Antonio Vivaldi – Le quattro stagioni; concerto in do maggiore per mandolino e archi; Concerto in si minoreper quattro violini, violoncello, archi e cembalo

A

I quattro Concerti per violino, archi e basso continuo detti Le quattro stagioni sono senza dubbio il ciclo strumentale più famoso di Antonio Vivaldi. Essi fanno parte dell’opera VIII, composta attorno al 1725, raccolta che già nel titolo (Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione) pone in evidenza uno spiccato carattere programmatico e descrittivo. Come ha scritto Marc Pincherle, “”già in molta musica del Seicento italiano erano state di moda le imitazioni onomatopeiche di voci di animali e tutta la scuola clavicembalistica francese facente capo a Francois Couperin aveva seguito l’estetica dell’imitazione della natura con brillanti risultati; già operisti quali Draghi, Cavalli, Marais, avevano composto saggi non disprezzabili di imitazioni di strepito di vento, di tempeste, di mormorio d’acque, di canto dì uccelli, ma Vivaldi nella celebre op. VIII si fa poeta di queste possibilità””.

Effettivamente Vivaldi supera di gran lunga i compositori che avevano scritto musica di questo genere prima di lui per la densità del trattamento sinfonico e per la genialità delle soluzioni melodiche, armoniche e timbriche, oltre che per la cura attentissima alla costruzione formale dei singoli Concerti: anche le parti più eminentemente descrittive, coli ricche di particolari pittoreschi e spinte fino ai dettagli più secondari della chiarezza rappresentativa (per fare un solo esempio, nel “”Largo”” centrale del primo Concerto “”La primavera”” la linea del violino solo rappresenta “”il capraro che dorme””, quella dei violini dell’orchestra “”il mormorio di fronde e piante”” e quella delle viole “”il cane che grida””), tendono a risolversi in brani di musica pura di grande bellezza e opulenza espressiva, intrinsi di intensi palpiti lirici e di incantevoli sottolineature virtuosistiche. La maestria nel trattamento dell’orchestra e particolarmente del violino solista è veramente ragguardevole: giustamente è stato detto che il ciclo delle Stagioni, vertice della produzione strumentale di Vivaldi, è un’opera di grande importanza non solo per la sua intrinseca qualità musicale ma anche perchè apre orizzonti nuovi – tecnici ed espressivi – alla musica d’ispirazione descrittiva. Per trovare un corrispettivo degno di tal nome bisognerà attendere la “”Pastorale”” di Beethoven; mentre tutto il filone del poema sinfonico ottocentesco ne proseguirà la strada coll’intenzione di fissare stretti legami fra musica e contenuto extramusicale.

Ognuno dei quattro Concerti si ispira al mondo della natura nel mutar delle stagioni ed è accompagnato da un sonetto, nel quale sono evocati poeticamente ma con dovizia di particolari descrittivi i caratteri della primavera, dell’estate, dell’autunno e dell’inverno. Lo sviluppo musicale segue fedelmente l’andamento della poesia e le suggestioni sonore dei singoli episodi; ciò non toglie che Vivaldi racchiuda la forma della composizione in uno schema tripartito, nel quale due movimenti veloci (basati rispettivamente sull’articolazione della poesia in due quartine e due terzine) incorniciano un tempo lento centrale. Ne risulta coi un equilibrio perfetto, di tale evidenza da rendere lecita la domanda se sia la musica a governare la poesia o la poesia a guidare i diversi momenti dell’invenzione musicale, trovando per ognuno di essi la più adeguata espressione strumentale.

Vivaldi fu uno dei maggiori violinisti del primo Settecento, ma nella sua vastissima produzione strumentale tende continuamente ad allargare l’impiego di strumenti antichi e moderni per arricchire il genere del Concerto. Un posto del tutto particolare nel suo catalogo hanno i due Concerti per uno e due mandolini con accompagnamento d’archi, che recano nell’indice più recente di Peter Ryom i numeri 425 e 532. E’ probabile che Guido Bentivoglio d’Aragona, suo protettore a Ferrara e dilettante di mandolino, e che il favore da esso suscitato lo abbia spinto a comporre subito dopo anche quello per due mandolini, in sol maggiore, assai più vario e ricco di trovate e di invenzioni incantevoli. Questi Concerti sono scritti secondo la tecnica tipicamente settecentesca, quando il mandolino non si suonava ancora col tremolo come oggigiorno, bensì a percussioni singole. Vivaldi tuttavia prefigura uno stile esecutivo assai più avanzato, con estro improvvisativo che si presta a essere sfruttato dalle doti dell’esecutore moderno. E a questo proposito indicativo che taluni passi, allora ineseguibili a una certa velocità per i continui salti scavalcanti una o più corde, fossero notati anche in versione facilitata, quasi a voler offrire una alternativa a seconda del grado di bravura e di padronanza tecnica dell’esecutore. Speciale cura riceve nella scrittura vivaldiana l’impasto timbrico fra solista e orchestra, che si segnala per taluni effetti di straordinaria delicatezza e preziosità. Tutto sembra essere stato previsto e calcolato dall’autore anche in vista di una esecuzione con mezzi strumentali perfezionati rispetto alla sua epoca; perfino la prescrizione di collocare i due solisti del Concerto in sol maggiore a una certa distanza l’uno dall’altro anticipa effetti di stereofonia assolutamente inediti, a testimoniare che Vivaldi non si stancò mai di ricercare nuove combinazioni e possibilità sonore.

Il Concerto in si minore per quattro violini, violoncello, archi e cembalo fa parte della raccolta L’Estro armonico op. 3, del 1712 circa: esso si colloca al numero 10 dei 12 Concerti che la compongono. La sua grande notorietà è dovuta anche alla trascrizione che ne fece Johann Sebastian Bach per quattro clavicembali e archi, uno dei documenti più impressionanti dell’incontro artistico fra due musicisti così diversi eppure legati da qualche affinità sotterranea. La versione vivaldiana, con la sua cantabilità e brillantezza strumentale, non è certo oscurata dalla rielaborazione bachiana, assai più compatta formalmente e contrappuntisticamente più densa. Essa è anzi uno dei massimi esempi della scioltezza con cui Vivaldi sapeva i intrecciare il discorso strumentale con finalità concertanti e far scaturire da esso idee tematiche di inesauribile varietà, con la fantasia e l’eleganza di un virtuoso impareggiabile.

Claudio Scimone / I Solisti Veneti
Festival di Merano 1987

Articoli