Autore di una produzione sterminata nei più diversi generi, Ernst Krenek ha attraversato le vicende della musica del Novecento con passo sicuro, forte di una solida consapevolezza e di una preparazione artigianale. Era musicista ferreamente addestrato, cresciuto a contatto con alcune delle maggiori personalità della sua epoca (da Schreker a Scherchen a Paul Bekker), curioso delle novità e aperto alle sperimentazioni. Dalla città in cui era nato, Vienna all’alba del secolo, al crepuscolo dell’impero, aveva ereditato un certo scetticismo pragmatico; unito però alla incapacità, forse costitutiva, sicuramente coltivata con diligenza, di vedere nell’arte, nella musica, un esercizio di segno negativo, una testimonianza dell’inadeguatezza e della vana impotenza. Per Krenek la composizione rimaneva comunque espressione di una comunicazione, creazione di forme concrete, ben costruite e architettate, dotate di specifica significanza: e come tali offerte al consumo e al giudizio del pubblico, senza calcare troppo la mano su intenzioni ideologiche precostituite. Le quali, semmai, dovevano essere tutte innestate e assorbite nell’o-pera, e dunque rese oggetto di riflessione artistica e di interpretazione critica.
Per musicisti del suo stampo è stata coniata un’etichetta: eclettici. La stessa che è stata attribuita a Stravinsky e Hindemith in contrapposizione al lucido “”progressismo”” di Schönberg e della sua scuola. Parve per un certo tempo che il metro di giudizio da usare nella valutazione della musica del Novecento dovesse essere quello del radicalismo linguistico, della totale rifondazione dei mezzi di espressione, magari specchio di una lacerante crisi morale ed esistenziale; soprattutto però dichiarato sotto forma di “”impegno”” esclusivo ed esemplare. Questo mito interpretativo ha cominciato a scricchiolare quando ci si è resi conto scientificamente che il principio dell’evoluzione dialettica non conduce nella creazione artistica a mete univoche: che, insomma, non è oggettivamente una categoria di giudizio assoluto. Parte da questo aggiustamento di prospettiva la riconsiderazione di quei musicisti che erano stati relegati in seconda fila proprio in nome del loro eclettismo, vero o presunto che fosse: musicisti fra i quali anche Krenek rientra a pieno titolo.
E’ tuttavia possibile individuare alcune fasi distinte nella produzione di Krenek. Negli Anni Venti il compositore appare influenzato dal neoclassicismo (forse ancor più dal concetto di “”giovane classicità”” di Busoni, che gli fu maestro a Berlino) e dalla atonalità, vista come mezzo utile ad allargare i nessi del sistema compositivo rendendolo più duttile e aderente alle esigenze espressive. Appartengono a questo periodo le prime opere strumentali, nelle quali coabitano un temperamento appassionato e una autoimposta disciplina formale, e le prime opere teatrali, caratterizzate da un talento spiccato per la scena e da un piacere sottilissimo della novità, in sintonia culturale con le proposte dell’avanguardia e della sperimentazione di quegli anni in Germania. Opera-chiave di questo periodo è Jonny spielt auf.
Nella seconda fase, a partire dal 1930, Krenek si vota sempre più sistematicamente al metodo dodecafonico, forse suggestionato dall’incontro con Berg e Webern dopo il ritorno a Vienna. L’immediatezza e la sbrigliata curiosità della prima fase tendono a cedere a un’accentuata logica organizzatrice, da sempre peraltro presente nella sua indole, quasi contrappeso del fondo lirico-romantico verso cui lo attirava il suo istinto. Inclinando ora verso l’uno, ora verso l’altro dei due poli, Krenek amplia considerevolmente il raggio delle proprie esperienze: il sodalizio con Karl Kraus, di cui mette in musica alcune liriche, incide sull’approfondimento della tecnica seriale e su un più mediato rapporto tra poesia e musica. Dopo il trasferimento in America, Krenek svilupperà queste tendenze verso altre direzioni, appassionandosi alla musica elettronica e alle ricerche della nuova musica; accentuando però nel contempo un atteggiamento di ironia e di distacco nei confronti delle mode più recenti della post-avanguardia: il suo tempo rimane quello della grande musica europea fra le due guerre, delle battaglie della giovinezza e delle conquiste della maturità.
Non per eclettismo, bensì per intima necessità, Krenek si è rifatto nel corso della sua carriera alle diverse esperienze della musica contemporanea, usandole nei campi di propria pertinenza e subordinandole all’esigenza di una interpretazione personale. A guidarlo in questo percorso, spesso accidentato e labirintico, è il fondamentale ottimismo circa le funzioni spirituali della musica, la vitalità di una concezione dell’arte intesa come mezzo espressivo, come lavoro tecnico-compositivo, come invenzione che esiste solo nella misura in cui viene realizzata e determinata; qualcosa di utile per sé e per gli altri, ma da usare praticamente, non da ammirare su un piedistallo. Di questa propensione alla concretezza, di carattere sensibile e artigianale, è specchio l’ampia produzione, che affronta tutti i generi della musica per lasciarvi una testimonianza non vana e chiusa in se stessa: vigilando con occhio critico e intransigente sulle ansie e le aspirazioni di un secolo inquieto e irto di problematicismi, ma per mettere in luce, di quelle tensioni, l’aspetto positivo.
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Documento di questa felice apertura espressiva, che non si nega alla curiosità di esperienze disparate ma cerca continuamente di armonizzarle in forme concrete, è l’opera Jonny spielt auf: quella che dette a Krenek una celebrità non effimera e, con il successo, una discreta indipendenza economica, onde egli poté decidere di dedicarsi per il futuro esclusivamente alla composizione. L’aspetto di maggior novità dell’opera, quello che più colpì al suo apparire a Lipsia nel 1927, è senza dubbio costituito dall’inserimento nel contesto musicale di elementi jazzistici, i quali conferiscono a tutto il lavoro un senso di attualità che, all’epoca in cui l’opera venne composta (1925-26), parve addirittura esplosivo. Non che mancassero precedenti o esempi rivolti nella medesima direzione. A tacere delle prime esperienze sinfoniche di Gershwin (ma l’opera Porgy and Bess era ancora di là da venire) e delle spregiudicate commistioni di Weill (il Singspiel Mabagonny, primo frutto dell’incontro con Brecht, nacque anch’esso nel 1927), Ravel, Hindemith, Stravinsky si erano rifatti più o meno esplicitamente a moduli ritmici e timbrici propri del jazz in alcune delle loro composizioni, integrandoli così nel linguaggio della musica colta europea. In Jonny spielt auf questi elementi non emergono soltanto nelle parti espressamente ritagliate su forme jazzistiche (come songs, blues, tanghi, shimmy e naturalmente spirituals), ma si diramano un po’ dappertutto lungo la partitura, specie quando in orchestra agiscono nervose sincopi e angolosi ritmi di danza, per estendersi fino alla cornice che racchiude i personaggi e le vicende dell’opera.
Proprio in ragione di ciò è insufficiente definire Jonny spielt auf una semplice opera-jazz. L’inserzione del jazz è motivata dalla presenza del personaggio di Jonny, il fantasioso suonatore negro assoldato a Parigi per intrattenere gli ospiti di un grande albergo internazionale e che ruba il violino di un grande concertista per suonarci i blues; ciò comporta di per sé, anzitutto, l’intervento dell’orchestrina jazz nel quadro di Parigi e in quello ad esso speculare del grande albergo alle pendici del ghiacciaio, prima della fuga finale. Krenek non si limita però a farne uso in queste scene di ambiente, e sviluppa compositivamente gli elementi jazzistici intrecciandoli con quelli di un linguaggio più tradizionale, sia pur decisamente spinto verso soluzioni di ardita modernità, avanzate sotto ogni profilo. L’innesto fra i due mondi sonori ha una valenza drammaturgica precisa e diviene anzi il mezzo di individuazione psicologica e di definizione dei caratteri stessi dell’opera, fino al definitivo scioglimento dell’intreccio.
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Il mondo “”negro”” di Jonny con quello subalterno della cameriera Yvonne, aspro e violento ma anche spontaneo e vitale, è in netto contrasto con il sofisticato mondo “”europeo”” di Anita, Max e Daniello, artisti rosi dal tarlo della decadenza e soffocati nei sentimenti da una vuota rispettabilità borghese. Non è certo senza significato che Krenek, quale autore anche del libretto, ne abbia fatto tre musicisti, ricchi apparentemente di gloria e di successo ma intimamente tormentati e infelice. Se a Daniello basta il furto del magico strumento cui è legata la sua fama di concertista per aprire abissi di ira e di disperazione (l’allusione al falso mito del virtuoso è palese, e graffiante), assai più complessa risulta la psicologia di Max e Anita. E’ probabile che, nel compositore Max, Krenek abbia riversato, ironicamente magari, le proprie ansie di artista: i suoi propositi di suicidio, all’inizio dell’opera, denunciano non soltanto una situazione esistenziale precaria ma anche l’incapacità di dare un senso alla propria arte. L’amore per Anita, la cantante che porterà al successo la sua nuova opera, sembra aprire uno spiraglio di luce e di gioia nella desolazione di un mondo che evidentemente neppure l’arte, di per se stessa, è in grado di riscaldare. Tanto più atroce sarà l’inganno quando Max apprenderà che Anita lo ha tradito con Daniello nel breve tempo della loro separazione.
Anche Anita presenta una psicologia complessa, più accennata però che approfondita. Frivola e capricciosa, come si immagina che debba essere una cantante, si concede a Daniello per vanità; o forse per provare a se stessa che l’amore verso Max è sincero e profondo. Di fatto è su questo tradimento che si concentra la peripezia del dramma, reso ancor più incalzante dalla trovata del furto del violino, che Anita porta con sé senza saperlo (in altri termini, donando a Daniello il proprio corpo gli ha tolto l’anima: furto di cui paradossalmente sarà accusato l’incolpevole Max). Anche il furto del violino, di cui è in realtà responsabile Jonny, ha un significato preciso. Jonny aspira a possederlo per affermare attraverso di esso il valore della propria musica e della propria razza, togliendolo di mano a chi ne fa un uso consumistico e strumentalizzato, puramente edonistico: un bel divertimento per pochi privilegiati. La metafora è evidente, e trova perfetta espressione nella liberatoria danza finale, guidata appunto dal violino suonato da Jonny. Jonny suona per tutti e guida la danza (questi due significati sono racchiusi nel titolo dell’opera, Jonny spielt auf) annunciando la partenza per l’America, un viaggio al quale si uniranno anche Max e Anita, finalmente riuniti e convinti di iniziare una nuova vita, più serena e impegnata, via dal vecchio mondo delle loro angoscie e paure. Il messaggio che Krenek sembra voler affidare a questo finale è conciliante ma non equivoco: soltanto laggiù, nel Nuovo Mondo (che è anche un mondo nuovo della musica e della sua funzione sociale) tutti riacquisteranno la felicità, chi ricongiungendosi alla propria terra, chi scoprendone possibili radici creative e simboli ancora latenti. Per ciò Jonny porterà con sé il violino, dopo esserne diventato l’unico legittimo proprietario: simbolo di un’eredità ormai destinata a fruttare in terreni vergini; lontano cioè dall’Europa, lanciata verso destini sconosciuti, ma carica di esperienze e di ricordi ancora vivi e presenti.
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Più che semplice opera-jazz, Jonny spielt auf è un tipico prodotto del teatro d’avanguardia tedesco fiorito negli Anni Venti, a mezza strada fra Espressionismo e Nuova Oggettività. L’ambientazione dell’opera in un’epoca attuale consente di calare la vicenda nella vita frenetica della civiltà moderna, della grande metropoli con i suoi luoghi di ritrovo e di divertimento; e già nella serrata disposizione delle scene (l’opera è in due parti, ma si articola in una ininterrotta continuità) agisce un ritmo incalzante e quasi ansioso, che la musica rispecchia e amplifica. Fanno da contrappeso a questo realismo oggettivo, nervosamente inquieto, le due scene alle pendici del ghiacciaio, nelle quali avvengono gli incontri risolutivi fra Max e Anita. Il simbolo della purezza incontaminata della natura funge da deterrente nei confronti dei propositi suicidi di Max assai più dell’arrivo liberatorio della donna: quando Max ritorna nel luogo del primo incontro con lei per cercare la pace e la morte, le voci invisibili del ghiacciaio lo consolano e lo dissuadono, per materializzarsi poi, con poeticissimo trapasso, nel canto di Anita. Al mondo disarmonico e opprimente della civiltà alienata – e Krenek sembra negare che in quel mondo l’arte possa esercitare la sua intrinseca missione – si contrappone la verità del sentimento della natura, nella cui solitudine l’uomo ritrova se stesso e la forza di dare un senso all’esistenza, per sé e per gli altri, riscoprendone il valore.
Qualcosa di analogo, nel carattere musicale dell’opera, è rappresentato dalla contrapposizione fra il linguaggio moderno di matrice espressionistica e quello elementare, obiettivo, di stampo jazzistico. L’elaborazione compositiva del primo si estende dalla libera atonalità alla politonalità più complessa e stratificata, eretta contrappuntisticamente con saldo senso costruttivo. La tendenza a far emergere come una guida l’arco melodico principale, tanto nel canto quanto nella raffinata strumentazione, risponde a criteri di manifesta chiarezza; ma anche nei momenti di più aperta cantabilità sembra aspirare a qualcosa di irraggiungibile, a una pienezza espressiva di problematica definizione. Le metamorfosi della canzone di Anita nella scena culminante dell’opera sono quasi il simbolo di una ricerca volta a dare alla musica un valore di comunicazione assoluta, completa: come se Krenek si interrogasse, ben oltre lo specifico contesto drammatico di quel momento, sul significato stesso dell’essenza della musica e sul modo di rappresentarla, trasfigurandola.
E qui interviene l’altro aspetto trattato nel linguaggio di Jonny spielt auf, quello di ispirazione jazzistica. Si è già detto che i moduli jazzistici sono motivati realisticamente dalle situazioni ambientali di certe scene, ma non rimangono estranei allo sviluppo compositivo dell’opera. La carica eversiva del jazz, l’incisività dei sui ritmi e delle sue soluzioni armoniche, dei suoi timbri, innervano il tessuto della partitura e agiscono come un poderoso ricostituente sulle fibre estenuate e sovraccariche dell’organismo musicale. Lo contagiano, senza distruggerlo; infondono anzi nuova, attiva linfa vitale. Giunto all’estremo limite di rottura, al confine dell’afasia e dell’impotenza, il linguaggio della modernità, con la sua tensione e il suo impegno, chiede aiuto a nuovi, elementari codici espressivi; e ne mutua al proprio interno i princìpi. La contrapposizione cessa così di essere tale, e diviene fusione, sintesi di dati oggettivi, individualmente riplasmati e ristrutturati, di diversa natura.
Resterebbe da definire la portata ideologica di un’operazione tanto complessa e sottile quanto risolta in termini di felice immediatezza espressiva. Il peso della critica sociale e della denuncia di un malessere artistico-esistenziale, se pur vi sono, non intacca infatti l’evidenza della riuscita globale. Spetta semmai alla regia, oggi, evidenziarli nel loro significato storico e attuale. Più opportuno è qui ribadire che l’intreccio e lo svolgimento della vicenda di Jonny spielt auf corrispondono esattamente alle scelte compiute ed elaborate sul piano musicale: la convergenza finale dei personaggi in un’unica decisione e in un unico destino è il risultato di un fertile connubio, aperto a nuovi sviluppi, tra il linguaggio della tradizione colta europea, di cui Krenek era esponente d’avanguardia, e quello di una forma espressiva nuova quale il jazz. Da questo punto di vista il gioioso concertato che chiude l’opera, l’allegra danza guidata da Jonny col “”suo”” violino, non annunciano soltanto la partenza per l’America ma sono anche l’invito ad aver fiducia nel futuro della vita, e della musica. Un chiaro segnale di ottimismo per chi abbia voglia di combattere. Per costoro, Jonny continua a suonare.
Heinrich Hollreiser / Coro da camera della “Wiener Akademie” e Orchestra “Volksoper” di Vienna
Teatro Massimo, anno artistico 1986-87, Ciclo di opere e balletti