Tenuti in serbo negli archivi del Teatro Comunale di Firenze per sette anni, in attesa che il rinnovato impegno di Roberto Gabbiani e del suo coro offrisse l’occasione favorevole per la loro esecuzione, I cori dell’ora meridiana di Ugalberto de Angelis vengono presentati ora in prima assoluta in una circostanza tristemente dolorosa, come omaggio postumo alla memoria del compositore, prematuramente scomparso a soli cinquant’anni il 3 giugno scorso.
Nato a Milano nel 1932, de Angelis si era distinto a Firenze, dove dal 1943 viveva e lavorava, come una delle personalità più interessanti fra i musicisti della sua generazione. Forte di solide esperienze pratiche (diplomato in corno aveva suonato per breve tempo nell’Orchestra del Maggio), si era dedicato completamente alla composizione affascinato dall’insegnamento fantasioso ed entusiasmante di Roberto Lupi e da quello, più lucido e oggettivo, di Luigi Dallapiccola, di coloro cioè che erano stati i suoi maestri già in Conservatorio. Questi modelli influenzarono profondamente la sensibilità acutissima di de Angelis, non soltanto dal punto di vista della poetica musicale (l’idea della musica come del più spirituale e arcano mezzo di comunicazione espressiva la ereditò da Lupi, mentre da Dallapiccola apprese l’ascetica severità del comporre), ma anche nell’atteggiamento di inflessibile moralità nei confronti della condizione di musicista e creatore moderno: influenze che senza dubbio costituirono un monito al continuo perfezionamento, ma che rappresentarono anche una remora, una inclinazione perfino eccessiva all’autocritica e alla modestia. Si spiegano anche con queste radici le scelte di arte e di vita cui de Angelis si mantenne fedele nel corso della sua troppo breve esistenza. Come uomo, la sua misura, il suo, quanto sofferto, equilibrio, il suo vivere appartato, schivo, quasi isolato, ma sempre aperto e disponibile al colloquio, al nuovo; come artista, la sua strenua ricerca di un linguaggio personale e di una dimensione attivamente spirituale, al di fuori delle mode e delle consuetudini imperanti, e nello stesso tempo il suo tenersi continuamente al corrente di quanto accadesse nella musica contemporanea, il suo sentirsi, nonostante tutto, musicista contemporaneo, attuale. Modi di essere, questi, che paradossalmente rischiavano di tagliarlo fuori da quella ‘presenza’ che la qualità e l’individuabilità delle sue opere avrebbero dovuto senza dubbio garantirgli. Non è un caso, ad esempio, che ancora nel 1971, quando cioè de Angelis aveva già anni di carriera alle spalle, un critico non certo disinformato come D’Amico, imbattendosi a Siena nei suoi Tre canti per voce e sei strumenti, confessasse, arrossendo, d’aver ignorato fino ad allora il nome stesso di questo compositore; soltanto per lodare poi, con calorosa partecipazione, le molte bellezze dell’opera, le sue qualità compositive («abilità, garbo, controllo») e concludere infine che i Tre canti «valgono assai meglio che innumerevoli partiture di tanti suoi coetanei, le quali circolano senza ostacoli e di cui si parla e si scrive». Giudizio, questo, che si potrebbe estendere senza mutare una lettera a molte altre partiture di de Angelis.
Coevi per l’appunto dei Tre canti, I cori dell’ora meridiana per voci miste a cappella sono l’opera corale di più vasto assunto lasciataci da de Angelis. Composti nel 1968-69 e dedicati a Eva Símovà e al coro misto di Pavel Kúhn di Praga (che verosimilmente ne avrebbe dovuto curare la prima esecuzione, se i drammatici avvenimenti dell’invasione della Cecoslovacchia non lo avessero impedito; così che l’opera è rimasta ineseguita fino a oggi), essi traggono origine da due brevi testi poetici di Antonio Mazzoni, scrittore e saggista assai noto negli ambienti fiorentini: due poesie di crepuscolare, quasi impalpabile levità, nelle quali sembra aleggiare il vago ricordo di temi e immagini care al Pascoli e al Carducci. Il titolo è liberamente ispirato a un verso della prima lirica, Estate: «Intrepida l’ora meridiana scandisce i suoi rintocchi nell’infocato silenzio». Secondo una prassi ricorrente nell’opera di de Angelis, la composizione di questi Cori si riallaccia in modo visibile a due lavori precedenti: indirettamente a La terra nuda per voce recitante e strumenti (1965), dove già compare, come quarto e ultimo pezzo, la poesia Lascia, poi ripresa nei Cori dell’ora meridiana (là però essa appare recitata a mo’ di melologo, ovvero con commento strumentale di gusto squisitamente neoimpressionistico); immediatamente, invece, alle Sei Immagini per voce recitante, coro e orchestra (1966), dove la stessa poesia figura in una nuova versione per coro misto a cappella (per l’esattezza nella Quinta Immagine): versione che, senza modifica alcuna, è trasportata di peso nella seconda parte dei Cori.
Questo ricorso a opere precedentemente composte per riprenderne non soltanto lo spunto poetico ma anche la forma e il contenuto musicale, se da un lato testimonia l’ansia di perenne perfezionamento di de Angelis compositore, dall’altro lato è il frutto della rigorosa unità della sua poetica, mirante a stabilire un centro originario di natura autenticamente espressiva (per quanto talvolta semplice esso possa essere) e a ritornarvi di continuo, per meglio definirlo e renderlo qualcosa di assoluto. E in questo senso istruttivo quanto de Angelis annotava propria a proposito della partitura delle Sei Immagini: «Il lavoro è concepito come una sorta di Requiem nelle cui sei brevi pagine l’intima esperienza, lungi dal promuovere descrittivismi scontati, si trasforma in fatto puramente musicale, al di là di retorica o sentimentalismo. La drammatica fuggevolezza di queste esperienze, ha suggerito la stesura essenzializzata della partitura; il titolo ne deriva consequenzialmente, ad indicare quella arcana metamorfosi che si produce e si risolve, in immagini».
La ricerca di profonde suggestioni sonore, specchio di immagini e sentimenti quasi allo stato elementare (e dunque massimamente evidenti), l’estrema cura dei materiali timbrici, ridotti a eloquente essenzialità, sono anche alcuni dei tratti distintivi dei Cori dell’ora meridiana. Qui, anche per la rinuncia alla voce recitante – strumento nel quale de Angelis vedeva un mezzo di comunicazione immediata, di precisa definizione poetica, intorno al quale intessere il commento propriamente musicale con i suoi ‘affetti’ – il discorso si fa ‘tutto’ musicale, e quindi più denso, più elaborato, più costruito. Formalmente, la composizione è concepita come un tutto unico, un unico, vasto monoblocco senza cesure esterne (infatti il primo testo – Estate – si unisce al secondo – Lascia – per incastro, insensibilmente). Il trattamento corale, non immemore dall’insegnamento di Dallapiccola, da quell’insegnamento si distacca sensibilmente per approdare a un tipo di linguaggio frammentato, ma non frammentario, segmentato, ma non privo di disegno, nel quale sono impiegati liberamente gli effetti vocali (e gestuali) più disparati, più originali, più ‘moderni’: la voce essendo ora un semplice strumento sonoro, ora un veicolo di messaggi, un’identità (e va da sé che fra questi due estremi le sfumature sono infinite, sovente ambigue).
Nella prima parte, l’elaborazione musicale procede in bruciante accelerazione, alternando effetti di sfondo strumentale – vocalizzati o sillabati – a cellule melodiche in continua espansione, secondo quella fede nell’intervallo – simbolo dell’espressione – che de Angelis nutriva con particolare tenacia. Si noti come l’andamento omofonico, spesso basato sul gioco `domanda e risposta’, tenda a farsi predominante, quasi a figurare una lontana tecnica a episodi di ascendenza mottettistica, senza però affermarsi mai in modo univoco (c’è una certa inquietudine, sempre, nella musica di de Angelis). Segue una seconda parte (dalle parole “”Giace riverso””) nella quale l’autore prescrive al coro di «disporsi il più velocemente possibile in posizione di Doppio coro» e di «eseguire in voce ‘glissando’ o con ‘suono fisso’, secondo l’indicazione grafica rappresentata dalla linea, come parlato canto urlato; nella ‘altezza’ approssimativamente indicata dalla linea stessa, e nel ritmo segnato». L’effetto espressivo che ne risulta è, intenzionalmente, di scoperta immediatezza drammatica, forse al limite dell’ingenuità (curioso che passi come questi appaiano oggi più datati e invecchiati di un robusto, ben congegnato canone alla maniera fiamminga, se si rimane nell’ambito degli artifici di scrittura). Con l’inizio dell’ultima parte – Lascia – si fa ritorno al canto, divenuto ora più statico e assorto. De Angelis si serve qui di un tipo di scrittura che potremmo chiamare diagonale, nella quale cioè la melodia circola da una voce all’altra seguendo un cammino unitario, ma non orizzontale né di genere imitativo. Le indicazioni espressive (dapprima ‘con incalzante e disuguale inquietudine’, poi ‘con slancio unanime e gioioso’) sono evidentemente la guida di un itinerario simbolico, reso però con purezza nella disposizione lata, prima come disgregata, poi di nuovo concentrata, delle parti corali, usate in senso quasi solistico: ed è un itinerario che si spegne in un indistinto brulichio di sillabe e parole intonate e parlate, sobriamente distillato su un sentimento di fondo fattosi nuovamente inquieto e velato.
Per quanto se ne possa giudicare da una lettura della partitura non confortata dalla realizzazione sonora, I cori dell’ora meridiana appaiono un’opera di forte impegno costruttivo e di ben rilevata varietà espressiva, del tutto rappresentativa della personalità – artistica e umana – di de Angelis. In chi abbia maggior dimestichezza con altri suoi lavori, in chi lo conobbe e apprezzò di persona, essa tornerà ad acuire il rimpianto per un musicista che ancora tanto avrebbe potuto darci, ma che già merita molto per qualche ci ha lasciato.
(Dal programma di sala per il concerto del 16 novembre 1982 al Teatro Comunale di Firenze; Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Roberto Gabbiani)