Dieci anni spesi bene
Fu certo la voglia dì crescere in fretta, di trovare la propria collocazione nella vita, di conquistare subito l’indipendenza e l’autonomia fidando orgogliosamente sulla propria bravura e sull’entusiasmo. Oppure no. Fu invece la voglia di non crescere affatto, di fermare il tempo per prolungare un bel sogno di gioventù, in attesa di venir scelti non solo da una professione ma dalla vita stessa. A quale di questi due motivi si deve la nascita, dieci anni fa, della Chamber Orchestra of Europe? Quale dei due ha pesato di più sulla sua origine e sulla sua progressiva affermazione?
Fuori dall’enigma. Dunque, la Chamber Orchestra of Europe (COE) venne creata appunto dieci anni fa per iniziativa di alcuni strumentisti i quali, dopo aver fatto parte fin dalla fondazione e per alcun tempo della European Community Youth Orchestra (ECYO), cioè l’Orchestra dei Giovani della Comunità Europea ideata da Claudio Abbado nel 1977, non vollero rassegnarsi a dividersi e a disperdere quell’esperienza francamente unica. Erano molto giovani, ed evidentemente bravi. Avrebbero senz’altro trovato molto presto posto in una qualunque delle grandi orchestre, come hanno fatto dopo di loro molti altri colleghi usciti dalla ECYO. Alcuni avrebbero anche potuto tentare con buone prospettive la carriera solistica. Scelsero invece un’altra strada. Che di fatto non ne escludeva nessuna.
Lo statuto della ECYO, allora molto rigido, imponeva che, raggiunta una certa età, essi dovessero lasciare l’orchestra, per far posto ad altri ragazzi e favorire così un ricambio. Ma quel nucleo originario, formatosi quasi per caso e poi rinsaldatosi nel lavoro in comune, pensò di continuare mettendosi in proprio e di fondare un’orchestra di dimensioni più piccole, gestita autonomamente dai musicisti stessi sul modello di alcune grandi orchestre filarmoniche. Fu, per quei tempi, un fatto abbastanza nuovo: e tutt’altro che scontato ne sembrava l’esito. Ma il gruppo aveva un asso nella manica, e seppe giocarlo con molta accortezza. servendosi anche del “”ricatto”” dei sentimenti, tipicamente giovanile: ossia un direttore come Claudio Abbado, che aderì, con l’entusiasmo che lo contraddistingue per le avventure non scontate, alla proposta non solo cli fare da padrino alla nuova orchestra, che del resto conosceva già benissimo, ma anche di assumerne la carica di direttore musicale e artistico. Quest’incarico lo mantiene tuttora, nonostante gli impegni sempre più numerosi e prestigiosi con altre orchestre, che si sono via via aggiunti nel tempo.
E’ probabile che senza l’aiuto di Abbado la Chamber non avrebbe fatto la strada che ha fatto, soprattutto in ambito internazionale. Non per nulla egli è per loro una specie di idolo, o di nume tutelare. E basta osservarli lavorare insieme per rendersene conto. Una lunga familiarità li lega, ed è il segreto della riuscita delle loro esecuzioni. Ma è altrettanto vero che il gruppo originario, e quelli che si sono aggiunti in seguito senza far perdere la continuità e l’identità dell’orchestra, il suo clima di lavoro abbastanza anticonformista, si sono mantenuti a tali livelli da qualificare anche la presenza di Abbado: in modo per lui perfino utile – come strumento di studio, di prova, oltre che di realizzazione interpretativa – in momenti decisivi dello sviluppo della carriera. E’ sufficiente citare due esempi fra i molti: la prima riproposta del Viaggio a Reims di Rossini a Pesaro, a cui la Chamber dette un contributo essenziale poi fissato anche in disco, e l’integrale discografica, preceduta anch’essa da molte esecuzioni dal vivo, delle Sinfonie di Schubert. Senza dubbio il momento più alto, quest’ultimo, nella storia dell’orchestra, per i motivi che diremo.
Rinnovarsi nella continuità mantenendo costantemente un alto livello di qualità è sempre stato il motto di quest’orchestra. Tutti gli aspetti organizzativi e le scelte artistiche – concerti, tournée, incisioni – sono anche di sua competenza: quattro rappresentanti eletti dall’orchestra stessa fanno parte del comitato esecutivo, insieme con un Presidente (Peter Readman) e un General Manager (June Megennis). L’orchestra, di conseguenza. vive e prospera nella misura in cui lavora e sa pianificare la propria attività, al di fuori di ogni logica garantista, burocratica e sindacale. Se c’è da suonare o da provare oltre l’orario fissato – ma questo accade di rado – lo fa di buon grado, nel proprio esclusivo interesse. Invita, sceglie e conferma – o meno – i nuovi strumentisti che si offrono di farne parte. E lo stesso avviene anche per i direttori e i solisti che accettano di collaborare. Ed è più che raro che qualcuno di essi si sia dichiarato insoddisfatto di questa collaborazione. Molti ritornano più volte, a configurare quasi un rapporto semistabile: come Pollini, Accardo, Lupu, la Argerich e la Gutman, Kremer e Perahia, Harnoncourt, Norrington e Solti, e via enumerando.
Alla prima sede londinese, oggi ospitata nella residenza del Barbican Centre, dove hanno luogo anche i concerti e le registrazioni, se ne sono aggiunte altre due, effetto di un’attività internazionalmente più estesa e riconosciuta: la sala piccola (il Kammermusiksaal) della Philharmonie a Berlino e il Teatro Comunale dì Ferrara. Qui, per “”Ferrara Musica””, la Chamber svolge la sua attività di preparazione delle tournée e delle incisioni in due periodi annuali, a primavera e in autunno, dando una media di otto concerti all’anno per una prima durata di tre anni. Siamo adesso alla fine del secondo anno. Con Ferrara, a questo punto, la Chamber Orchestra of Europe è diventata di casa in Italia, dove pure era già nota.
Con un organico di circa sessanta elementi, la COE è in grado di affrontare agevolmente il repertorio classico (da Haydn a Beethoven) e quello del Novecento storico (da Prokofev a Stravinskij a Schönberg), senza trascurare la produzione barocca e la musica contemporanea. Ne danno testimonianza da un lato le incisioni bachiane (già numerose, e tra le quali va segnalata almeno quella dei Concerti brandeburghesi, eseguiti senza direttore), dall’altro la recente partecipazione al festival Wien Modern), con opere eli compositori di punta. ed eterogenei, quali Kranek, Berio, Lutoslawski, Carter e Stroppa. Questo repertorio assai vasto è reso possibile grazie a una dote che la COE possiede in misura specialissima fin dalle origini: la estrema duttilità e flessibilità del suo complesso, formato da strumentisti di prim’ordine (tutte le prime parti sono in grado di prodursi anche come solisti ), ma capace per così dire di integrare anche le individualità più spiccate in un gioco di squadra altamente funzionante e redditizio. Pur facendo della capacità di adattarsi rapidamente alle caratteristiche dei direttori che via via la guidano una delle sue armi migliori, quest’orchestra mantiene la sua personalità in modo quasi inconfondibile. Che suoni con Abbado o con Harnoncourt, tanto per fare due nomi di direttori profondamente, costituzionalmente diversi fra loro, la Chamber cambia istantaneamente pelle, per esempio nella caratura e nella tensione del suono, nel fraseggio e nello stile, ma rimane se stessa nell’atteggiamento di fondo; sì da mettere al servizio dell’atto esecutivo e interpretativo le sue principali qualità: ossia l’assoluta precisione ritmica, la nettezza dei rilievi, l’equilibrio fra le sezioni, la brillantezza delle prime parti e l’omogeneità delle file.
La chiave per ottenere questi risultati sta nella preparazione e nella concentrazione, nel piacere sempre nuovo di fare musica mettendosi alla prova: attitudini tipiche di chi è in ogni momento responsabile di ciò che fa e non è tutelato se non dalla propria capacità di esprimersi ai massimi livelli. Naturalmente, ci sono anche altri motivi che spiegano questi risultati. Per esempio, il pragmatico rifiuto della routine e dell’eccessivo attivismo, che non soltanto uccide la freschezza mentale e l’esercizio dello studio ma rende anche più difficile la convivenza (è impossibile far musica ad alti livelli nello stesso gruppo per dodici mesi all’anno); oppure la varietà delle scelte artistiche e delle collaborazioni, espressione di concezioni interpretative diverse, talora anche opposte. Ciò significa guadagnare forse di meno, ma divertirsi di più. Di fatto, l’orchestra lavora “soltanto” dai cinque ai sei mesi all’anno, lasciando così ai musicisti l’opportunità, se lo vogliono, di sviluppare parallelamente una carriera individuale, o semplicemente di coltivare liberamente anche altri interessi. C’è poi un altro aspetto, non meno importante: quello di continuare a fare spontaneamente musica da camera (in senso stretto: Trii. Quartetti. Quintetti e così via) con i gruppi interni all’orchestra, per migliorare l’affiatamento e la reciproca conoscenza, abituarsi ad ascoltarsi e ad ascoltare, perfezionare l’equilibrio delle sonorità e la fusione delle linee in un discorso logico che non sia soltanto la risultanza della somma delle parti. Questa attitudine per così dire esercitata nei piccoli gruppi si ritrova anche nelle dimensioni più ampie di un’orchestra da camera.
Sempre più si è venuta delineando in questi ultimi anni la consuetudine di invitare a prodursi con l’orchestra solisti di primo piano dei diversi strumenti: non soltanto pianisti e violinisti, ma anche violoncellisti, flautisti, oboisti, fagottisti e via dicendo. Ciò ha giovato molto in almeno due sensi. Anzitutto ha permesso di affrontare i problemi specifici dei diversi strumenti sia in prospettiva solistica sia alla luce del lavoro d’integrazione con l’insieme. In secondo luogo, ha spinto l’orchestra a raffinare la sua autonomia e la sua sensibilità quando questi musicisti ospiti figuravano nella doppia veste di direttori e solisti. Non sempre, infatti, anche i migliori solisti dispongono tutti di una solida preparazione tecnica come direttori d’orchestra. Diviene allora importantissimo sviluppare un’attenzione speciale e un senso di collaborazione totale per risolvere gli inevitabili problemi che queste esecuzioni possono presentare. Un impegno in sé utilissimo, ma ancora più delicato quando i solisti, oltre a dirigere, suonano essi stessi contemporaneamente i loro Concerti. Allora l’orchestra deve in qualche maniera essere capace di cavarsela da sé, e nello stesso tempo saper seguire il solista accompagnandolo. In questo tipo di prestazioni, la Chamber è diventata maestra: quasi al punto di rivelare i pregi di ognuno, e talvolta, al confronto, anche i difetti. Qui, come è chiaro, non si può richiedere quella perfezione e assoluta rispondenza alle intenzioni del direttore che si hanno per esempio con un Abballo, ma piuttosto una versatilità nel cogliere il nocciolo di un’interpretazione per realizzarlo con prontezza immediata: sovente suggerendo anche, nei tempi e nei piani sonori, una possibile visione musicale, e persino una linea interpretativa propria. unitaria. In questi casi, alla versatilità la Chamber unisce una naturalezza da un lato squisitamente professionale, dall’altro quasi familiare, affettuosamente cooperativa e simpaticamente complice.
Nel suo curriculum figurano una cinquantina di incisioni discografiche con le più importanti case del mondo, dalla Deutsche Grammophon alla Decca, dalla Philips alla Teldec alla Sony. Per rendere possibile la realizzazione di incisioni particolari, di pezzi rari, per così dire tagliati su misura sull’orchestra e sui suoi solisti, è stata creata di recente una nuova etichetta, la “” COE Records””, in collaborazione con il gruppo ASV. Non solo questi, ma anche gli altri dischi sono in generale molto interessanti, ora per la scelta delle musiche, ora per il pregio delle esecuzioni. Su tutto spicca però l’integrale delle Sinfonie di Schubert (cui va aggiunto il recentissimo Fierrabras, una registrazione dal festival di Vienna) sotto la direzione di Abbado. Questa incisione è da considerare una delle più importanti realizzazioni discografiche di questi ultimi anni. E per almeno due ragioni. Primo, per l’assoluta fedeltà al testo e per la cura prestata nell’approfondimento di chiare premesse di ordine interpretativo, ardue da realizzare con altre orchestre e in altre condizioni. Secondo, per la capacità straordinaria dell’orchestra di seguire fino in fondo e di concretare le idee interpretative di Abbado, rendendo viva ed emozionante la scoperta di non comuni caratteristiche del mondo sonoro di Schubert. Il suono di Schubert, per esempio: sottratto a quelle abitudini e consuetudini che la tradizione ha accumulato su questo autore, perfino nelle esecuzioni dei grandissimi, come i Filarmonici di Vienna, e riportato all’essenza dei suoi più puri, intimi valori. Che Schubert guardasse nelle sue Sinfonie giovanili alla brillantezza di Rossini, alla cantabilità di scuola italiana, risulta qui come mai illustrato; che il concetto di malinconia non abbia nulla a che fare con il languore e il sentimentalismo di certi portamenti e indugi, e che la modernità del suo linguaggio armonico risieda nel modo di organizzare e far evolvere la forma, impiegando a questo scopo anche l’assetto ritmico e le gradazioni dei piani sonori, quasi riverbero di una musica che nasce dall’anima ma si estende sulla terra. fra gli uomini, fino a inglobare nelle sue tragedie la stessa gioia di vivere, tutto ciò, e quant’altro ancora di stupefacente, lo si trova apertamente spiegato, con naturalezza commovente, in questi dischi. La Chamber è qui uno strumento esemplare per il modo in cui diviene espressione di un’idea interpretativa, e piegandosi docilmente ad essa fino a esserne permeata, la offre perfettamente compiuta alla coscienza di chi ascolta. Personalmente ci auguriamo che i piani discografici di Abbado contemplino la possibilità di impiegare la Chamber anche per un ciclo mozartiano: e soprattutto per una incisione, che non potrà mancare, delle sue opere teatrali, o almeno della trilogia dapontiana.
La presenza italiana della Chamber Orchestra of Europe a Ferrara è solo un momento della vita dell’orchestra, ma è un momento qualificante, in quanto ne rappresenta il lavoro. Perché se è vero che la COE esisterebbe anche senza Ferrara, è altrettanto vero che a Ferrara ha trovato un centro per prepararsi, crescere e rinnovarsi secondo lo spirito che la determina. In fin dei conti, questi concerti di “”Ferrara Musica”” sono stati, e verosimilmente continueranno ad essere, bei concerti, con programmi interessanti. Difficile, e forse inutile, chiedere di più. La Chamber rimane il risultato di troppi fattori eccezionali per poter essere presa a modello. Paradossalmente, la sua forza sta nella normalità, o in ciò che vorremmo tosse e diventasse, fuori d’ogni retorica, la normalità nell’attività musicale: soprattutto in Italia. Da questo punto di vista, può però insegnare qualcosa a tutti noi, ai nostri musicisti più giovani che si aprono alla musica (all’Europa’?) e a tutti coloro che sentono la musica come una parte di sè a cui non è possibile rinunciare. E cioè che il talento, unito al coraggio e alla serietà dell’impegno, con un po’ di fortuna e di abnegazione tutto sommato gradevole, può essere produttivo: a patto di non cadere nel fatalismo o nella rassegnazione. o, peggio, nell’alibi dell’immobilismo. Se arte è soprattutto applicazione, qui ne vediamogli effetti da vicino. Dunque, complimenti alla Chamber Orchestra of Europe per i suoi primi dieci anni spesi bene, e auguri almeno per i prossimi dieci, affinché siano accompagnati da altrettanti successi. Detto con gratitudine, e con un pizzico di invidia.
Claudio Abbado / The Chamber Orchestra of Europe
Teatro Comunale di Ferrara