Grétry viene considerato, accanto a Philidor e Monsigny, il maggior rappresentante dell’opera-comique nella seconda metà del Settecento. Questo genere teatrale tipicamente francese si differenzia dall’opera propriamente detta (che è interamente cantata) per la presenza di parti recitate in prosa al posto dei recitativi e accanto alle parti cantate: come accade anche nel contemporaneo Singspiel tedesco. L’aggettivo comique non indica necessariamente che l’argomento sia comico o satirico (anche se all’inizio questi attributi caratteristici del teatro popolare recitato e cantato prevalevano. prendendo sovente la forma della parodia), e va inteso piuttosto nell’accezione più generale di teatrale: proprio nel senso di un teatro leggero e brillante, dall’azione vivace e spigliata, lontano dallo stile elevato dell’opera seria, e di quella eroica e mitologica in particolare.
La svolta decisiva nella storia dell’opéra-comique si ebbe dopo la metà del secolo, quando la musica si emancipò da una funzione meramente sussidiaria rispetto al testo e raggiunse un rango autonomo, determinante per la fortuna del genere. Fino ad allora, infatti, l’intervento della musica era limitato ad inserti brevi e non originali: per lo più basandosi su rielaborazioni di melodie popolari (i vaudevilles) o di pezzi di successo dell’opera tradizionale, che veniva così declassata a dar spettacolo di sé in cornici meno nobili: con fini chiaramente caricaturali e parodistici. Ma in tutti questi casi di spettacolo misto con musica ciò che contava era in primo luogo l’azione recitata, e gli attori rimanevano tali anche quando si improvvisavano, a tratti, cantanti.
Con l’aumento delle parti cantate – un fatto non solo quantitativo bensì qualitativo, dato che a prodursi erano chiamati ora compositori di vaglia, capaci di incidere con pezzi originali sul rapporto tra musica e dramma -, l’opéra-comique divenne sempre più un genere musicale; e abbandonò gli argomenti tradizionali del teatro comico e parodistico per sostituirli con soggetti romanzeschi, d’invenzione o a sfondo storico, trattati con sensibilità nuova e nello stile del “mezzo carattere”: ossia con l’intreccio di elementi della commedia idillico-amorosa e del dramma borghese intessuto di motivi morali. Ciò finì per conferire all’opéra-comique un tono serio, perfino drammatico, che avrebbe trovato piena espressione nel teatro musicale dell’età della rivoluzione.
Non si deve pensare che questo processo di trasformazione avvenisse contro la volontà degli autori drammatici, retrocessi al ruolo di semplici librettisti. Anzi. Se l’opera-comique trovò il suo equilibrio tra parti dialogate e parti cantate (senza contare la potenziale adattabilità ai tini del dramma dei brani puramente strumentali, come marce, danze e pantomime, appositamente inseriti nell’azione), ciò dipese in larga misura dall’abilità dei creatori delle pièces: a cominciare da quel Charles-Simon Favart ( 1710-92) nella cui produzione si possono seguire tutte le fasi dell’evoluzione dell’opera-comique, da farsa, parodia e caricatura, a genere teatrale con una propria tipologia drammatico-musicale, e una nuova ambientazione scenica. Su questa linea si mosse anche Michel-Jean Sedaine (1719-97), che alimentò tanto il filone del dramma storico di forte contenuto ideale quanto quello del dramma borghese di carattere intimista, con personaggi reali, presi dalla vita quotidiana o accostati bizzarramente senza preclusioni di classe (signori, borghesi e contadini riuniti insieme. fuori del tempo e spesso per un fine comune).
Fu Sedaine a stabilire il modello riconosciuto dell’opera-comique quale genere teatrale con musica (meglio sarebbe dire: genere musicale nell’ambito del teatro, essendo ormai preponderante la componente musicale rispetto alle parti parlate): trovando nella collaborazione con Grétry non soltanto la più fruttuosa corrispondenza alle sue intenzioni ma anche l’occasione per sperimentare qualche variante inedita. Dei dieci libretti da lui scritti per Gretry, almeno tre meritano di essere considerati capolavori nel loro genere, non foss’altro per l’abilità dell’intreccio e la classica eleganza della lingua: Raoul Barbe-Bleue ( 1759), Guillaume Tell (1791) e appunto Richard Coeur de Lion, che tutti li precede.
Quando Richard Coeur de Lion andò in scena per la prima volta a Parigi, il 21 ottobre 1754 (esattamente due mesi dopo che Beaumarchais aveva acceso la capitale con Le Mariage de Figaro, a Mozart predestinato). Grétry era un compositore di successo, nel pieno della maturità. Sebbene non avesse disdegnato anche altre tradizioni (dalla comedie-lyrique all’opera-ballet ), il genere comique era diventato la sua specialità: al punto da essere quasi identificato con esso. E non a torto. Per eccellere in questo campo, fattosi sempre più spinoso dopo le polemiche sulla natura della vocalità innescate dagli enciclopedisti, e da Diderot in particolare, Grétry possedeva un requisito fondamentale: l’equilibrio innato fra sensibilità squisitamente lirica nel dare espressione al canto nelle sue molteplici sfumature e senso vigorosamente drammatico nell’orientare e far muovere il meccanismo dell’azione teatrale. Ciò lo rendeva capace di ampliare lo stile della tradizione comique sia nei grandi pezzi chiusi delle arie, toccando anche la corda del patetico. sia nei momenti drammaturgicamente culminanti dei pezzi d’insieme: dove la tensione, dopo essersi accumulata, si scioglie e scompare per lasciare posto a una calma radiosa. Ma è soprattutto nei grandi intermedi fra questi due estremi (ne sono esempi nella nostra opera la canzonetta del primo atto, e poi l’aria con variazioni suonata sul violino da cui scaturisce l’effervescente Finale, con l’irresistibile chanson a boire), che Grétry si mostra un maestro nel combinare, isolatamente o insieme, i diversi elementi del repertorio comique: senza perdere di vista l’unità del quadro generale e la sua necessaria leggerezza d’impianto, ma personalizzando ogni tratto e quasi ogni sfumatura di colore con tocchi delicati e distintivi, di suprema raffinatezza ed eleganza.
In Richard Coeur de Lion si trovano riuniti – si dovrebbe quasi dire: emblematicamente – tutti gli ingredienti che danno vita al mondo variopinto e composito dell’opéra-comique all’apice del suo splendore. E si tratta spesso di ingredienti apparentemente eterogenei, di difficile classificazione secondo l’estetica operistica tradizionale. L’ambientazione è realistica, di natura rustica ( fin dalla prima didascalia che descrive il luogo dell’azione, con il coro dei contadini nell’Introduzione che si prepara a nozze un po’ comiche: come sarà più piena e significativa la festa di nozze alla fine!): ma lo sfondo è storico, sia pure con qualche licenza fantastica (il Medioevo delle Crociate, e in particolare di quella legata al nome leggendario di Riccardo Cuor di Leone, eroe puro e generoso: il quale fu realmente imprigionato mentre rientrava in patria, ma non certo liberato nel modo fantasioso che qui si rappresenta). Anche i personaggi appartengono a tre diverse condizioni o stati sociali: i nobili (Riccardo re d’Inghilterra e Margherita contessa di Fiandra e d’Artois, amanti che si sono perduti e che ora fortunosamente si ritrovano): i borghesi (Sir Williams, nobile decaduto con tutti i tratti caratteristici del borghese e che come tale viene raffigurato, con evidenti sottolineature comiche: nonchè sua figlia Lauretta, che spasima per un governatore in incognito e che ha l’aria tutt’altro che innocentina: ragazza sveglia e appassionata in attesa di sistemazione borghese in un’opera o commedia prossima ventura): i contadini (ben rappresentati, nel tono dell’idillio, da Antonio e Colette, emergenti dal coro), i servi e i soldati.
Restano fuori da questa classificazione Blondel, l’amico del re, e Florestano, il governatore della fortezza: non a caso. Blondel che è il vero protagonista dell’opera nonostante il titolo, è un trovatore, e come tale vive in una condizione a sé: eminentemente poetica, se non irreale (egli si finge cieco per attuare il suo piano: ma solo fingendosi ciò che non è riesce nell’intento di preparare la liberazione del suo re beneamato, da cui è invece riconosciuto proprio in quanto cantore, cioè poeta). Quanto a Florestano, egli è una figura enigmatica, la più misteriosa dell’opera: nella quale si concentra un duplice intreccio, politico e amoroso. Il nome anticipa sorprendentemente (né è questo l’unico richiamo) quello dell’omonimo personaggio del Fidelio di Beethoven (ma a parti invertite: qui il carceriere, là il prigioniero). Chi in realtà egli sia, per chi lavori, non ci vien detto (la storia lo vorrebbe al servizio di Enrico VI. ma non ne abbiamo la conferma). Dal rapido, frammentario dialogo con Riccardo all’ inizio del secondo atto apprendiamo che Florestano è legato da una promessa d’onore che probabilmente gli è stata estorta con l’inganno: intanto si è invaghito della bella Lauretta e non teme di esporsi al ridicolo accorrendo al ballo della compagnia per incontrarla. Smascherato, anzichè essere punito viene premiato con la mano di Lauretta, che gli viene accordata in un clima di esultanza generale: segno che le sue colpe non erano poi così gravi. Drammaturgicamente, questo scioglimento sembra innaturale. Ma proprio questo è il bello specifico dell’opéra-comique che il lieto fine trionfi da ultimo senza lasciare residui, e che la finzione teatrale sia dichiarata senza pompa per divenire un giuoco scoperto dell’intelligenza e dello spirito, per chi lo sappia intendere e godere.
Naturalmente, non senza aver prima messo i puntini sulle i. E aver affermato con chiarezza, magari con una venatura di disincanto, valori certi. Lauretta sposerà Florestano e smetterà di vederlo di nascosto la notte, e di “ascoltare troppo tutto quel che dice”: regolarizzata la situazione, forse si stancherà presto di lui, come capita. Ma intanto Sir Williams riavrà le sue terre in Inghilterra, benché sia diventato irrimediabilmente un borghese piccolo piccolo. Re Riccardo e Margherita, già promessa a un ritiro eterno, si riuniscono ed esultano nell’amore: ma troveranno certamente un’altra occasione per separarsi e sospirare, sul filo dei ricordi e delle canzoni del bel tempo che fu, l’ennesima riunificazione: come farebbe altrimenti il prode sovrano a trovare l’ispirazione per concepire nella sua solitudine e nell’abbandono del dolore un’altra aria che possa stare accanto a “Si l’univers entier m’oublie” (atto II), vero gioiello dell’opera, a cui Gretry fu debitore di una parte cospicua della sua fama? Resta, è vero, Blondel: il suddito fedele che in forza dell’amicizia e della costanza rende possibile, alla fine, la felicità di un bellissimo giorno. Ma, già lo si è detto, Blondel è un poeta, un trovatore che interpreta la realtà con le immagini trasfigurate del sogno: compiuta l’opera, non gli rimarrà altro che accomiatarsi: senza dubbio non prima di aver ripetuto, con un coro ampliato e ancora più ebbro di gioia illusoria, la sua aria sul violino e la sua prorompente chanson a boire: per andare poi alla ricerca di un nuovo castello e di nuovi contadini da spingere all’insurrezione, naturalmente per ottimi fini. Liberté e fraternité, se non égalité: ideali inquieti.
Nel Riccardo Cuor di Leone tutti questi motivi (chiamarli temi sarebbe già troppo) sono trattati con leggerezza e discrezione incantevoli: quasi più accennati che svolti. Merito di Sedaine, che confezionò la trama con scaltrezza e varietà, fondendo spunti diversi in un sapiente intreccio (di epoche, di tipi e di situazioni: l’amore, la fedeltà, l’amicizia, il valore, la generosità premiata alla fine con il trionfo del bene e della giustizia); è merito soprattutto di Grétry, che seppe trovare il giusto mezzo per dare evidenza e misura ai diversi momenti dell’azione. Sia nei pezzi solistici, che aderendo alla parola si differenziano tra loro a seconda del rango e della fisionomia dei personaggi (sicché è la musica a dirci quali sentimenti e intenzioni li muovano, con calibrata scelta dello stile espressivo e vocale), sia nei pezzi d’insieme, che si susseguono con un crescendo via via determinato dall’infittirsi della trama (dal duetto al terzetto al quartetto fino agli insiemi con coro). la musica orienta e definisce il procedere dell’azione, conferendo ad essa una continuità in senso drammatico: e alla stessa funzione assolvono anche i brani strumentali intercalati alle parti recitate o cantate, come le danze, le marce, la ronda dei soldati e quella esilarante dei contadini, fino al “”combattimento”” che precede il finale dell’opera e compie la liberazione del re prigioniero (e qui l’opéra-comique già tende la mano alla cosiddetta opéra de sauvetage dell’età della rivoluzione). In altri termini, i numeri musicali non sono inserti che sospendono o raffreddano l’azione per dare spazio a episodi esornativi racchiusi in se stessi, bensì elementi caratterizzanti del dramma. in senso dinamico e costruttivo. Questa maggiore continuità dell’arco drammatico, ottenuta per mezzo della musica, senza tuttavia squilibrare gli schemi del genere, è uno dei tratti più rilevanti della trasformazione compitata da Grétry nell’ambito dell’opéra-comique del suo tempo.
Tutto ciò ci consente di osservare quanto ricca di potenziali sviluppi fosse la situazione del teatro musicale in trancia sul finire del Settecento: anche in un genere minore e tipicamente nazionale come l’opéra-comique. Ad esso Grétry seppe infondere nuova vita mutando la strategia, ma non le regole del gioco, che rimanevano trasparenti e universalmente valide, sol che le si riconoscesse ed accettasse. Inutile cercare qui riflessi della riforma di Gluck, o anticipazioni della geniale fusione dei generi di lì a poco realizzata da Mozart. Pretendendo troppo, si rischierebbe di precludersi l’entrata a una festa del teatro estrosa e sanamente distensiva, fatta di ammiccamenti e di finezze più che di sensazioni forti. A questi schietti divertimenti dello spirito siamo ormai disabituati; e invece c’è una verità profonda anche nel refrain che candidamente dice: “”E zic e zic e zoc, e fric e fric e froc, quando i bovi vanno a due a due, l’aratura riesce meglio”. Soprattutto quando ad accompagnarlo è una musica che mette le ali, e dà il buonumore.
Elegia per un mondo perduto, ecco cos’è per noi oggi Grétry e il suo Richard Coeur de Lion.
Fabio Neri / Orchestra dei giovani del Conservatorio “”Claudio Monteverdi”” di Bolzano, Coro Lirico “”Grétry “” di Bolzano
Bolzano Estate, Laboratorio lirico, omaggio dei giovani musicisti di Bolzano ai giovani musicisti della European Community Youth Orchestra