A bacchetta

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Queste Conversazioni con Herbert von Karajan del musicologo inglese Richard Osborne sono quanto di meglio si possa leggere per ricordare, e perfino capire più a fondo, la figura di uno dei più grandi, indimenticabili direttori della nostra epoca, della cui tragica grandezza forse solo ora, post mortem, ci rendiamo conto interamente, sentendone la mancanza. Ci eravamo abituati a considerarlo, nei suoi ultimi anni di vita, complice lui stesso, una specie di mostro sacro, di divo capriccioso e irraggiungibile, solitariamente assiso sul trono dorato del suo malinconico crepuscolo. Le dimissioni dalla direzione del Festival di Salisburgo, la rottura con i Berliner Philharmoniker, di cui era direttore a vita, il lento, inesorabile progredire della malattia, tutti questi fatti e altri ancora avevano a poco a poco smantellato il mito del potere assoluto di Karajan, che un’immagine pubblicitaria non disinteressata aveva contribuito a erigere a sua maggior gloria. Restavano, è vero, sempre più rare e circondate da attese quasi messianiche, le apparizioni del direttore d’orchestra, dal vivo o in disco: nelle quali tuttavia Karajan sembrava voler celebrare se stesso come interprete guardando più oltre la musica che dentro la musica, come mai prima aveva fatto.

A differenza della biografia capziosamente insinuante di Roger Vaughan (tradotta da Longanesi) o del volume inutilmente agiografico di Peter Csobadi (di cui qui già ci occupammo), quest’agile raccolta di interviste messa insieme con squisito equilibrio da Osborne (in uno spazio di tempo che va dal 1977 a sei settimane prima della morte di Karajan) fornisce un ritratto dell’uomo e dell’artista finalmente ricondotto a dimensioni umane, da guardare con interesse non morboso. Il modo in cui Karajan parla di sé, delle sue esperienze e delle sue aspirazioni, riconoscendo molte volte di aver sbagliato o di non aver previsto certe conseguenze, è sempre quello di una grande personalità, consapevole del proprio valore e delle proprie ambizioni; ma niente affatto isolata dal resto del mondo, o in aperto contrasto con esso per eccesso di superbia.

Forse la solitudine di Karajan, che dovette essere spaventosa non solo negli anni dell’epilogo, si spiega con la tensione e la concentrazione che da lui richiedeva la musica: sentita – più volte egli lo sottolinea – con un senso del dovere assoluto, di fronte al quale nient’altro aveva valore. E come una vocazione: irresistibile, fin da quando, ancora bambino, aveva invidiato suo fratello, di poco più grande: «Non vedevo perché lui potesse avere lezioni di pianoforte quando a me dicevano che ero troppo piccolo: così mi nascondevo dietro le tende e ascoltavo le sue lezioni. Presto ne seppi tanto che non potettero più negarmele». Anche in seguito Karajan lottò duramente, attraversando più di un momento di disperazione e di sconforto, senza trovar pace fino a che non avesse ottenuto ciò che desiderava: esercitare al massimo livello, con ostinazione e continuo rovello interiore, la missione dell’interprete.

Nasce in fondo di qui, da questo tarlo della perfezione, la vita artistica di Karajan: divenuto, per realizzarla, il controllore assoluto di ogni aspetto che ad essa fosse collegato. La molteplicità dei suoi interessi, e delle attività connesse alla musica, si estese via via che un obbiettivo era raggiunto: e in questo libro ne vediamo tratteggiati i percorsi. Ma con altrettanta lucidità Karajan ne spiega le ragioni, collegandole alla sua formazione, alle sue esperienze, agli incontri che li determinarono, e che gli dettano ricordi significativi, o riflessioni illuminanti. Su Felsenstein, per esempio, e sulla regia d’opera, che fin dal 1940 lo impegnò in prima persona: «Lo ricordo in particolare perché capiva che l’opera è connessa a quei momenti d’estasi in cui un uomo o una donna deve usa-re un mezzo d’espressione diverso dalla parola parlata. Molti registi che all’opera giungono dal teatro di prosa sono incapaci di comprendere questa forma tutt’affatto speciale dell’espressione umana». O sui dischi, che cominciò a incidere a Berli-no nel 1938, di cui rivoluzionò la funzione anche in senso tecnologico, aprendo poi l’era della riproduzione cinematografica della musica: «Portare la musica a tanta gente è stata la più grande soddisfazione della mia vita».

Tutto questo lavoro sfrenato mirava da ultimo a la-sciare testimonianza di un magistero interpretativo che fu grande proprio in quanto penetrava nelle profondità della musica, per portarne alla luce i dettagli più nascosti e disporli in una visione d’insieme unita-ria e coerente, ma libera e gioiosa. E qui Karajan ci svela un piccolo mistero: «Per provare bene si ha bisogno di una mente simile a un microscopio. Ma in esecuzione è tutto diverso. Qui in un certo senso il punto più alto dell’arte di dirigere è sa-pere quando uno non deve dirigere».

Richard Osborne, «Conversazioni con Herbert von Karajan», trad. di Oddo Piero Bertinl, Guanda, pp. 191, lire 22000.

da “”Il Giornale””

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