Assecondato dai protagonisti Jutta Lampe e Peter Simonischek, il regista abolisce le schematiz azioni del testo per restituirgli la sua inafferrabilità e ricchezza di temi, consacrando l’attualità del teatro come specchio della vita
Berlino – E se tutto fosse una farsa, una tragica farsa? A volere essere un po’ iperbolici, il nuovo allestimento del Giardino dei ciliegi che Peter Stein ha curato con il consueto, maiiacale perfezionismo alla Schaubühne di Berlino è detinato a fare punto e a capo nella storia delle messinscene di Cechov. Giacché questa volta non si tratta più soltanto, come nelle sue recenti Tre sorelle, di uno spettacolo magnifico per coerenza stilistica e lavoro di scavo sugli attori, ma piuttosto di un tentativo di rilettura a tutto campo dell’ultino lavoro di Cechov: ripensato e rivissuto con i nostri occhi, la nostra sensibilità e alla luce dei nostri interrogativi. Ma anche del suo passato.
Questo spettacolo fa anziutto piazza pulita delle interpretazioni intimistiche e crepuscolari che si sono accatastate sul Giardino e che ne hanno fatto sovente una sorta di struggente elegia per la comparsa di un mondo, il paradiso dell’infanzia e dei sogni, della purezza simboleggiata appunto dal giardino dei ciliegi. Si è rafforzata così una certa tendenza all’espressione lirica, all’inflessione tragica, alla autocommiserazione, spesso ad uso e consumo del protagonismo degli attori: giocata tutta, o quasi, sul presagio e poi sulla disperazione dell’addio. Stein sbratta tutto ciò per ripartire dall’idea – in origine già di Stanislavskij – che il Giardino dei ciliegi sia, non solo nel titolo, fondamenilmente una commedia; e rappresenti ancor più un mecanismo teatrale a suo modo perfetto, nel quale convergono fino al limite di rottura, fra tradizioni e convenzioni, tutti gli elementi del teatro, le situazioi e i tipi umani chiamati a reazzarlo. Per Stein questo testo contiene precisi motivi farseschi che si ricollegano a generi ben codificati, per quanto riplasmati e rifusi insieme. Sicché il lato tragico, che pure esiste, non manca di venir sottolineato nei punti dovuti, ne è solo un aspetto e, in sé, forse neppure il più rilevante.
La lettura per così dire corale che ci dà Stein sposta gli equilibri fra i personaggi e intensifica le relazioni per cercar di chiarire che cosa li muova e li determini. La pietà per la Raniévskaia e per suo fratello Gaiev, soccombenti di fronte al delinearsi di un nuovo sistema di valori, si colora così di interrogativi inquietanti sul mondo fatuo e superficiale che li circonda (un servo arrogante e volgare, una istitutrice illusionista) e sulle ragioni del loro stesso comportamento: apatico sino a rasentare l’indifferenza. A Jutta Lampe e a Peter Simonischek, gli attori protagonisti, viene chiesto di non limitarsi a una prova da grande virtuosi ma di cercare, nei loro ruoli, brandelli di verità e di consapevolezza.
Di contro l’emergente Lopachin di Michael Konig, il nuovo padrone del giardino, è tutt’altro che una figura minacciosa, antipatica e sgradevole, ma diviene invece un personaggio di forte spessore, di ambigua complessità psicologica nell’intreccio di complicità e frustrazioni, tenerezze e
brutalità che lo caratterizzano. E così Varia, vittimista e isterica fino all’autoannientamento, o Ania e Trofimov, nel loro fragile idealismo.
Ciò che preme a Stein è dunque rivelare il funzionamento del testo sotto il profilo drammaturgico, anche in rapporto all’azione. Siamo agli antipodi dell’idea che il Giardino sia soprattutto teatro fatto di parole e povero di dramma. Ben oltre l’apparenza, tutto avviene e si cristallizza all’interno dei personaggi: e sono vicende umane che esauriscono le possibilità stesse del teatro. La sfida di portare all’esterno questi eventi psichici è brillantemente vinta da Stein anche a rischio di qualche forzatura grottesca: ma una rappresentazione così fresca e vitale, così appassionante e sfaccettata, ricca di sfumature al punto da rendere materialmente impossibile seguire lo svolgimento di ciò che accade contemporaneamente sulla scena, è cosa rara da vedere.
Anche l’ambientazione rispecchia questa duplice intenzione del regista: restituire Cechov alla dimensione teatrale nella molteplicità dei suoi elementi, là dove farsa, idillio, commedia e tragedia si tendono la mano, e scavare dentro il testo per prendere atto di come reagisca. Le scene sono di un realismo minuzioso, si direbbe quasi filologico; tutto, dagli arredi ai costumi e alle luci, è ricostruito secondo l’epoca, come se davvero assistessimo a qualcosa di reale. Ma il lavoro di regia con i mezzi più moderni e sofisticati – i rumori della natura, le ombre che passano nel giardino, il trascorrere delle ore – interviene per ricreare un clima essenzialmente psicologico: per svelare ciò che si cela dietro l’apparenza della realtà, di ogni realtà.
Ed è nel punto dì confluenza fra queste due sfere – la magia del teatro come mezzo per reinventare il vero – che Stein costruisce la sua interpretazione del Giardino. Qui vengono alla luce conflitti irrisolti, speranze deluse, rimpianti e utopie: qui la commedia si trasforma in tragedia per scoprirsi, alla fine, farsa. Stein prende posizione e preferisce, dopo averlo smontato e ricomposto, far parlare il testo in una visione a più voci nella quale ogni parte è solista e, al tempo stesso, controcanto. Eppure si ha la sensazione che qualcosa di inaudito, di spaventoso e di comico avvenga nell’intimo dei personaggi: niente, dopo, sarà più com’era prima.
Così, questo spettacolo che pure è fatto di simboli e do momenti di straordinaria suggestione – l’attesa, l’eccitazione dell’arrivo all’inizio, l’apertura delle finestre sul giardino dei ciliegi, quando il tempo sembra fermarsi in un ultimo ricordo di felicità, il tenero idillio pastorale del secondo atto, l’animazione frenetica della festa, preludio di un congedo senza ritorno – si impone soprattutto per le diverse possibilità di lettura che apre per le penetranti riflessioni che si lascia dietro. Abolendo la schematizzazione di un’interpretazione a senso unico, anche a costo di costringere i suoi attori a un fatico lavoro di disciplina per far scaturire la verità dal superamento delle loro stesse qualità artistiche, Stein restituisce
Il giardino dei ciliegi alla sua ricchezza di temi, alla sua inafferrabilità. Ma soprattutto ricrea una mirabile riflessione sull’attualità di Cechov e sul teatro come specchio della vita.
Quando alla fine il vecchio Firs recita il suo monologo, noi non udiamo più 1e parole, sovrastate come sono dal rumore delle scuri che abbattono gli alberi. Quel finale ad effetto che ci viene così sottratto è la conferma che il dramma si consuma nei sentimenti e nei pensieri degli uomini, non nell’’inarrestabile corsa del progresso. Per questo tutto è forse una farsa: dove si piange, si ride, come nella vita, ma sempre con profonda emozione.
“Il giardino dei ciliegi” di Anton Cechov alla Schaubühne di Berlino (repliche oggi, il 4, 6 e 7 luglio).
da “”Il Giornale””