Gustav Mahler – Sinfonia n. 5 in do diesis minore

G

Non è soltanto la collocazione numerica a fare della Quinta il perno centrale della produzione sinfonica di Mahler. Il suo equilibrio si presenta però instabile, scosso da una vertigine che a ogni passo (e tanto più quando si propone di avanzare) minaccia il crollo dalle fondamenta.

Neppure il principio del brusco cambiamento, che qui Mahler sembra elevare a legge formale primaria, appare in grado di reggere il peso di ciò che vi accade. Ma vi accade veramente qualcosa, o il senso della Sinfonia, dopo l’agghiacciante marcia funebre che l’apre (e che cos’è una marcia funebre se non già una conclusione) è solo quello di un disperato girare a vuoto, di un insensato rincorrere illusorie speranze e barriere di salvezza? Certo, c’è l’oasi lirica dell’Adagietto, momento di dolcissima intimità e di conforto; schiacciato però fra il tumultuoso Scherzo e l’ossessivo Rondò finale: troppo effimero, quasi fantomatico dopo tanta attesa e prima di tale ripresa. Neanche lì è possibile trovare un punto di appoggio al vorticoso, a tratti pesante ed estenuante ruotare della Sinfonia.

Sinfonia della svolta, ad apertura del periodo centrale della creatività di Mahler. Una cesura rispetto all’esperienza delle opere precedenti, le cosiddette Wunderhorn-Symphonien, che segna l’inizio della trilogia puramente strumentale completata dalla Sesta e dalla Settima. Spariscono le ispirazioni folkloristiche, i programmi poetici, gli elementi favolistici e infantili, la tematica liederistica, le voci. Al loro posto, in questo lavoro affidato alla sola orchestra, una nuova, granitica durezza sinfonica, trascinata da un’espansione formale che fa del continuo prolungamento della tensione quasi una ragion d’essere linguistica. L’orchestra è piena, con sei corni, quattro trombe e tre tromboni, una ricca percussione, e l’arpa per la magia timbrica dell’Adagietto; la durata ampia (70 minuti). Vi sono cinque tempi divisi in tre parti, e solamente dopo i primi due (vistosamente imparentati dal punto di vista tematico) incontriamo una disposizione apparentemente familiare.

I primi abbozzi della Quinta risalivano al 1901. Un anno importante per Mahler, sia nella sfera privata (per l’incontro con Alma Schindler, sua futura moglie) che in quella professionale (con i primi promettenti successi come direttore dell’Opera di Vienna). Il grosso della composizione era nato nel 1902, durante il soggiorno estivo nella villa di Meiernigg. Ma anche dopo il completamento della partitura, terminata nei primi mesi del 1903, e la prima esecuzione, avvenuta a Colonia il 19 ottobre 1904, Mahler aveva continuato a rivedere questa Sinfonia “”molto, molto complessa””, soprattutto per la strumentazione, fino all’ultimo. L’8 febbraio 1911, pochi mesi prima della morte, scrisse all’amico Georg Göhler: «Ho finito la Quinta: in pratica ho dovuto re-istrumentarla da capo. E’ incomprensibile come abbia potuto allora sbagliarmi del tutto così da principiante. Evidentemente la routine acquisita nelle prime quattro Sinfonie qui mi aveva del tutto abbandonato: poiché uno stile completamente nuovo esigeva una tecnica nuova».

Se la svolta avviene in questa Sinfonia, non è per caratteri estrinseci, ma per fatti interni al suo percorso. La Quinta non è la sinfonia della svolta, ma la sinfonia capitata nel vortice, nella corrente della svolta. A qualcuna doveva accadere. Capitò a questa. Qui per la prima volta Mahler abbandona un supporto programmatico di carattere extramusicale, rinunciando sia alla descrizione sia alla traccia dei testi. In una lettera a Max Kalbeck di quel tempo egli si espresse in modo molto chiaro su questo aspetto: «Non c’è musica moderna, a cominciare da Beethoven, che non abbia un programma interno. Ma nessuna musica è valida se all’inizio bisogna avvertire l’ascoltatore delle esperienze che vi sono contenute, o rispettivamente dirgli ciò che dovrà provare. Ancora una volta dunque: pereat qualsiasi programma. Bisogna proprio portare con sé orecchie e un cuore e, non ultima cosa, sapersi abbandonare di proposito al rapsodo. Una parte di mistero rimane sempre: perfino per il creatore!». Per Mahler queste riflessioni costituivano una chiarificazione sul piano concettuale; artisticamente coincidevano con l’annuncio di un cambiamento di stile: anche se non contraddicevano l’affermazione secondo la quale ogni sinfonia si proponeva di risolvere un problema relativo alla sua visione del mondo.

Nella Quinta permangono tuttavia alcuni riferimenti a opere precedenti. Nell’Adagietto c’è un preciso legame tematico col Lied Ich bin der Welt abhanden gekommen, terzo dei Rückert-Lieder, nel Rondò-Finale col Lied Lob des hohen Verstandes; nel primo tempo si trova una citazione da Der Tamboursg’sell e del primo dei Kindertotenlieder, oltre ad allusioni tematiche alla Quarta Sinfonia nel motivo iniziale della tromba. Queste citazioni non individuano però un campo semantico a cui sia possibile rifarsi per dare un significato alla Sinfonia, ma sono frammenti di un’unità spezzata che galleggiano in un mondo fondamentalmente estraneo, come memoria di un tempo che fu. E ciò si rispecchia nella concezione generale della Sinfonia, refrattaria tanto a seguire un percorso di progressiva ascesa verso una trasfigurazione quanto a sospendersi in visioni interiori che annullino il senso del movimento e della vertigine. Ognuna delle tre parti di cui essa si compone (una suddivisione che è necessario tener presente nell’articolazione d’insieme) circoscrive un capitolo a sé stante, repentinamente contraddetto in favore d’un atteggiamento completamente diverso: e ciò che tiene uniti questi passaggi è l’idea del movimento stesso, di un incrollabile e schizofrenico horror vacui.

In nessun’altra delle precedenti Sinfonie il piano tonale è distribuito in modo così elementare e chiuso. Il primo movimento è in do diesis minore e comprende già al suo interno (nella seconda parte del trio) un’anticipazione della tonalità del secondo, la minore. Tutto il primo blocco è dunque dominato dalle tonalità minori, ed è emotivamente e tematicamente una sorta di macabra peregrinazione nella valle di lacrime, per bere fino in fondo – tra irruzioni di rivolta e nostalgiche rimembranze – il calice amaro della vita. La seconda parte, interamente occupata dallo Scherzo, è in re maggiore e oppone all’umore nichilistico della prima una gioiosa affermazione di vitalità, o quanto meno una robusta dichiarazione di forza. Ciò che importa è che fra le due non vi sia mediazione né continuità, ma giustapposizione: le due diverse impostazioni coesistono, sono due modi opposti e speculari di guardare agli eventi. Il terzo e ultimo blocco della Sinfonia comprende gli ultimi due movimenti. La sproporzione fra l’Adagietto e il Rondò finale è in sé vistosa, ma tonalmente non crea alcuna tensione: da fa maggiore si plana a re maggiore sfruttando una nota comune dell’accordo, come dire che il ripiegamento interiore è solo una parentesi prima che di slancio si ritorni là dove eravamo rimasti. E da un certo punto di vista la Sinfonia ricomincia proprio dal Finale, la struttura più problematica e densa di prospettive finora disposta da Mahler.

Per compiere un tragitto estremamente breve, da do diesis minore a re maggiore, tonalità divise melodicamente appena da un semitono, Mahler imbocca la strada più diretta, addirittura prefigurando la conclusione nel tempo centrale, per avvalorarla poi alla fine in una colossale sintesi della forma-sonata con il rondò. Il procedimento è così insolito da sembrare fin troppo carico di significati: Mahler abolisce qui la dialettica delle tonalità per togliere alla Sinfonia qualsiasi parvenza di un campo di sviluppo libero. E difatti il processo compositivo non è basato sulle relazioni tonali, ma sul contrappunto, che ne è l’elemento costruttivo fondamentale. Solo che l’edificio contrappuntistico, anche quando mira ad ordinare polifonicamente l’accavallarsi di forze espressive disperse e disgreganti, riposa su una fondamentale staticità e simultaneità e non disegna un itinerario più o meno lineare, ma accumula tensioni su tensioni, strati su strati, passando repentinamente da uno stato d’animo all’altro: come se ciò che contasse fosse non interrompere mai il movimento, non dare spazio alla riflessione, tregua all’incalzare delle tensioni.

Manca, in questa Sinfonia; non soltanto l’idea di un centro, ma anche la delimitazione ‘di un prima e di un poi, di un punto iniziale e di uno finale. Se tutto si muove e si trasforma, ma senza che nelle trasformazioni vi sia un nesso regolare, premeditato, ogni momento racchiude e riorganizza in sé ciascuna possibilità, isolatamente e contemporaneamente.

L’instabilità elevata a sistema ne è elemento determinante: e la musica lo rappresenta accettando il caos dei molteplici linguaggi, la intercambiabilità di gioia e disperazione, perfino la non distinzione di suoni e rumori. Che cosa è suono e che cosa rumore nella mostruosa esuberanza dello Scherzo, così innocentemente scandita dai richiami rassicuranti del corno obbligato, che cosa è vero e che cosa falso nella esultante conclusione del Rondò, con la fin troppo esibita affermazione del grandioso corale di ottoni? La stessa calda perorazione dell’Adagietto, con la rarefazione della scrittura sottolineata dalla strumentazione per soli archi e arpa, è un’illusione che dura quanto vibra la musica, ma non oltre; e l’energia primordiale del ritmo non s’incarna in marce e danze di reale concretezza, di terrestre umanità: impossibile marciare e danzare su quei ritmi. Tutto è spostato altrove, rimanda ad altri agganci. Ed è lì che probabilmente si trova la verità di questa Sinfonia, in una sfida che si rinnovi ad ogni esecuzione e che costringa ogni volta a ripartire da capo: da quel solo della tromba che già annuncia, col suo ritmo zoppicante, un male oscuro dell’anima e il desiderio meraviglioso d’una pienezza.

Lorin Maazel / Orchestra Filarmonica della Scala
Teatro alla Scala, Stagione 1991-92

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