Sergej Prokof’ev – Maddalena, opera in un atto (e quattro scene) op. 13. Esecuzione in forma di concerto.

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Maddalena, l’epifania di un destino

 

Nel catalogo delle opere teatrali di Sergej Prokof’ev Maddalena è la prima a recare un numero, precisamente il 13, ma non è in assoluto il primo tentativo nel suo genere. A precederla sono almeno quattro titoli di lavori che Prokof’ev lasciò tutti incompiuti: Il gigante e Sulle isole deserte, su canovacci propri, Ondina e Un banchetto durante la peste, su libretti ispirati rispettivamente a Fouquè e Puškin. Cronologicamente essi si collocano tra il 1900 e il 1908, e appartengono dunque al periodo dell’infanzia e della primissima giovinezza: si tratta di frammenti abbozzati per pianoforte, con qualche indizio già originale di strumentazione, gli uni destinati a rappresentazioni familiari nella forma improvvisa della commedia dell’arte, gli altri più ambiziosamente tendenti a conquistare gli spazi dell’opera di maggiori dimensioni, elettivamente romantica, coniugando letteratura e musica, tradizione e modernità. Questi lavori occuparono a fondo, e con una certa continuità di riflessione confermata dal gran numero di testimonianze nelle memorie del compositore, la fantasia del musicista: attirata precocemente, e in modo quasi ossessivo, dal teatro.

La vocazione teatrale di Prokof’ev si manifesto subito nell’infanzia, ma dovette attendere a lungo per realizzarsi nelle debite forme e proporzioni; e pur risultando di gran lunga la più caratteristica e personale dela sua vasta produzione, tale da influenzare e rispecchiarsi anche nei componimenti propriamente strumentali, non ebbe mai, almeno nel corso della sua vita, successi e riconoscimenti pari alla sua importanza. Non c’è opera nel suo catalogo che non abbia avuto difficoltà ad affermarsi, anche semplicemente a essere eseguita o pubblicata, e che non sia segnata da un lungo, paziente lavoro di revisione e perfezionamento, sovente di ardua ricostruzione; ciò vale per Il giocatore e per L’amore delle tre melarance, e ancor più per L’angelo di fuoco e Guerra e pace, la cui fortuna, se di fortuna si trattò, cominciò appena dopo la morte dell’autore. Casì ancora più speciali sono costituiti dalle opere dell’ultimo periodo, come Semën Kotko, Matrimonio al convento e La storia di un vero uomo, tutte penalizzate dalle condizioni storiche – l’epoca di guerra e del secondo dopoguerra – in cui videro la luce: il loro recupero è davvero acquisizione recente, e non ancora completa. L’affermazione secondo la quale è nel teatro che si riconosce la vocazione più autentica di Prokof’ev, con una naturalezza e una freschezza d’invenzione quasi innate e spontanee, può sembrare in contraddizione con le vicende che ne accompagnarono le sorti, e con la stessa acribia da lui manifestata nel rielaborare e revisionare i suoi testi. Gran parte di questa situazione può essere spiegata con gli sfasamenti che si produssero nel corso della sua esistenza fra momenti creativi e condizioni oggettive per la realizzazione dei suoi progetti: nel caso di opere teatrali più che mai dipendenti da complessi motivi di ordine anche pratico, come per esempio la mancanza di teatri disposti ad assecondarne le richieste o a correre il rischio di presentare opere di non facile e sicura accoglienza. A complicare ancor più le cose concorsero inevitabilmente i rapporti contrastati che Prokof’ev intrattenne con la sua patria, dove erano le sue radici, e per converso la stessa immagine di esecutore e di compositore d’avanguardia che circolava tra molti sospetti in Occidente. Sull’altro punto, è necessario precisare che nonostante la vena creativa sgorgasse proprio nel teatro copiosa e in apparenza individualmente definita Prokof’ev era un perfezionista: scrivere una partitura per il teatro significava per lui trovare i mezzi più adatti a realizzare concretamente sul piano drammaturgico e strumentale tutte le idee che la composizione vera e propria presentava allo stadio di inesauribili potenzialità; come se il passaggio dall’invenzione alla realizzazione implicasse più che mai nel teatro una lunga fase di studio e di decantazione.

Già negli abbozzi infantili la sproporzione fra ambizioni e attuazioni balza agli occhi con chiarezza. Il mondo del teatro appare a Prokof’ev come un caleidoscopio di vertiginose combinazioni, dove la magia, l’illusione, il sogno e la fantasia si tendono la mano per abbracciare orizzonti sconfinati: popolati di immagini, di ritmi, di suoni, di tratti umoristici, grotteschi, fiabeschi, lirici, tragici senza alcuna preventiva autodisciplina. Solo dopo che i mattoni dell’edificio si sono accumulati in figure musicali e in spunti drammatici, Prokof’ev inizia la costruzione vera e propria, pronto ad abbandonarla se nuove idee e nuovi soggetti accendono il suo estro e lo indirizzano verso nuove mete. Niente però viene perduto in questo sovrapporsi di pro-getti compositivi: ognuno anzi segna una tappa decisiva nella conquista parziale delle diverse forme del teatro. E l’esecuzione è solo il punto di arrivo che può decidere o meno della realizzazione, ma non interrompe il processo di maturazione e di chiarificazione. Perfino la scelta dei soggetti è interscambiabile: giacché Prokof’ev nel suo eclettismo era in grado di affrontare ogni tipo di argomento, e di trovare in tutti ragioni vitali di espressione.

Maddalena, opera in un atto su libretto proprio da M. Lieven (op. 13, 1911), è più di un tentativo giovanile, e comunque non è già più un’opera puramente utopica come le precedenti. Quando la scrisse Prokof’ev aveva vent’anni, e poteva contare su numerose esperienze compositive di un certo peso al di fuori del teatro. Il fatto che a quest’opera nei suoi ricordi autobiografici vengano dedicate solo poche righe, a differenza di quanto accade per i precedenti esperimenti assai più bisognosi di illustrazioni e di commenti, può stare a significare che egli la considerasse un risultato artistica-mente definito, e non solo un episodio della sua preistoria di compositore. «Nell’estate 1911» – scrive dunque Prokof’ev «composi un’opera in un atto, Maddalena, da una storia omonima della baronessa Lieven. Speravo che potesse essere eseguita in uno dei concerti del Conservatorio che frequentavo in qualità di studente della classe di direzione d’orchestra e nei quali ogni tanto venivano inclusi, accanto ai pezzi dei classici, anche lavori degli studenti del Conservatorio. Ma le mie speranze non dovevano avverarsi. La baronessa Lieven si presentava come una giovane dama della buona società, le cui maniere di comportamento erano più affascinanti del suo talento drammatico. Ma Maddalena, ambientata nella Venezia del XV secolo, portava sulla scena conflitti, amore, tradimento e assassinio, e ciò significava che al compositore erano offerti problemi nuovi, apparentati con quelli della anemica Ondina. Composi la musica alla svelta, ma strumentai soltanto una delle quattro scene. Nel 1913 rielaborai Maddalena, senza tuttavia scrivere la partitura d’orchestra». A integrazione di questo passo si può aggiungere che la baronessa Lieven – che in realtà come scrittrice si firmava «Barone Lieven», pseudonimo letterario di Magda Gustavovna Lieven-Orlova – aveva pubblicato il racconto in versi sciolti Maddalena privatamente a San Pietroburgo nel 1905, ispirandosi per la sua fosca vicenda ambientata nella Venezia del XV secolo allo spirito melodrammatico di una vecchia novella italiana: la fonte e il modello sono però quelli della Tragedia fiorentina di Oscar Wilde, poi musicata nel 1916 da Alexander von Zemlinsky. E proprio questa miscela decadente di amore e morte, di vago e di misterioso, con i suoi elementi intrisi di romanticismo funebre e di voluttuosa dissoluzione – del tutto conforme alla moda rinascimentale in voga nei circoli letterari degli intellettuali di San Pietroburgo a cui la baronessa apparteneva – aveva attratto il compositore: introducendolo per la prima volta, ben oltre le anemie di Ondina, in quel clima di passione, disperazione, ossessione e furore cieco che avrebbe poi trovato più compiuta espressione nelle sue opere future, già a partire dalla successiva, Il giocatore.

Il fatto che Prokof’ev si arrestasse con la strumentazione alla prima delle quattro scene di cui è composto l’atto unico (in partitura è annotata la data dell’8 giugno 1912) va collegato all’ovvia constatazione che l’opera risultava troppo difficile per una rappresentazione studentesca. Ma appena si presentò l’occasione, nell’estate 1913, Prokof’ev la riprese in mano e prima di passare alla strumentazione rielaborò gran parte delle ultime tre scene (questa nuova versione, finita nell’ottobre 1913, fu dedicata all’amico e condiscepolo Nikolaj Mjaskovskij). A incoraggiarlo era stata un’offerta di esecuzione da parte del Teatro Libero di Mosca diretto da Mardzanov; ma siccome questa rappresentazione non poté aver luogo per la chiusura del teatro, la partitura rimase anche questa volta incompiuta. Né a terminarla valsero altre occasioni esterne, che periodicamente si prospettarono: nel 1916 fu Prokof’ev stesso a declinare un invito da parte del Teatro Zimin di Mosca perché a quel tempo era completamente occupato dalla composizione del Giocatore. Ma successivamente, il 25 marzo 1924, scrisse a Mjaskovskij da Parigi: «Sono molto lusingato dall’attenzione per la vecchia Maddalena, solamente non ricordo bene se il suo stato sia decoroso. Temo che le parti vocali risultino molto aspre. Vi sforzerete di metterla per uno o due pianoforti? Se ciò è realizzabile, scrivete come procede il tutto. In seguito la rileggerò e la orchestrerò, affinché non occupi un numero d’opera per niente». Nonostante questa e altre buone intenzioni, l’orchestrazione della Maddalena non fu mai terminata: ciò che dell’opera rimaneva fu depositato, forse già nel ’27, nell’archivio parigino delle Edizioni Musicali Russe di Koussevitzky. Nel 1960 il manoscritto fu trasferito nel fondo della Boosey & Hawkes di Londra, che aveva rilevata l’intera collezione già nel 1947. Solo nel 1979 la BBC ne dette la prima esecuzione assoluta con la orchestrazione completata da Edward Downes. Questa si basa non soltanto sulle parti strumentate dall’autore e sulle indicazioni da lui lasciate nello spartito ma anche sullo stile orchestrale proprio di quel periodo, e specialmente sulla prima versione (1915-17) del Giocatore, la cui partitura, per grande orchestra, prevede un organico pressoché identico a quello.

 

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In una lettera del 9 ottobre 1911 a Derzanovskij, direttore della rivista «Muzyka», il dedicatario dell’opera Mjaskovskij, dopo averne lodato «la freschezza e l’oscura potenza della scrittura armonica, del tutto inconsueta e talvolta sorprendente, la forza vulcanica del temperamento e l’intensità dello stile», aggiungeva che Maddalena «richiamava alla mente le opere di Richard Strauss, ma senza le volgarità di Strauss». Giudizio certamente esagerato, ma altrettanto indicativo di un clima che Maddalena condivide, e non solo per la comune filiazione dal mondo wildiano e da quello di Aubrey Beardsley, ideale illustratore di esso, con la Salome di Strauss. Un atto unico, anzitutto, nel quale un tenebroso intreccio di conflitti – amore, tradimento, assassinio, aveva scritto Prokof’ev – è potenziato dalla musica con l’accumulo di nuove tensioni espressive e drammatiche. Non c’è il mito in Prokof’ev, ma la stessa nervosa, inquieta ossessione che sfociando nella catastrofe si concentra e si trasfigura nella sospensione finale, dopo aver surriscaldato il linguaggio di incandescenti fiammate cromatiche. La tragedia si consuma in una progressione di presasgi e di turbamenti, incalzante e tanto più tremenda in quanto basata su sfumature, incomprensioni e inadeguatezze: del tipo di quelle che l’anima russa sembra aver coltivato con una pertinace caparbietà, sadica e masochistica insieme. L’elemento che più colpisce nell’idioma giovanile di Prokof’ev è il ritmo impiantato nella instabile struttura armonica: un ritmo incisivo e tagliente, che percuote le fibre della musica come un’esplosione dvastante e nello stesso tempo è capace di rinsaldare i nessi più sottili fra le parti. A questo coinvolgimento espressivo dominante si oppone una sorta di distacco, di contemplazione dall’alto, fatta di eleganza e di sicuro dominio della materia, che assume talvolta i tratti dell’ironia e della sospensione di giudizio. Ed è dall’oscillazione fra questi due stati d’animo che l’opera riceve la sua connotazione e la sua energia drammatica.

Più che gli eventi, qui contano infatti gli stati d’animo, calati nell’atmosfera suggestiva, quasi liberty, che li avvolge. L’ambientazione veneziana suggerisce al compositore un che di esotico e di popolaresco insieme, nei ritmi di barcarola e nel canto dei gondolieri che significativamente, a dipingere subito un paesaggio, risuona all’inizio fuori scena. Ma è anche una Venezia già marcescente, crepuscolare e, più che rinascimentale, fin de siècle: quasi manniana, se non oleograficamente viscontiana. La storia è, se si vuole, un condensato di banalità operistiche e melodrammatiche: un triangolo amoroso nel quale sono implicati l’ardente pittore Gennaro, la sua giovane moglie Maddalena e un enigmatico alchimista, Stenio, amico del pittore e amante di Maddalena. La scoperta inattesa dell’infedeltà di Maddalena provoca un duello nel quale i due rivali, istigati dalla donna, si uccidono a vicenda: Maddalena, completamente indifferente alle conseguenze, è felice di riconquistare la sua libertà. «Chi di voi due amava Maddalena? Forse nessuno dei due. O quieta e lunga notte! Verità! Verità! C’è stata una lite! E il malvagio ha ucciso Gennaro!». Sono queste le sue ultime parole, di un lirismo macabro, eppure quasi distratto. Ma banale non è affatto il sostrato dell’opera, la penetrazione dolorosa e insieme acida dei sentimenti, dei meccanismi psicologici che tormentano e macerano i comportamenti degli uomini, nelle loro ossessioni come la gelosia, il desiderio, la paura dell’abbandono, la sfida dell’ignoto: abbiamo già qui il modello dell’enigma imperscrutabile, incarnato dalla donna, che ritroveremo nell’Angelo di fuoco.

L’aspetto più sorprendente dell’opera è costituito dalla sua concisione formale. Tanto è eccessiva, selvaggia e debordante la sostanza della storia quanto controllata, classicamente proporzionata ed equilibrata la riduzione del soggetto in vista del piano compositivo, dell’articolazione musicale. Ognuna delle quattro scene ha una sua dinamica compiuta: di tipo statico e contemplativo la prima e l’ultima, più tese e teatralmente movimentate quelle centrali. All’inizio la presentazione di Maddalena avviene dopo una tranquilla introduzione orchestrale dominata da due elementi che si sovrapporranno sovente nel tessuto orchestrale: un sottofondo di accompagnamento, fragile e immobile, di quartine di crome, quasi tremolo misurato, e una melodia cromatica discendente, simbolo di un’ansia acuta e indefinibile.

L’atmosfera crepuscolare, sullo sfondo di una Venezia magicamente addormentata che s’intravede appena da una grande finestra aperta, da cui giungono i suoni di una sera sonnolenta e soffocante, si riassume nel canto di Maddalena, quasi pervaso da un senso di passiva fatalità. Il lirismo di cui è imbevuto ha fin dal principio un tono di funereo abbandono, languido e sensuale ma votato alla rinuncia, marcato dalla stanchezza e dalla lontananza dalla realtà, come se i suoi pensieri e le sue emozioni si perdessero in un altro mondo.

La seconda scena è un appassionato duetto d’amore tra marito e moglie, in apparenza gioioso e giovanilmente esuberante, ma spesso percorso da brividi e spasimi che lasciano presagire esiti funesti: si capisce qui che cosa Prokof’ev intendesse quando parlava di asprezze nella condotta vocale. Maddalena appare il prototipo della donna sfuggente e inafferrabile, oppressa dal contrasto fra bene e male, da cui la sua anima è dominata, e incapace di definire il suo amore, o meglio di ridurlo a un’unica espressione di sé; non per nulla la sua scelta esclude da ultimo marito e amante, al quale pure da tre mesi si è morbosamente e misteriosamente concessa, per riconsegnarsi alla solitudine e alla estraneità che aveva sempre sentito nell’intimo come la rivelazione della sua vera natura. Le distese aperture del suo canto, con ampi intervalli e frasi melodiche sinuose, e la caduta dura, repentina in un raccoglimento severo, ora sfinito ora inattaccabile, ne sono la manifestazione musicale; sogno più che realtà, pena più che gioia.

Nettamente delineati risultano invece i due personaggi maschili, differenziati dal timbro (tenore e basso), dal carattere del canto, l’uno stentoreo e aggressivo, l’altro cupo e tortuoso, e perfino dall’accompagnamento strumentale (legni e trombe con sordina contro tuba bassa e controfagotto).

Nella terza scena il loro dialogo ha momenti di alta suspense, tra dubbi e incertezze che verosimilmente sarebbe toccato all’orchestra di sviluppare e definire con icastica precisione. Il riconoscimento dell’amante misteriosa è tutto giocato su un duplice paradosso: la confidenza tra i due amici li spinge a confessarsi pene e tormenti, a prendere l’uno le parti dell’altro, a raccontare e a comprendere. Così facendo, l’abisso si spalanca e la verità si traduce in insostenibile presa di coscienza del tradimento, di ciascuno verso l’altro. E’ il punto di massima tensione dell’opera, risolto con un effetto teatrale straordinario nella sua semplicità: un colpo d’aria dalla finestra aperta sposta la tenda dietro alla quale si nasconde Maddalena in ascolto e ne rivela non solo la presenza ma anche l’identità. Scabra e lapidaria la conclusione: Maddalena, anziché giustificarsi, spinge i due uomini all’omicidio, con demoniaca lucidità, dopo essersi fuggevolmente esposta alla loro vendetta, ma solo per aumentarne il furore distruttivo. Ciò che segue non è un duello vero e proprio, di quelli che riempivano immancabilmente le rappresentazioni infantili di Prokof’ev, ma una scientifica soppressione – rimozione o superamento dell’enfasi melodrammatica in favore di una ruvida soluzione funzionale al dramma. Tutto accade istantaneamente; e ciò che conta è il senso di liberazione che ne ricava la protagonista, finalmente riappropriatasi della sua indipendenza e della sua autonomia dopo avere per l’ultima volta invocato con sarcastica ironia il nome di Gennaro. La peripezia del dramma scioglie i nodi di un conflitto che ora si comprende essere tutto nell’intimo di Maddalena, donna fatale di un destino che non può essere mutato. Ciò dà alla conclusione dell’opera un che di conciliante, di trasognato e di estatico, che contrasta singolarmente con la materia decadente, erotico-funebre del soggetto. Non una apoteosi del male, come per esempio nella Salome, o una voluttà del sangue, ma una oscura, tragica ambiguità che si dissolve nella conquista di una superiore consapevolezza, compiendo una sorta di catarsi. E ben a ragione Maddalena può dire, prima di rientrare nel grembo della notte, che la malvagità stava altrove, e che la contesa di cui colei era la posta non la riguardava; ora, forse, le sarà possibile affrontare la vita con serenità, silenziosamente in attesa della morte.


Evgenij Kolobov / Orchestra e Coro del Teatro Municipale di Mosca “Nuova Opera”
XLVI Sagra Musicale Umbra 1991

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