Accanto a quello di Busoni, l’altro grande anniversario che cade nell’anno in corso, della nascita questa volta e centenario, è quello legato al nome di Arnold Schönberg. Schönberg nacque infatti a
Vienna il 13 settembre 1874, e morì all’età di settantasette anni a Los Angeles, dove si era rifugiato fin dal 1932 con l’ascesa al potere del partito nazista, il 13 luglio 1951, lasciando al mondo musicale
contemporaneo un’eredità pari alla incalcolabile grandezza della sua opera di teorico, critico. didatta e naturalmente compositore. L’importanza di Schönberg nell’evoluzione della musica occidentale, testimoniata durante la sua vita dall’accanimento con il quale egli fu esaltato e odiato contemporaneamente, è di un rilievo tale, da costituire la via fondamentale, per confluenza o per differenziazione, che traccia il cammino della storia della musica del secolo XX, nel doppio aspetto di radicale svolgimento delle premesse poste nell’ultima parte dell’Ottocento e di cosciente superamento linguistico e formale verso un’autosufficiente sistemazione dei principi compositivi su nuove basi creative.
È noto che la produzione di Schönberg può essere suddivisa in due grandi periodi, discriminati dall’indirizzo che la sua ricerca sul problema del linguaggio musicale assumeva incarnandosi in diverse forme. Da questo punto di vista, il primo periodo comprende la fase giovanile, in cui il compositore austriaco subì l’influenza di Wagner, Brahms e Mahler, riallacciandosi alla tradizione post-romantica che già aveva portato sulle soglie dell’esaurimento e della dissoluzione l’edificio della tonalità, con tutto ciò che in ambito compositivo e costruttivo essa aveva significato nella musica classico-romanica.
Esso comprende altresì molti anni della maturità di Schönberg, caratterizzati da un crescente intervento nel campo del sistema tonale, teso in un primo momento ad allargarne gli spazi dilatandone i nessi e i rapporti, e successivamente a ridurli spezzando, in una sorta di concentrazione formale, i centri focali che ne costituivano l’impalcatura, fino alla completa estinzione finale di ogni minimo segno.
Questo processo, in direzione di ciò che si è voluto indicare come «atonalità» o «tonalità sospesa», o ancora, secondo il termine usato da Schönberg, «pantonalità», si manifesta in successivi stadi in opere dalla diversa fisionomia e dai caratteri determinati, e abbraccia un arco di tempo che va dai Lieder op. 1 (1898) al Pierrot Lunaire op. 21 (1913) e ai Lieder op. 22 (1913-16), fino cioè allo scoppio della guerra mondiale che segnò una parentesi di inattività piuttosto lunga nella vita di Schönberg. I1 culmine di questo primo periodo può essere additato proprio in quell’anno 1912 che vide, insieme con la nascita dell’opera forse più nota di Schònberg, la fondazione del gruppo del «Cavaliere azzurro» (Der blaue Reiter), nel quale i postulati dell’espressionismo, nei suoi vari ambiti letterario, figurativo e musicale, si costituivano come forza trainante dell’avanguardia artistica contemporanea.
A partire dalle tre opere composte fra il 1921 e il 1923 (i Cinque pezzi per pianoforte op. 23, la Serenata op. 24, la Suite per pianoforte op. 25), si fa iniziare il periodo cosiddetto «dodecafonico», dal metodo di composizione da Schönberg teorizzato e messo in atto. L’esigenza di una riorganizzazione dei mezzi formali della costruzione musicale, in grado di fornire al livello in cui la musica si trovava un metodo compositivo sottratto al principio della pura e incontrollata espressione, si esplica nella necessità, storica e linguistica ad un tempo, della unificazione nel nuovo «metodo per comporre mediante 12 suoni che non stanno in relazione che fra loro», senza che questo significhi una rinuncia alla libertà e alla spontaneità della creazione artistica. Osservava infatti Schönberg: «Quando compongo mi sforzo di dimenticare tutte le teorie e continuo a comporre soltanto dopo aver liberato la mia mente da esse. Mi pare importante ammonire i miei amici contro l’ortodossia. Comporre con i dodici suoni non significa affatto, come volgarmente si crede, prescriversi un metodo esclusivo. Si tratta prima di tutto di un metodo che chiede ordine e organizzazione, il cui risultato principale mira ad essere la comprensibilità».
I Cinque pezzi per orchestra op. 16 appartengono al momento più acuto dell’esperienza atonale di Schönberg; si potrebbe anzi aggiungere che essi, insieme con i Tre pezzi per pianoforte op. 11 (1908) e i Sei piccoli pezzi per pianoforte op. 19 (1911), formano un trittico altamente esemplare della fase più drammatica della ricerca schònberghiana. quella in cui allo scandaglio fino alle radici dell’espressione musicale si accompagna una partecipazione emotiva di fortissima intensità. Composta nel 1909, l’opera 16 è formata da cinque pezzi che si susseguono recando ciascuno un titolo che ne caratterizza l’ambito di svolgimento. Essi sono: I. Vorgefühle (Presentimenti); 11, Vergangenes (Cose passate); III. Farben (Colori); IV. Peripetie (Peripezia); V. Das obligate Rezitativ (Il recitativo obbligato). Occorre subito rilevare che i titoli che contraddistinguono i singoli pezzi furono aggiunti solo in un secondo tempo (essi compaiono comunque nell’edizione Peters del 1922, riveduta da Schönberg), quando, nell’idea compositi va dell’Autore, non poteva sussistere più alcun fraintendimento del loro significato essenziale, di essere cioè non una cifratura programmatica o descrittiva o impressionistica, bensì un richiamo a quelle intenzioni compositive che si legavano strettamente a interiori stati d’animo e a percezioni sensibili verso l’espressione delle quali il musicista indirizzava la sua ricerca.
Dal punto di vista armonico, la scrittura schònberghiana mira ad impossessarsi del totale cromatico senza più inquadrarlo nelle leggi delle reciproche relazioni proprie del sistema tonale, pervenendo alla completa abolizione delle differenze fra consonanza e dissonanza e alla acquisizione di uno spazio «pantonale», in cui alla distinzione fra modo maggiore e modo minore si sostituisce una illimitata possibilità di rapporti e di successioni. Boulez, il più convinto sostenitore dello Schönberg pre-dodecafonico, ha scritto a questo proposito: «La scrittura è di una grande complessità, non tanto quando scrive per uno strumento solista, quanto per formazioni da camera; il contrappunto, liberato dalle costrizioni tonali, può svilupparsi con una ricchezza barocca che la musica romantica non aveva mai raggiunto, essendo permessa qualsiasi relazione, al di fuori di quelle tonali; come dire, cioè, quanto sia ricco questo universo e nello stesso tempo quanto anarchico. L’unica preoccupazione di Schönberg fu quella di mantenere la permanenza di relazioni cromatiche, il che però non manca di influire sulle diverse linee melodiche considerate fra loro e sulla costruzione armonica degli accordi dove, poiché nessuna nota viene raddoppiata, si forma una accumulazione di intervalli divergenti. Si può d’altronde affermare che questo ipercromatismo è in relazione con il temperamento drammatico ed espressionista di Schönberg: i grandi intervalli, le ‘dissonanze’ che colpirono talmente i suoi contemporanei, si integrano perfettamente a un contesto intellettuale e letterario che ne rende pieno conto; eppure, musicalmente parlando, non si giustificano certo meno: la nozione di consonanza e di dissonanza, come veniva intesa dalla tradizione classica, è diventata caduca; si conservano nondimeno delle antinomie fra tensione e distensione, ma con altri mezzi e altre funzioni. La tensione verrà, per esempio, dal valore dell’intervallo, dalla qualità di questo intervallo, più o meno ‘anarcoide’, dall’accumulazione più o meno densa di intervalli anarchici, o ancora dalla mescolanza e dal dosaggio di intervalli forti e intervalli deboli, poiché questa nozione di forte e di debole si riallaccia alla complessità variabile dei loro rapporti».
Rispetto ai lavori per pianoforte a cui ci siamo riferiti, l’opera 16 si differenzia per la specifica consistenza che assume la sua destinazione e un organico come quello della grande orchestra sinfonica, usata secondo una serie di procedimenti che ne chiariscono la portata veramente storica, in due diverse direzioni: quella della dinamica ritmica e quella della ricerca timbrica. Ancora Boulez vi riconosce «la preoccupazione nel trattare la grande orchestra quasi come una orchestra da camera ingrandita. Contrariamente alla scrittura debussyana, che tratta l’orchestra ‘acusticamente’, la scrittura di Schönberg è destinata a un insieme di solisti, utilizza i gruppi dell’orchestra mediante grandi insiemi omogenei, e in un certo senso ha la funzione di strumento ampliato». Se aggiungiamo a queste una ulteriore caratteristica, che contraddistingue ciascuno dei cinque pezzi, di essere cioè realizzati in una sorta di concentrazione aforistica, in cui la condensazione dei rilievi formali si unisce a una estrema evidenza di ogni singolo particolare, in se stesso autosufficiente e necessario, e, per converso, legato a una tensione spirituale che colpisce come una improvvisa illuminazione, si avrà tutt’intera la percezione del cammino percorso da Schönberg verso l’adeguamento della forma musicale alla necessità interiore, eminentemente «espressiva», che ne è la sorgente primigenia.
Il primo pezzo (Presentimenti), molto rapido (Sehr rasch), è organizzato secondo un rigoroso procedimento contrappuntistico, in cui le varie sezioni dell’orchestra si alternano con un’ansia dinamica che porta a squarci di laceranti contrapposizioni sonore in un crescendo tutto interiore, culminante in un fortissimo di straordinaria intensità. Anche se il tematismo non è qui ancora abbandonato del tutto, esso non ha più una funzione di guida nello svolgimento del discorso musicale, e si presenta spezzettato, privo di simmetria e di proporzione nel suo continuo negarsi come elemento dotato di una vita autonoma: anzi, esso si identifica con la dinamica degli intervalli, dalla gamma estesissima che parte dal semitono cromatico fino a salti di notevole ampiezza. D’altra parte, la categoria della «asimmetria» è l’asse portante di tutta la composizione: essa non va però intesa come resa incondizionata al caos o all’improvvisazione, bensì come ordine ribaltato e cambiato di segno, secondo uno scavo nelle leggi più intime del materiale sonoro che a sua volta prende l’avvio da una mutata disposizione spirituale di fronte all’esigenza della creazione formalmente organizzata. Ed in effetti tutto nell’opera di Schönberg obbedisce a una logica stringente, seguendo la quale ogni peso esteriore o scoria superflua viene abbandonata e fagocitata nel superiore ideale a cui l’opera, come un tutto e come una parte del tutto, deve servire. Con il secondo pezzo (Cose passate), più moderato e quasi adagio, l’interesse di Schönberg si proietta sulla ricerca timbrica, che nell’andamento lirico e meditativo del movimento ha modo di realizzarsi nei settori degli archi e dei legni, oltre che nella presenza fortemente rilevata della celesta. Ma è soprattutto in Colori, il terzo pezzo in tempo moderato, che l’individuazione timbrica raggiunge il livello più alto di emozione sonora in virtù della conquista di un principio costruttivo nuovo, la Klangfarbenmelodie («melodia di timbri»).
L’uso di questa tecnica nuova, che poi Schönberg avrebbe analizzato particolareggiatamente nel suo Trattato d’armonia (1911), è cosciente non soltanto nella prassi compositiva di questo pezzo, ma anche nelle raccomandazioni al direttore d’orchestra che si trovano in calce alla pagina: «Non è compito del direttore mettere in risalto singole voci che sembrino (tematicamente) importanti, o attenuare funzioni di suoni che appaiano poco equilibrati. Dove la voce ha da risaltare più delle altre è strumentata corrispondentemente e i suoni non devono essere attenuati. È invece suo compito vigilare affinché ogni strumento suoni esattamente secondo la prescritta gradazione di colorito: esattamente (cioè soggettivamente) in modo corrispondente al suo strumento e non (oggettivamente) subordinandosi alla sonorià dell’insieme ». E ancora: «Gli accordi devono mutare con tanta dolcezza, da non far avvertire alcuno stacco quando entrano gli strumenti, di modo che il mutamento risulti solo per effetto del nuovo colore strumentale». La rivoluzionaria novità di Colori, se si pensa all’anno in cui fu scritto, è testimoniata dalla impossibilità di dare una completa traduzione sonora della sua concezione musicale (a questo proposito, si ricordi che Mahler si disse una volta incapace di leggere la partitura), tanto essa si libra verso un ideale sonoro sconosciuto quanto perfetto. Ma un discorso completamente a parte meriterebbe la strumentazione di tutta quanta l’opera 16, in cui Schönberg lavorò a diversi livelli: da quello della cura degli effetti
timbrici, ottenuta con una ricerca che è insieme tecnica ed espressiva (si pensi per esempio all’accordo che chiude il primo pezzo, in cui Schönberg prescrive che i suoni emessi dai tromboni con sordina e dal basso tuba siano «frullati»), alla individualizzazione non soltanto delle diverse sezioni dell’orchestra, ma anche di ogni singolo esecutore, come dimostrano le frequenti suddivisioni di parti che essi hanno nel totale del complesso orchestrale.
Il quarto pezzo (Peripezia), molto rapido (Sehr ranch), è di una brevità epigrammatica, e costituisce, con la sua irruenza inarrestabile e folgorante, un impressionante contraltare, sul versante ritmico anziché timbrico, di quello che lo precede. Infine, il quinto pezzo (Il recitativo obbligato), in tempo mosso, esplica una notevole ricchezza polifonica attraverso un «tessuto melodico rinnovantesi continuamente in una atmosfera di spettrali sonorità» (Rognoni), ed ha funzioni riassuntive, anche se getta un solido ponte verso il futuro della ricerca schönberghiana. Per la prima volta, infatti, viene introdotto l’uso di indicare espressamente con un particolare segno le «voci
principali» (Hauptstimmen), che sono il punto di riferimento necessario per districarsi nel fitto intrico della partitura. Inoltre, la nozione di colore si adatta qui, come dice il titolo, appunto al recitativo, significando che «i diversi periodi di una frase vedranno rinnovarsi la loro strumentazione» (Boulez).
Complessivamente, l’opera 16 è una delle composizioni più importanti di Schönberg e dell’intera produzione musicale del secolo XX; anzi, se questo può servire a spiegare qualcosa, se ne può parlare come di un vero e proprio capolavoro. La sua intrinseca difficoltà, comunque, rimane ancora oggi notevole, ed è tanto maggiore in quanto non si tratta più di un problema di orientamento o di comprensione spicciola, ma di approfondimento che richiede una coscienza analitica e una partecipazione emotiva ambedue intense. Un critico berlinese di indubbia capacità e apertura alla musica cosiddetta moderna scrisse dopo la prima esecuzione dell’opera, avvenuta a Londra il 3 settembre 1912: «Che visioni spaventose suggeriscono questi suoni! Che incubi evocano! E niente, ahimè niente, vi è di gioia e di luce, di quel che fa la vita degna di essere vissuta! Poveri i nostri posteri, se questo cupo e deprimente Schönberg dovesse apparir loro come l’essenza del sentire del nostro tempo!»; ma a queste parole, che non fanno altro che testimoniare la grandezza della coscienza indagatrice di Schönberg, necessaria perché vera, si oppongono i termini in cui il grande musicista viennese intendeva la sua opera: «Vi è un solo modo di rifarsi direttamente al passato, alla tradizione: quello di ricominciare tutto da capo, come se tutto ciò che ci ha preceduto fosse sbagliato; di rimettersi ancora una volta in contatto con l’essenza delle cose, anziché limitarsi a sviluppare la tecnica elaborativa di un materiale preesistente». Un imperativo categorico perseguito con sacrifici incalcolabili, ma attingendo, spesso anche impietosamente, alla verità dell’essenza delle cose.
Michael Gielen / Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Manifestazioni celebrative per il cinquantenario di Ferruccio Busoni, Comune di Empoli, Provincia di Firenze, Associazione “Pro Empoli” 1974