Apologia del virtuosismo
Il programma proposto questa sera da Gidon Kremer e Oleg Maisenberg, che offre una carrellata su epoche e autori asso diversi tra loro, potrebbe anche essere definito a prima vista una escursione nei territori del virtuosismo violinistico “”minore””. Se si eccettua la Sonata n. 2 di Bartòk, capolavoro di un classico del Novecento, gli altri pezzi appartengono ad autori la cui fama non è eminentemente legata alla storia della letteratura violinistica: non si pensa di primo acchitto a questo strumento quando si fanno i nomi di Schubert e Dvoràk; e tanto meno quello di Liszt, che evoca semmai la gloria del pianoforte. Quanto a Erwin Schulhoff, compositore e pianista di origine boema nato a Praga nel 1894 e morto in un campo di concentramento in Baviera nel 1942 perché ebreo e comunista, pochi anche tra gli specialisti saprebbero a colpo tracciarne un ritratto: qui siamo di fronte all’ignoto.
Eppure il programma è tutt’altro che privo di fascino e di motivazioni: come del resto è nel carattere di quel personaggio inquieto e solo apparentemente eccentrico che invece conosciamo assai bene per il suo talento serioso, ossia Gidon Kremer. I suoi concerti sono sempre sfide portate all’estremo: per recuperare ogni volta un senso non solo al suo mestiere di virtuoso cui nulla tecnicamente è precluso ma anche alla nostra conoscenza dei sentieri nascosti sulla strada maestra della musica di ieri e di oggi. Attenti a non definirli semplicemente, magari con una punta di sospetto, programmi “”intelligenti””: di quelli che poi si risolvono in lezioni un po’ noiose ed effimere. Di fuochi d’artificio ne vedrete e ascolterete parecchi, stasera; ma sorretti da un fondo di sostanza, e con un gusto per il rischio che delle sfida in sé è poi l’elemento essenziale. E allora chi può assicurare che l’anima del violino non si trovi proprio in questi anfratti, in questi “”fuori pista”” spericolati?
Il Rondo in si minore di Schubert, pubblicato nel 1827 dall’editore Domenico Artaria col numero d’opera 70 e il titolo di Rondeau brillant, è un pezzo d’occasione scritto per un giovane violinista boemo, Josef Slavik, che più tardi si meriterà da Chopin l’appellativo di “”secondo Paganini””. Eccolo qua il nome decisivo, naturalmente: il virtuoso per eccellenza, colui che cambiò il modo stesso di intendere, diabolicizzandola, l’anima non più candida del suo strumento.
Schubert era all’apice della ricerca compositiva, quando accettò di confrontarsi con un genere che aveva abbandonato da tempo (l’ultima volta era stato nel 1817, con la Sonata in la maggiore). E lo fece abbinando una scrittura e uno slancio di chiara impronta virtuosistica, specificamente basati sulla personalità degli esecutori, con una riflessione sulla forma del Rondò, da sviluppare poi in altre composizioni del suo ultimo stile. Questo pezzo presenta quindi due dimensioni, entrambe sperimentali: quella della massima espansione in senso tecnico-strumentale e quella della riconduzione a un problema formale più generale, che stava particolarmente a cuore a Schubert e che potremmo identificare nella coesione del principio di ripetizione proprio del Rondò con un processo di sviluppo interno e conclusivo. Questo Rondo brillant è dunque per così dire il prototipo di un pezzo finale senza le parti che lo precedono, per esempio in una Sonata. Alla tensione altissima che lo contraddistingue fa seguito la distensione dei Quattro pezzi romantici op. 75 di Dvořàk, del 1887: per la precisione una rielaborazione dal Terzetto op. 75a per due violini e viola. Se la concentrazione di tre strumenti ad arco in uno è quasi un compendio delle possibilità tecniche ed espressive di cui sono capaci, la presenza del pianoforte costituisce quello sfondo romantico, lirico e trasognato, denunciato anche dal titolo: ma più nel senso di delicate miniature che di perentorie accensioni di contrasti. Qui si canta anche distesamente, in uno stile intrecciato di reminiscenze colte e popolari.
Nel segno dei contrasti più aspri e drammatici si pone invece la Sonata n. 2 di Schulhoff: interessante anche per la ricerca timbrica e armonica (Schulhoff fu fortemente influenzato dalle teorie di Alois Hàbasui quarti di tono), depurata in un neoclassicismo di facciata, e per la veemente energia ritmica, non lontana da richiami jazzistici. Siamo di fronte a una composizione eclettica, eterogenea, percorsa da veementi tensioni, si vorrebbe dire di natura quasi morale. Una musica che sembra mirare a una dimensione di pura contemplazione, e non riesce a staccarsi dal caos della materia. Là dove non arriva Schulhoff, se non additando un ideale di trascendenza nella magmatica vibrazione dei suoni, Bartòk giunge d’un sol balzo, con la evidenza dei classici destinati alle vette isolate e incontaminate dello spirito. La sua Sonata n. 2 (1922) è anche un coraggioso confronto con la tradizione, ossia una Sonata nel significato più pieno e incondizionato del termine: ma la poetica della modernità, la chiarezza concettuale dell’impianto formale e la veritiera compenetrazione nell’autentica vena popolare, sono realizzate con una varietà di accenti che lasciano quasi senza fiato. Certo, anche il termine virtuosismo assume ora un significato diverso: non si tratta più di far
bella mostra di sé, bensì di piegare le più ardue e perigliose sperimentazioni strumentali all’invenzione pura e assoluta del suono, nella sua essenza astratta e atemporale.
E forse solo dopo questa duplice faccia in cui si trasfigurano i segni riconoscibili della modernità, un pezzo giovanilmente baldanzoso come il Gran duo concertant di Liszt (l 835-37, revisionato nel 1849 e pubblicato nel ’52) assume un valore meno convenzionale e scontato: l’impaginazione del programma dimostra in questa vertiginosa discesa verso una sensualità quasi sfrenata la sua non casuale progressione. Che è ribaltamento della successione cronologica in una prospettiva degna di una pittura metafisica. Ora la sfida diviene esponenziale: c’è uno spunto già di altissima temperatura violinistica (la Romanza “Le Marin” a suoi tempi celeberrima di colui che fu considerato il rivale di Paganini, Charles-Philippe Lafont, 1781-1839) su cui fiorisce la colossale, folle corsa concertante fra violino e pianoforte scatenata dalla fantasia di Liszt. E’ un Liszt preoccupato solo di accumulare meraviglie, ogni volta inventandone una più strabiliante, per portarci quasi allo sfinimento: come se ci volesse far identificare fisicamente con gli interpreti-esecutori. Ma alla fine, in questo pirotecnico accavallarsi di impressioni, una volta esaurita l’eccitazione, rimane un senso di vuoto, di disagio: nessuno come Liszt sapeva che la musica non può essere fine a se stessa. Il suo compito storico fu quello di portarci tumultuosamente, fingendo un’allegra scampagnata, tra vette impervie, sull’orlo dell’abisso. Ed è lì che lo raggiungono l’angoscia di Schulhoff, la lucida visione di silenzi eterni riempiti di suoni interiori di Bartók: quello che vi accade, non lo si può capire senza aver percorso l’intera corsa, avanti e indietro.
Certi programmi di Kremer, e questo in modo particolare, sembrano una lucida apologia del virtuosismo come vanitas vanitatum, e insieme la trasfigurata testimonianza di una ricchezza di pensieri, di sentimenti, di passioni, di brividi, che non sono nè prima nè dopo, ma nelle cose stesse, nei loro eccessi. Gli alati messaggi, le distillazioni supreme della musica depurata da queste contaminazioni, sono il sigillo del nostro desiderio di sciogliere la fantasia per abbandonarci alle sensazioni più immediate, godendone la realtà fino in fondo, senza chiederci perchè. La verità può manifestarsi non solo nelle serietà dell’impegno, ma anche nella apparente fatuità del gioco, purchè consapevole.
Gidon Kremer, Oleg Maisenberg
Teatro Comunale di Ferrara, Stagione concertistica 1992-93