioni e ammiccamenti continui, aveva acquistato una nuova purezza, una essenzialità inconsueta per un interprete di natura così estroversa e sfolgorante. Continuava a ripercorrere il suo sterminato repertorio senza ripetersi, quasi con inquietudine, per fissarlo coi mezzi delle tecniche di registrazione più moderne: ormai desiderava incidere solo dal vivo, in video oltre che in audio, sovente spiegando lui stesso con straordinaria vivacità i pezzi che eseguiva. L’obiettivo che perseguiva era quello di una visione della musica più rarefatta e luminosa, tutta concentrata sulla tensione del suono e sulla profondità dei sentimenti. Aveva completamente rifatto il suo Mahler degli anni Sessanta, scoprendone la passione oltre il virtuosismo; era tornato a Beethoven per mettere in rilievo non la modernità del linguaggio e delle forme ma l’enorme carica di universale fraternità, la volontà di piegare il destino in testimonianza della gioia di vivere, di segno ostinatamente positivo. La Nona Sinfonia che diresse a Berlino dopo la caduta del Muro, la mattina di Natale dell’anno scorso, trasformava l’Inno alla gioia in esaltazione tumultuosa del sentimento di libertà, senza distinzioni ideologiche: fu un’esperienza indimenticabile, da ogni punto di vista, musicale e umano.
Di lì partiva la sua riconsiderazione della stagione romantica, e di quella classica in particolare, a cui aveva dedicato le sue ultime energie con le esecuzioni delle Sinfonie e dei pezzi corali di Haydn e di Mozart. Il tempo aveva prosciugato la brillante superficialità degli anni dell’esuberanza e della forza fisica, del talento sfrenato, con un’autodisciplina sovrana. Da dionisiaco qual era, Bernstein era diventato apollineo, come spesso accade nella parabola dei veri, assoluti artisti.
La simpatia, la prorompente vitalità, la straordinaria comunicativa, quelle non erano cambiate; e non facevano solo parte del personaggio Lenny, dell’uomo di spettacolo che della vita americana aveva preso tutto. Erano invece un modo di guardare alle cose con incrollabile ottimismo, di divertirsi e di divertire, senza porre limiti alla gioia infinita di vivere. Lavoratore instancabile, della vita che gli aveva dato tutto – talento, fama, successo – sapeva godere i piaceri con consapevole accanimento. Poteva sconcertare vederlo sorseggiare whisky e fumare una sigaretta dopo l’altra durante le prove, o fra un pezzo e l’altro di un concerto. Forse era un modo di scaricare la tensione portata ad altezze quasi insostenibili, o più semplicemente di non negarsi le solite abitudini, nel modo più naturale.
All’occorrenza, però, sapeva distinguere nettamente, come artista, ciò che restava marginale dalla sostanza dei suoi obblighi verso gli autori e le musiche che affrontava.
Si era ritirato dal teatro perché non ne riconosceva più l’identità, e non voleva scendere a compromessi. Preferiva dirigere l’opera in forma di concerto, per riscoprirne i valori assoluti. Lui che aveva lavorato con la Callas e con Visconti, ora si rivolgeva ai cantanti giovani come una chioccia fa con i pulcini. Non sempre i risultati furono esaltanti, o degni del suo livello. Ma per esempio nella non felice Bohème diretta a Santa Cecilia, per l’istituzione di cui era presidente onorario, il quadro del Quartiere Latino non aveva uguali per il modo in cui Bernstein sapeva rendere commovente l’illusione di felicità di un sogno della giovinezza.
Si piangeva con lui, senza vergognarsi, Bernstein faceva della musica una parte naturale di noi stessi.
La stessa ambizione presiedeva alla sua attività di compositore, che per lui contava quasi più della direzione d’orchestra. Non siamo d’accordo con chi sottovaluta le sue musiche, o le considera addirittura inutili. Paradossalmente, gli ha nuociuto il successo internazionale di un’operetta in chiave contemporanea come West Side Story, che pur essendo un capolavoro non copre tutta l’immagine del Bernstein compositore. Aveva una vena facile, immediata, apparentemente non problematica. Non credeva alla crisi dei linguaggi, della melodia e dell’armonia. Adorava il musical, e i songs popolari. Ma nei lavori di più alto impegno, dove talvolta la sproporzione fra intenzioni e realizzazioni si manifestava in modo tenero e ingenuo, nelle composizioni sinfoniche e corali, sembrava concentrarsi sui temi dell’esistenza e della religione con una fede che non ammetteva dubbi. Lo stesso eclettismo del suo stile, brulicante di brevi invenzioni e di sintetici sviluppi, ora tendente all’ebbrezza dei colori ora all’ascesi mistica, mirava a bruciare nella rivelazione dell’attimo eterno una sfuggente ansia di liberazione, e di comunicazione.
E probabile che, come è accaduto per Karajan, passata l’emozione del momento, sedimentati i ricordi, anche per Bernstein si comincino ad avanzare soprattutto riserve sulla statura dell’interprete, come del resto gli era accaduto già in vita. E’ destino degli interpreti, anche di quelli grandissimi, scomparire in parte con l’estinguersi della presenza fisica. Per riemergere poi nel libro della storia, e restarci per sempre.
Il Giornale della Musica, n. 55, novembre 1990