III. Trovar potessi il nome, pronunciar la parola che chiarisca a me stesso così ansioso cercare; e che giustifichi questa mia vita, il lungo errare, che rassereni l’ora che rapida s’invola.
(L. Dallapiccola, Ulisse)
A LUIGI DALLAPICCOLA, IN MEMORIAM
E’ sempre difficile non credere alle coincidenze, soprattutto quando esse ci appaiono con il carattere della più significativa necessità. O, se si vuole, i misteri che celano una verità stimolano anche il desiderio di scoprirla. Tre fra le più importanti opere del Novecento – Doktor Faust di Ferruccio Busoni, Moses und Aron di Arnold Schoenberg, Ulisse di Luigi Dallapiccola – si concludono (due, addirittura, senza compiersi) nel punto di concentrazione massima del materiale musicale ed espressivo, quando il protagonista, divenuto simbolo di tutta l’opera e ancora di più di tutta la personalità creativa del suo autore, si autointerroga angosciato nella solitudine di un monologo per trovare risposta alla sua ricerca, fattasi finalmente esplicita e rivelatrice, della “parola”.
Ricordiamo quelle situazioni e quei momenti : Faust, disilluso e tormentato dalla coscienza, dopo l’apparizione della Duchessa che gli ha affidato il bambino morto, cerca invano di trovare rifugio nella chiesa, respinto dall’ombra del soldato armato, fratello di Margherita. Allora, raccogliendo le ultime forze, si trascina col bambino in braccio fin sui gradini del crocifisso, per pregare. Il bisogno che egli sente in sé di pregare non trova però forma, perché sono le parole che gli mancano : “”O, beten, beten! wo, wo die Worte finden?”” (Pregare… pregare… Ma dove trovare le parole?). Sul punto interrogativo di Faust, alla battuta 489 dell’ultimo quadro, la partitura dell’opera rimase, come è noto, incompiuta, e così fu trovata, celata in un cassetto chiuso a chiave,
27 luglio 1924 quando Busoni morì nella sua casa berlinese (1).
Altrettanto impressionante la situazione in Schoenberg : Moses, dopo il drammatico colloquio con Aron nella quinta scena dell’atto secondo, sconfitto e abbandonato da colui che avrebbe dovuto rendere viva in immagine l’“idea”, vede fin con troppa evidenza che l’immenso problema sentito in sé come missione affidatagli da Dio in persona, non è stato risolto. Rimasto solo, prorompe in una delle più disperate invocazioni che la storia dell’opera ricordi : “So habe ich mir ein Bild gemacht, falsch wie ein Bild nur sein kann! So bin ich geschlagen!… O Wort, du Wort, das mir fehlt!” (Dunque mi sono fatto un’immagine, falsa come lo può essere solo un’immagine! Dunque sono sconfitto!… O Parola, Parola, tu, che mi manchi!). Come Busoni, anche Schoenberg non finì mai più la sua opera, che rimase musicalmente incompiuta con quella invocazione di Moses. Certo, oggi tutti conosciamo il testo che Schoenberg aveva preparato per il terzo atto e, in fondo allo spartito, possiamo leggere alcuni interessanti passi che vorrebbero chiarirci il perché la musica del terzo atto non sia stata mai realizzata. Ma l’opera, in quanto tale, era praticamente finita con la disperata invocazione del protagonista (2).
Infine, Ulisse : nell’ultima scena (Epilogo) dell’opera di Dallapiccola egli è solo, sul mare aperto in una notte stellata. Ulisse non ha ritrovato la pace in Itaca. La profezia di Tiresia si è avverata : è tornato di nuovo sul mare. Egli, «Nessuno», si interroga ancora una volta sulla sua identità, e sulla ragione della angoscia che internamente lo rode : “Un uomo sono, un uomo che ha guardato il mondo nelle foggie più diverse e che intorno si vede sorger, muti, con occhi interroganti, mille visi, mentre nell’alma le memorie farsi sembran più dense e dolorose». Dallapiccola fa poi parlare Ulisse come Faust : «Quanto e cosa appresi? Fole. Dopo fatiche inani, briciole di sapere, vani balbettamenti, sillabe soltanto mi son rimaste invece di parole». Alzando gli occhi per contemplare le stelle, ha l’impressione che queste gli appaiano sotto una nuova luce. E’ la parola che gli manca, è il Nome che non sa dire : «Trovar potessi il nome, pronunciar la parola che chiarisca a me stesso così ansioso cercare ; e che giustifichi questa mia vita, il lungo errare, che rassereni l’ora che rapida s’invola. Guardare, meravigliarsi, e tornar a guardare. Ancora : tormentarmi per comprendere il vero». E’ ormai rassegnato a continuare le sue peregrinazioni quando, nell’istante ultimo, come per improvvisa illuminazione, pronuncia la parola «Signore!». Ulisse dunque, a differenza di Faust e Moses, sarà l’unico a salvarsi, a non sentirsi più solo, più «Nessuno», nella raggiunta certezza del Nome che calma e rasserena : egli compie quell’approdo mistico che Busoni non era riuscito a realizzare, la definitiva conciliazione nella pace della fede, il definitivo superamento dell’angoscia terrena e interiore che lo aveva accomunato a Faust e Moses nella tormentosa ricerca volta a individuare l’essenza della condizione esistenziale dell’uomo nel mondo.
Seppure su piani diversi e con diversa intensità, le tre opere racchiudono un carattere emblematico che è originato da una situazione comune e la rispecchia simbolicamente, persino al di là delle significative corrispondenze che abbiamo indicato. Di essa Moses und Aron rappresenta il momento più avanzato e radicale, quello in cui il significato della ricerca vanificata della parola si pone, al vertice della parabola, come qualcosa di autenticamente rivelatore : l’ultima invocazione di Moses esprime nella coscienza della mancanza della parola non già una generica impossibilità di cogliere e dare forma all’inesprimibile, quanto, molto più tragicamente, l’ambiguità se non l’impotenza del linguaggio sia empirico sia ideologico a contatto con la realtà e il mondo degli uomini. E’ lo scacco storico dato al linguaggio come veicolo di definizione e di comunicazione della realtà dalla coscienza critica del Novecento ad essere rappresentato nella forma più drammatica e simbolica nell’opera di Schoenberg.
E Busoni? Il fatto che il Doktor Faust, l’opera che costituisce la summa della sua misconosciuta attività di compositore, sia rimasto incompiuto proprio nel punto culminante della scena finale, nel momento in cui Faust doveva superare lo stadio dell’autocoscienza per attingere alle forze soprannaturali capaci di fargli compiere l’atto mistico della creazione simbolicamente eterna (quell’atto che Ulisse realizza pronunciando il Nome ), si rivela, se non altro, una dolorosa sconfitta, e, conseguentemente, un primo annuncio della crisi della coscienza contemporanea alla ricerca della parola e della identità.
In questo senso, l’opera come genere musicale giunto all’ultima fase del suo sviluppo fra tradizioni gloriose e contraddittorie innovazioni incarna sino in fondo la tensione irrisolta della crisi artistica del nostro secolo, costituendo quasi un paradigma della situazione dell’arte contemporanea in un contesto che investe problemi di portata storica, e non soltanto culturali. La crisi dei valori ereditata dall’Ottocento si sposa con la fine dell’avanguardia che contribuisce, in uno stato di generale disagio, a proporre l’ipotesi di una definitiva perdita del futuro come dimensione ontologica dell’esistenza umana, quindi l’impossibilità di qualsiasi certezza finale. E’ questo un processo che ancora oggi noi stiamo scontando : e se Busoni non lo rappresenta nella sua fase più acuta ( che è Schoenberg) per motivi di nascita, di formazione e di cultura, pure ne intuisce suo malgrado la natura ponendosi come il primo anello di una catena che, nonostante Dallapiccola, non ha ancora toccato l’estremo limite in cui «il cerchio si chiuderà».
In Busoni, in una personalità che riunisce in sé con titanica aspirazione il pianista mitico, l’assertore di un’estetica musicale in largo anticipo sul suo tempo, il cultore instancabile degli ideali e dei valori della tradizione – Bach e Mozart! – e dunque apparentemente così al riparo da ogni tarlo distruttivo, la crisi è ancora vissuta, romanticamente, a livello individuale e soggettivo. Faust, simbolo dell’uomo che porta in sé l’ansia inestinguibile della ricerca e il tormento proprio di ogni essere pensante, vive un dramma che è in primo luogo esistenziale, investendo la sfera del rapporto con la propria soggettività in un contrasto che comprende tutte le forze che agiscono al suo interno; ma si svela poi essere, soprattutto, dramma della comunicazione, sia con il mondo fuori di sé sia, immer und wieder, con se stesso : e supera così anche le labili certezze dell’eredità romantica divenendo coscienza dell’uomo moderno che sente venir meno le basi per essere se stesso come un tutto armonico e dominare così la struttura della vita. La ricerca della parola, una costante dell’ultimo Busoni, diviene allora il simbolo dell’ansia di allontanare lo spettro dell’angoscia e della solitudine nel tentativo di un utopico sogno di riscatto che restauri, in un ripiegamento umanistico, l’identità del mondo e dell’uomo.
In un’epoca gravida di tensioni e di latenti contraddizioni anche nel campo dell’estetica il romanticismo, giunto al punto di saturazione e di autosuperamento, riceveva i contributi dei nuovi studi psicologici e scientifici come qualcosa di scardinante la vecchia scienza positivista, mentre si assisteva a un’ambigua rinascita del fervore metafisico e spirituale, se non addirittura mistico : in questo clima, con il Doktor Faust Busoni giocò la sua partita decisiva, inserendosi nella lotta con la coscienza della crisi ma con la volontà di superarla, e di abbattere, una volta per tutte, le barriere che lo separavano dall’ideale meta a cui non sarebbe mai dovuto pervenire. Pur anelando alla purezza della «classicità», delle «forme solide e belle», il suo Erlebnis si svolse tutto nell’alveo del romanticismo, programmaticamente rifiutando di spingersi troppo in là verso destini ignoti e preferendo, anche umanamente, rimanere ben fermo su posizioni di un problematico «giusto mezzo». Così in Busoni non c’è il senso di tragica consunzione e macerazione innanzitutto intellettuali proprie del romantico nel momento della Dämmerung, non c’è volontà di riconoscersi e annullarsi con la propria epoca, non c’è lo stato d’animo del decadente all’alba del XX secolo : in larga parte il suo romanticismo è come purificato, goethianamente cólto, dunque vissuto più culturalmente che etica-mente, e in un certo senso rinsanguato da istanze estetiche che, se a volte rischiano di sembrare distacco dalla realtà ed evasione, pure si ponevano come l’unica, e certo utopica, àncora di salvezza che la storia poteva oggettivamente offrire per sopravvivere, anche forse solo come illusione, e internamente «dissociati». Busoni capì bene tutto questo, e volle fermarsi sull’abisso senza tentare il salto, consapevole che il suo sacrificio, se poteva contare umanamente, nulla avrebbe aggiunto alla sua missione di creatore:
Il fatto è che gli uomini non possono creare; possono solo elaborare quanto già esiste sulla terra. E questo per il musicista sono le note e i ritmi (3).
‘ F. BUSONI, Valore della trascrizione, in Lo sguardo lieto, a cura di Fedele D’Amico, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 220.
Nell’individuare il proprio modello di artista in quello dell’artista creatore perché creato, che compone perché – come ebbe a dire un giorno Gustav Mahler – «è composto», «perché l’opera d’arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. E’ insieme dentro e fuori del tempo» (4), Busoni pervenne lucidamente all’estrema coscienza della propria individualità e dei propri compiti. Dopo, sarebbe venuto il contrasto inconciliabile con la realtà, il ritorno dalla pura intuizione al desto impegno di tutti i giorni, forse anche nella speranza di contraddire quella suprema verità. Sarebbe venuto, ultimo suggello di un doloroso commiato, il Doktor Faust.
E’ di importanza fondamentale ribadire a questo punto che per Busoni la sintesi finale di ogni aspirazione come compositore si configurava nel teatro, inteso come l’ambito più adatto al realizzarsi totale di ciò che la musica è nella sua essenza. Questo pensiero ricorrente accompagnerà Busoni non soltanto negli sforzi per tradurlo in atto e nei relativi, progressivi esiti formali, ma anche nel suo carattere di speculazione astratta volta a definire, ancora più profondamente, il senso stesso di quella musica assoluta e immateriale, «suono astratto … arte assolutamente autonoma che trova in se stessa il proprio principio e le proprie leggi» (5). Sotto questo riguardo le convinzioni a cui Busoni pervenne furono ancora una volta assolute : si trattava di restaurare, attraverso un progetto di stampo «rinascimentale», un teatro musicale che aveva perduto la sua ragione d’essere, dopo la tabula rasa di Wagner e al di là della pretesa eredità verdiana dell’opera verista e piccolo-borghese. Restaurarlo superando le cristallizzazioni e le convenzioni in cui l’opera tradizionale si era irrigidita:
L’opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell’innaturale come della sola regione di fenomeni e sentimenti che le convenga, e così creare un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno deformante: dovrebbe voler dare di proposito ciò che nella vita reale è irreperibile. Lo specchio magico per l’opera seria, lo specchio deformante per l’opera comica. E vi siano pure intrecciate danze, mascherate e magie, così che lo spettatore abbia coscienza ad ogni momento della piacevole menzogna e non vi si abbandoni come se si trattasse di un avvenimento di vita reale (6).
In una siffatta ideologia teatrale, persino nell’estremo paradosso di un vagheggiato «ritorno all’antico» (l’opera italiana sei-settecentesca e soprattutto Mozart), il concetto di opera si rivolta dialetticamente al concetto stesso di teatro musicale come genere costituito e si pone come critica dell’opera all’interno dell’opera in nome della libertà e della sperimentazione. Questo aspetto fortemente critico e minutamente elaborato sul piano estetico, che aveva trovato la sua realizzazione pratica più compiuta in Arlecchino (un vero e proprio saggio programmatico sull’impossibilità storica della sopravvivenza dell’«opera in musica» e, almeno in parte, nella fiaba musicale di Turandot, verga un tragico testamento nell’incompiuto Doktor Faust, dove l’individuo dannato perché perduto alla coscienza etica del mondo non può confidare altro che all’eternità la speranza di riscatto, in un soggettivismo messianico che affida ormai solo all’utopia mistica la salvezza dell’uomo.
Se da un lato dunque Busoni registrò, non passivamente ma anzi con coerenza di deduzioni, il progressivo svuotamento dell’essenza stessa dell’opera in musica, dall’altro si trovò a dover fare i conti con un linguaggio musicale frantumato in primo luogo proprio nella radicale rottura dei suoi mezzi espressivi. Ed è questo il nodo centralissimo della sua ricerca irrisolta e della sua partecipazione alla crisi della musica moderna : come il linguaggio ordinario aveva perduto il suo carattere di felice universalità e di stabilità nel dominio delle esperienze del mondo, così il linguaggio musicale, attraverso un processo di progressivo sfaldamento, aveva perduto la propria identità e il proprio valore universale, corrotto fin nel profondo delle sue strutture soprattutto per quanto riguardava i pilastri delle sue leggi, l’armonia e la logica formale classico-romantica. Il punto centrale della attività compositiva di Busoni è nella risposta data alla crisi del linguaggio musicale come verifica di una crisi di più vasta portata, esplicitata in modo simbolico nel significato della «ricerca della parola» ; e ancora una volta questa risposta fu la costruzione di un mondo linguistico e stilistico eterogeneo e insieme personale, che potesse derivare dalla propria compiutezza una oggettività valida in assoluto.
Osservata da questo punto di vista, come «dall’altra parte», tutta l’attività artistica di Busoni, compresa la sua ideologia musicale e la sua concezione estetica, risulta nelle sue aspirazioni finalmente chiara. Ma quello che sfuggì a Busoni (alla sua razionalità, non alla sua coscienza) fu il fatto che, se mirare all’assoluto della musica costituiva veramente l’ultima, estrema meta, l’implicito riconoscimento dell’impossibilità di arrivarci per via naturale senza compromissioni né dubbi né sconfitte significava prendere atto nella realtà dell’esistenza di due possibili e diverse strade : o accettare ia situazione e adeguarsi alle sue dure condizioni (come avrebbe fatto, con agghiacciante consequenzialità, Arnold Schoenberg), oppure evadere nel misticismo, nella fede, in un umanesimo devoto a1 miracolo dell’atto risolutivo. Busoni volle invece tentare quella sintesi che la storia aveva già sconfessato : essa rappresentava anzitutto la garanzia di avere un mondo su cui operare, se non altro per dimostrare che «natura non facit saltus». Ed ecco, sul piano operativo, la ricerca per superare l’ambito dell’opera a lui contemporanea, rinnovandone gli elementi strutturali e musicali in favore di una maggiore libertà costruttiva e formale ; ecco la ricerca di ristabilire nel linguaggio musicale un codice di riferimento e di valore, non in senso restaurativo ma anzi progressivo, andando a verificare leggi un tempo salde ; ecco, infine, l’ideale della Junge Klassizität, il perno fondamentale intorno al quale ruotano le scelte stilistiche e spirituali di Busoni, per rifuggire da ogni tipo di radicalismo : egli non vuole abdicare alla pasitività e alla convinzione (o illusione?) li poter costruire in piena libertà almeno le radici di un mondo nuovo.
Misura, equilibrio, sogno di una futura armonia sono i tratti che accompagnano il modo in cui Busoni, con un atteggiamento misto di interesse, simpatia e implacabile critica perché non si superi il limite, osserva l’espressionismo, il futurismo, il neoclassicismo e in genere ogni esperienza volta a scoprire ed esprimere il nuovo, sentendo l’impegno di capirne le ragioni ma sempre in funzione costruttiva ; e senza rendersi conto di quanta differenza ci fosse fra questa attività di ricostruzione e di ricucitura di un tessuto in brandelli e la meta trascendente e assoluta a cui mirava.
Per questo l’epigrafe che suggella la vita e l’opera di Busoni non è pessimistica, ma ancora lieta : perché, come dice Faust in un momento decisivo dell’opera, “”Nur der blickt heiter, der nach vorwàrts schaut”” (Solo chi guarda innanzi ha lo sguardo lieto). E lieto vorrebbe dunque riuscire ad essere lo sguardo di Busoni : «lo sguardo lieto» al di là della tragedia imminente. Ma se la sua ricerca (che cade quando vuole trovare e afferrare la «parola» – il significato ultimo – mentre riesce relativamente a costruire una nuova identità di linguaggio musicale, nuove forme e valori della musica, accettando i limiti del proprio mondo e le sue leggi) come annuncio e simbolo della più vasta ricerca di identità della coscienza contemporanea non conduce necessariamente al pessimismo, alla morte dell’arte, a negare la possibilità di una conciliazione finale nella meta di una ricostituita totalità, certo essa conduce alla solitudine, all’isolamento soggettivo e nella storia persino fra gli stessi compagni di strada.
Per questo l’isolamento di Busoni ci appare così emblematico e definitivo, la vera ragione del suo essere ancora oggi come compositore uno sconosciuto. Ecco, infine, spiegata l’inattualità di Busoni, che volle cercare di «chiudere il cerchio», a differenza di Mahler che lottò strenuamente per tenerlo ben aperto come estrema confessione che il corso del mondo non dipendeva più dall’individuo, per cui quella lotta e quella confessione noi riconosciamo oggi drammaticamente più nostra e attuale.
Accanto all’isolamento, la solitudine di Busoni, che si ritrova in ogni momento della sua vita (la solitudine del pianista, del viaggiatore, dell’insegnante, l’incomprensione per il compositore e per il teorico), e ad ogni stadio della sua attività : nei suoi progetti (Faust muore solo, abbandonato dall’uomo, da Dio e dal diavolo), nei suoi lavori (l’amarezza ancora ironica di stampo hoffmanniano che fa da sfondo alla Brautwahl diventerà pietosa disumanità nel sarcasmo di Arlecchino), nei personaggi e nelle situazioni delle sue opere (Calaf non è meno solo di Turandot o delle maschere di Turandot) ; e, ancora, l’espressione del senso della solitudine, ottenuta con uno stile e un linguaggio musicali concentrati al massimo nelle loro peculiarità.
Solitudine, infine, in tutto il Doktor Faust, con cui la coscienza contemporanea dell’uomo e dell’arte entra all’interno della struttura, fatta di leggi proprie, del mondo dell’opera. Dallapiccola ne ha ravvisato i connotati emblematici nell’ultima scena, il punto culminante, teatralmente e musicalmente e «data» nella storia del teatro musicale, in quanto per la prima volta il dubbio si insinua sul teatro d’opera (7):
Ben altra la situazione del Doktor Faust di Busoni.
Solitudine anche qui, alla base di tutto (e non è certo il famulus Wagner – più tardi Rector Magnificus — che possa essere all’altezza di un colloquio con lui!): la stessa evocazione delle forze degli Inferi altro non è che un tentativo di comunicare con qualcuno, visto che con gli esseri umani aveva cessato di comunicare.
La partita si risolve in perdita: ciò che Faust si era proposto non è stato realizzato. Non rimane, dunque, altro che la morte. Dopo l’ultima apparizione degli studenti di Cracovia, ecco il protagonista lieto di morire.
Vorbei, endlich vorbei! Frei liegt der Weg, willkommen, Du meines Abends letzter Gang! (Finita, finalmente finita! La via è libera, benvenuta tu, ultima tappa della mia sera!).
Faust ci lascerà un testamento spirituale; altri continueranno la sua opera. Tutto deve continuare. Il Doktor Faust non conclude. Prova ne sia l’interrogativo di Mefistofele-Guardia Notturna che chiude l’opera:
Solite dieser Mann verungliickt sein?
Se pensiamo che stia parlando la Guardia Notturna, la domanda potrebbe semplicemente alludere a un infortunio di cui l’uomo, che giace sulla strada, sarebbe stato vittima; se immaginiamo che parli Mefistofele, sentiremo affiorare in quel “”verungliickt”” l’idea della perdizione: il demonio si domanda se quell’uomo possa essere dannato.
Nessuna certezza, più.
Il dubbio è entrato nel Teatro d’Opera.
Che dunque solitudine e dubbio siano i parametri ultimi del-l’identità, l’ultima inafferrabile «parola»?
Thomas Mann, molto tempo dopo, avrebbe racchiuso nella figura ideale di Adrian Leverkühn, in un romanzo che significativamente reca il titolo di Doktor Faustus, le conseguenze tratte da una risposta affermativa a questa domanda ; di Adrian e delle sue opere, immaginate dalla fantasia di Mann-Adorno come espressione paradigmatica della catastrofe vissuta nel nostro secolo dalla civiltà e dalla musica in particolare, Busoni e il Doktor Faust non sono altro che lontani progenitori, solo una spia dell’addensarsi di quei rivolgimenti immani. Perché, a differenza di Adrian, Busoni non visse l’orrore dell’avvicinarsi implacabile della sterilità, dell’impossibilità di creare, con la conseguente disperazione, ma riuscì ad essere ancora lui a dettare le leggi del suo mondo : semplicemente, volendo salire alla sommità dei cieli, finì per ritrovarsi sull’orlo dell’abisso infernale. Al di là delle sue aspirazioni e delle sue speranze, al di là delle sue stesse folgoranti aperture e dell’eredità ricchissima lasciata ai posteri, ci rimane la testimonianza delle opere, la realtà della sua musica con cui cominciare a fare i conti per quello che è e significa : essa è la vera parte eterna di Busoni.
Firenze-Bolzano, aprile 1978
NOTE
(1) La decisione di dare un compimento all’opera, dovuta principalmente ad esigenze legate alle necessità per rappresentarla sulle scene, portò al completamento di Philipp Jarnach, che era stato allievo e poi collaboratore di Busoni. Con il Finale scritto da Jarnach l’opera fu rappresentata per la prima volta a Dresda il 21 maggio 1925, sotto la direzione di Fritz Busch.
(2) Ne fa fede la storia della composizione dell’opera. Iniziata infatti nel 1930 (ma il testo, scritto di proprio pugno da Schoenberg stesso, risaliva a quattro anni prima), già nel 1932 vedeva sia il primo sia il secondo atto compiuti. Schoenberg revisionò tutto questo suo lavoro a più riprese fino al 1945, ritoccando più volte anche il testo del terzo atto, che però non fu mai musicato. Schoenberg, come è noto, morì a Los Angeles il 13 luglio 1951.
(3) F. BUSONI, Valore della trascrizione, in Lo sguardo lieto, a cura di Fedele D’Amico, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 220.
(4) Ivi, p. 219.
(5) F. BUSONI, Abbozzo di una nuova estetica della musica, in Lo sguardo lieto cit., p. 61.
(6) F. BUSONI, Abbozzo…cit., p. 49.
(7) L. DALLAPICCOLA, Appunti sull’opera contemporanea, in Appunti Incontri Meditazioni, Suvini Zerboni, Milano 1970, p. 63.
XXX Concorso pianistico internazionale Concours international de piano “F. Busoni”, Bolzano – Bozen 1978