Ai celeberrimi ventiquattro dell’opus 28 si aggiungono nel catalogo di Chopin solo altre due pagine che recano il nome di “”Preludio””: il Preludio in la bemolle maggiore senza numero d’opera, del 1834, e il Preludio in do diesis minore op.15, scritto nel 1841. Nato su commissione di un editore viennese come contributo per un Album alla memoria di Beethoven, questo brano isolato appartiene agli esiti più alti della produzione chopiniana, sia per vastità d’ispirazione che per impegno formale, e non tradisce affato la sua solenne origine occasionale, se non per una particolare severità e ricercatezza di soluzioni timbriche e armoniche, queste ultime ruotanti attorno alla scelta della tonalità, intima e pensosa. di do diesis minore. Niente di beethoveniano però vi si affaccia: Chopin non si affida a rimandi concreti per modulare senza timori il suo omaggio al titano fra i compositori.
E tuttavia il gesto con cui si apre la densa pagina – quattro battute d’introduzione che ricamano una lunga frase discendente chiuso da un accordo sospeso – sembra spalancare una nostalgia piena di attese e sottintesi. Di lì subito Chopin riprende enucleando, questa volta dal registro grave verso l’acuto, una figura d’accompagnamento simmetrica, che passa in secondo piano allorché ne deriva, quasi per naturale cristallizazione, una melodia di canto arcano, più suggerito che concluso. Ciò che segue non si pone sotto seguo dello sviluppo, ma semmai della variazione, in una caleidoscopica successione di trapassi armonici enarmonici, sovente altalenanti fra maggiore e minore: da cui nasce, quasi per emanazione dei collegamenti tonali, una prodigiosa varietà di colori, nessuno dei quali però acceso, piuttosto sfumato e ricco di vibrazioni intime. L’interiorizzazione della musica avviene per impercettibili trasformazioni di elementi minimi attorno alla melodia del canto, intatta e intangibile, velada di malinconia virile, sospesa su se stessa e avvolta di delicate rimembranze; trattenute prima e, solo alla fine, esplicitate da una cadenza a piacere, quasi finalmente orgogliosa di sé, robusta e decisa nel suo cromatismo avvolgente.
Maurizio Pollini
Ravenna Festival 1996