L’opera, che chiude il ciclo delle quattro Ballate, fu composta nel corso del 1842 ed è, più ancora delle sorelle, sintesi di innovazione e di consolidamento, o meglio consolidamento di una perpetua innovazione. Qui Chopin traccia un compendio di tutti gli stili, di tutti i generi trattati in due decenni di carriera, dal Rondò alle Variazioni alla Sonata, inglobando anche impulsi caratteristici di nuove forme da lui stesso create o ricreate, come i Notturni o gli Studi; mettendo la tecnica, divenuta trascendenza e spiritualità smaterializzata, al servizio di una costellazione di idee a loro volta incarnate in una disciplina senza lacci, capace di spaziare dall’uso della scrittura contrappuntistica più sofisticata alla immediatezza dell’improvvisazione più libera. Anche nei confini specifici del genere, sottratto a qualsiasi riferimento letterario e perfino extramusicale in favore di una ragione strettamente strumentale (in tal senso va intesa anche la spesso segnalata connessione con le Ballate del poeta polacco Adam Mickiewicz, di cui, per alcuni, sarebbero l’interpretazione musicale), Chopin coglie il carattere più propriamente romantico della Ballata nella compresenza di tutti gli elementi tanto tipici del genere quanto di solito impiegati isolatamente; da quello narrativo a quello fantastico, da quello epico a quello lirico. Ognuno di questi aspetti tende a fondersi progressivamente con l’altro, o meglio a svelare cammin facendo, in una sorta di estasi della passione sublimata, la sua identità a più facce. L’architettura della Quarta Ballata è particolarmente complessa, ardua la sua sezionatura. Lo stesso tono narrativo affermato programmaticamente dal tempo costantemente in 6/8 si trasforma continuamente con la elaborazione delle, figure, con i loro collegamenti e incroci, creando un’apparente ambiguità e asimmetria metrica nella fondamentale regolarità dell’andamento generale. E ciò vale non solo sul piano ritmico, agogico e dinamico. L’introduzione, di sette misure, presenta un equivoco tonale dato dall’insistita affermazione della tonalità di do maggiore, che solo con il passaggio al primo tema svelerà la sua funzione, invece esitante, della preparazione della tonalità principale dell’opera. E lo stesso primo tema, costituito da quattro misure che si ripetono sei volte, sembra riunire in sé il sempre uguale e il sempre diverso, in una quasi impercettibile oscillazione di sfumature sempre più determinanti. Con l’entrata del secondo tema, anch’esso introdotto alla lontana da quattr misure di preparazione, il tono narrativo cede al fantastico, alla vision sognante e dolcemente malinconica. Ma ancora una volta il carattere di questa sezione, che pur sembrerebbe esattamente fissato, svela nello sviluppo un’altra verità, prima di forte tensione drammatica, poi di trasfigurazione lirica; mentre il primo tema, che si era distinto per la sua mutevolezza, ora si salda in una riesposizione in forma di canone, di quasi cavalleresca epicità. Epicità che trova uno sfogo di selvaggia violenza nella Coda sorprendentemente atematica, esplosione incandescente di frammenti impazziti.
Forse il carattere più vero e completo di quest’opera, che già ai contemporanei parve assai problematica e che continuò lungamente a risultare sfuggente, sta proprio nella sua stratificazione di molteplici aspetti espressivi e impressionistici, nel trascolorare, anche in senso psicologici, di elementi reali e illusori. Sarebbe però altrettanto sbagliato considerarla alla luce dei suoi paradossi e contrasti; giacchè essi non essi esorbitano mai, neppure nei momenti di maggiore passionalità e drammaticità, dall’ordine di una profonda e originalissima razionalità, che mai come in quest’opera di un tempo senza tempo Chopin affidò alla comprensione della posterità.
Maurizio Pollini
Ravenna Festival 1996