A recite loro ci battono ma, ci salva l’instabilità

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Tradizione tedesca e usi d’Italia a confronto

Sistema tedesco e sistema italiano (ma si potrebbe dire anche francese o inglese o americano). Rapporti fra teatri e pubblico. Proviamo un po’ a vedere come funzionano le cose nei centri maggiori, nelle capitali della musica, e se funzionano davvero. Il primo dato che salta agli occhi è la sproporzione tra la produzione dei nostri teatri e quella di ogni altro grande teatro del mondo: per numero di recite siamo nettamente indietro. Le nostre recite, però, si dice, sono le migliori: anche ammesso che sia vero, non si capisce perché teatri sovvenzionati col danaro pubblico, che dovrebbero avere una funzione culturale continua con la loro attività, debbano star chiusi un terzo dell’anno.

Dovunque, salvo in America, dove il sistema di finanziamento in gran parte privato detta altri ritmi, i teatri lirici (ma anche quelli di prosa) aprono a metà settembre e chiudono alla fine di giugno: spesso continuando a lavorare sotto altre forme (festival, tournées) anche in estate. Certo, il mito del teatro aperto tutte le sere, vanto della tradizione tedesca, ormai non esiste più: da un paio d’anni, anche a Monaco e Berlino una sera alla settimana l’esercizio chiude, sia per dare respiro a un pubblico sempre più attratto da altri svaghi, sia per far fronte a costi lievitati, dovunque, in modo quasi insostenibile. Giacché la crisi dei teatri investe tutta l’Europa, non solo come conseguenza dei tagli agli investimenti per la cultura.

Il sistema di repertorio tedesco si basa su principi oggi defunti. La premessa era che ogni teatro, a seconda della sua grandezza, possedesse un direttore stabile e un gruppo di direttori ospiti principali in grado di assicurare la rotazione delle opere mantenendone la qualità; c’erano poi compagnie di canto fisse, e registi altrettanto stabili, capaci di assicurare anche dopo molte recite un rapporto serio con le idee sceniche originali. Va anche aggiunto che la figura del regista non aveva ancora assunto l’importanza che ha oggi: il cosiddetto teatro di regia ha modificato il modo stesso di intendere l’opera lirica, con le conseguenze che tutti sappiamo.

Era inevitabile che un genere che da cinquant’anni non produce più niente di nuovo (abbiamo avuto molti lavori di teatro musicale, ma niente li apparenta più all’opera in quanto tale) finisse per snaturare il proprio rapporto con il repertorio. Ne consegue che anche in Germania si è adottato ovunque il criterio della «semistagione»: tre o quattro opere si alternano per due, tre settimane, e si cerca di mantenere il più

possibile inalterati il cast e il direttore. Intanto le nuove produzioni sono diminuite; a Monaco erano undici negli anni Settanta, nove negli anni Ottanta: oggi sono scese a sei

La vera differenza sta comunque nel fatto che in Germania si andava per tradizione a teatro per ascoltare l’opera, non quella determinata esecuzione: semmai era il prodotto della casa ad avere un tono generale chiaramente individuale, quasi familiare, per così dire riconoscibile. Oggi le cose sono mutate: nessun teatro ha più un tono proprio. I grandi direttori e i grandi cantanti vanno e vengono da un teatro all’altro, sono diventati commessi viaggiatori della musica. Ne consegue che un rapporto stretto fra teatro e pubblico non esiste più: e ciò che rende talora possibile un aggancio è l’evento, che ha preso dovunque il posto della normalità, un bene diventato raro.

Paradossalmente, da noi il progressivo sfaldarsi di una condizione di stabilità in campo teatrale, che rende gravissima la crisi delle istituzioni tedesche, ha prodotto meno guasti: abituati all’instabilità, oltre che alla cultura dell’evento, siamo in grado d’inventarci ogni volta il miracolo, per osannarlo o demolirlo. Il rito del 7 dicembre alla Scala è consustanziale alla nostra natura: per abolirlo, occorrerebbe abolire prima le presentazioni, le conferenze stampa, le interviste, le anticipazioni e quant’altro lo rende, appunto, un evento mondano. A Fontana e Muti, che tanta sensibilità mostrano per un teatro ricondotto unicamente a valori artistici, chiediamo di approvare il primo passo: da oggi al 7 dicembre nessuno parli più dell’apertura della Scala.

 

 

aveva applicato teorie scenografi-che geniali alla reinvenzione di una dimensione spaziale e temporale più allusiva che realistica), il canzbia►nento di prospettiva si compì con Wieland Wagner, a partire dal suo primo allestimento degli anni Cinquanta a Bayreuth.

Wieland spogliò il Ring di ogni orpello scenico per puntare a una interpretazione oniricamente simbolica, di un simbolismo per così dire ascetico, concentrando l’azione sul-la parola cantata e sui conflitti dei personaggi-figure. La scena svuotata si riempiva così interiormente di tensioni ideali, di velate suggestioni e di chiaroscuri infiniti: Wagner veniva ripulito degli accessori inutili, di ciò che pareva il mero involucro di un’astrazione, la metafisica del

dramma musicale.

Il magico equilibrio raggiunto da Wieland si spezzò di nuovo allorché all’interpretazione metafisica subentrarono l’indagine sociologica e politica, l’ottica parziale volta a in-quadrare la Tetralogia nella cornice borghese dell’epoca, nonché quella partigiana della critica ideologica.

Per gli adepti la rottura esplosiva s’identificò con l’allestimento del centenario di Patrice Chéreau a Bayreuth; in realtà era stato Luca Ronconi, proprio alla Scala nella Valchiria, a inaugurare questa tendenza, rimasta dominante, con accenti più o meno marcati, fino ai giorni nostri.

Le fasi che abbiamo sommaria-mente descritto riassumono un per-corso assai ricco di possibili variazioni ma in sé fondamentalmehte esaurito. Il teatro di regia moderno ha definitivamente riattivato il palcoscenico, liberato forze represse, esorcizzandone i fantasmi.

Ora, finito il tempo di esperimenti a volte anche velleitari, è il momento opportuno per un nuovo e pacifico inizio. Occorre ripensare la sintesi originaria, senza enfatizzare tutto ciò che appare o tradizione o moda.

Un’equazione tanto difficile quanto necessaria: nonostante le molteplici incognite.

da “”La Voce””

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