Bach, Mozart, Busoni e la triade perfetta.
In una lettera degli ultimi anni, successiva al suo definitivo ritorno a Berlino e indirizzata da Londra il 10 febbraio 1922 all’allievo prediletto Egon Petri, Ferruccio Busoni scriveva:
Volevo soltanto ricordarti di portare con te i cinque pezzi per il recital a due pianoforti, già annunciato; e inoltre pregarti di mettere in valigia anche il materiale di Romanza e Scherzoso [seconda parte, aggiunta al giovanile Konzertstück, del Concertino per pianoforte e orchestra, che stava per essere pubblicato]. Per eventuali occasioni che si potrebbero presentare nel frattempo, Gerda [la moglie di Busoni] suggerisce anche la Fantasia indiana; e non basta: sarebbe desiderabile che portassi con te diversi esemplari della Toccata, degli Albumblätter, della Fantasia sulla Carmen, in genere dei miei lavori più recenti. Non si trovano nè a Londra nè a Parigi! (Fa parte del mio destino di compositore, oltre al resto, che Br. & H. [Breitopf & Härtel, gli editori di Busoni] si ostinino apparenmente a nascondere del tutto i miei lavori!). E infine le mie pantofole di pelle! Mi mancano molto.
Quanto più sale la mia fama di pianista (e sembra che salga ancora), tanto più ingiustamente vengo giudicato come compositore. Tentando di aiutarmi, lavoro contro i miei interessi. Dovrei essere una specie di ermafrodita, in quel senso eroico-fantastico in cui lo presenta Voltaire ne “”La Pulzella””: uomo di giorno, donna di notte, e tutt’e e con lo stesso impeto… Sono davvero qualcosa del genere, solo che non si crede all’altro mio lato (1).
Il recital a cui fa riferimento Busoni è quello che egli tenne insieme con Egon Petri al Wigmore Hall di Londra 18 febbraio 1922 con un programma comprendente tutta la musica per due pianoforti di Busoni stesso: e cioè la Fantasie für eine Orgelwalze (elaborazione della Fantasia per un organo meccanico in fa minore K. 608 di Mozart), l’Improvvisazione sul Corale di Bach “”Wie wohl ist mir, o Freund der Seele””; il Duettino concertante ancora da Mozart e la versione per due pianoforti della Fantasia contrappuntistica. Questo programma, che fu ripetuto in concerto a Parigi 1’8 marzo, era stato espressamente concepito da Busoni per essere eseguito in duo con Petri, allo scopo di favorire la carriera dell’allievo con l’autorità del Maestro (Petri stava attraversando uno dei suoi ricorrenti momenti di crisi: l’incitamento a portare con sè anche altre musiche per eventuali recital solistici va inteso nello stesso senso) e di presentare con una scelta organica di pezzi un quadro significativo della più recente attività compositiva e dello stile pianistico di Busoni trascrittore e ricreatore. Tutte le opere menzionate appartengono infatti all’ultima stagione creativa, quella che riemerge dal profondo turbamento della guerra vissuta da straniero tra due patrie (l’Italia e la Germania) guardando avanti verso nuovi orizzonti della musica e dello strumento con il quale Busoni era stato da sempre identificato, il pianoforte.
Se la fama del pianista resisteva e anzi sembrava salire ancora, dopo la parentesi della guerra, su scala europea (dall’America Busoni aveva già avuto tutto; anche se quel tutto per lui equivaleva a un nulla), il giudizio sul compositore rimaneva incerto e, almeno stando alle parole di Busoni, ingiusto: il quale Busoni nella lettera citata ribadiva, ripetendo un ritornello già più volte apparso nel corso della sua vita artistica, che “”tentando di aiutarsi”” (suonando cioè egli stesso le sue proprie opere) “”lavorava contro i suoi interessi”” (il formidabile pianista da tutti ammirato facendo comunque aggio sulle doti del compositore; e non certo in senso positivo). L’immagine dell’ermafrodita di Voltaire, e sia pure in una visione eroico-fantastica, è sotto questo aspetto significativa, e anche un poco inquietante nella identificazione del pianista con l’uomo di giorno e del compositore con la donna di notte: capace però di agire con lo stesso impeto e desiderosa di essere creduta alla stessa altezza del diurno dominatore di folle (alcuni vi troverebbero perfino tracce di una latente omosessualità, probabilmente).
I1 1922 segnò comunque l’apice della nuova giovinezza del pianismo di Busoni, un apice bruscamente troncato dalla malattia che in breve tempo ne prosciugò le forze e lo condusse alla morte. Sul piano creativo questo epilogo luminoso, assai poco notturno, si tradusse in opere sorrette e ispirate dal principio della “”nuova classicità””, di cui Busoni aveva dato una definizione paradigmatica nel 1921:
“”Per «nuova classicità» intendo il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle”” (2). Attratti in quest’orbita e scandagliati in profondità, attivamente, il passato e la tradizione dovevano essere indirizzati alla conquista del nuovo in una rivoluzione permanente da condurre nel seno stesso dei mezzi espressivi; ma nel nome dello stile, del gusto e della chiarezza formale: “”La mia idea (o piuttosto sensazione, necessità personale più che stabile principio) é che nuova classicità significhi compiutezza in duplice senso: come perfezione e come compimento. Conclusione di tentativi precedenti”” (3).
È nel genere della trascrizione che Busoni vede realizzata questa idea. Tanto da riconoscere come priva di senso la distinzione fra creazione originale e trascrizione e richiedere spazi più ampi, se non illimitati, anche per le nozioni di esecuzione e di interpretazione. Fu Johann Sebastian Bach a rivelargli questa verità fondamentale: nell’identità dello spirito, che oltrepassa i confini di passato, presente e futuro, la musica, qualsiasi musica, non è attingibile nella sua sostanza se non attraverso una ricreazione fatta di immedesimazione e distacco. Ogni creazione musicale è perciò ri-creazione, è essa stessa “”trascrizione””: come la notazione “”è già trascrizione di un’idea astratta””, così anche l’esecuzione di un lavoro è una trascrizione, “”e anche questa non potrà mai far sì che l’originale non esista – per quanto libera ne sia l’esecuzione. Perché l’opera d’arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo”” (4).
Busoni dette forma a questi concetti nel 1910, con lo scopo preciso di legittimare anche teoricamente il valore della trascrizione, delle sue trascrizioni. Ma per quanto concerne l’interpretazione, essi sono fissati già nell’Abbozzo di una nuova estetica della musica, che è di tre anni prima:
L’esecuzione della musica proviene da quelle libere altezze dalle quali la musica stessa è discesa.
Quando essa corre il rischio di divenire terrena, all’esecuzione spetta di risollevarla, aiutandola a ritrovare il suo originale «librarsi».
La notazione, la scrittura di pezzi musicali, è in primo luogo un ingegnoso espediente per fissare un’improvvisazione, sì da poterla far rivivere in un secondo tempo. Ma tra quella e questa corre lo stesso rapporto che c’è tra il ritratto e il modello vivo.
L’esecuzione deve sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento.
Invece i legislatori pretendono che l’esecutore riproduca la rigidità dei segni e considerano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si attiene ai segni.
Quello che il compositore necessariamente perde della sua ispirazione attraverso i segni, l’esecutore deve ricrearlo attraverso la sua propria intuizione (5).
Nel capolavoro pianistico di Busoni, la Fantasia contrappuntistica, uno dei vertici del pianismo novecentesco, si attua la saldatura fra questi concetti nel dominio dell’arte; anzi, nel cammino percorso da quest’opera tra la prima versione per pianoforte solo del 1910 (l’anno del saggio Valore della trascrizione) e l’ultima per due pianoforti del 1922, si può scorgere e ripercorrere per intero il tratto che collega e chiude in unità il principio dell’affrancamento della trascrizione come genere alla definizione della “”nuova classicità”” come perfezione e come compimento, “”conclusione di tentativi precedenti””. In duplice senso: nato in origine come tentativo di completare la grande fuga finale a più soggetti (“”Contrapunctus XIX””) dell’Arte della fuga, che Bach aveva lasciata incompiuta alla sua morte, questo lavoro crebbe nelle mani di Busoni fino a diventare, attraverso tutta una serie di modifiche e di sviluppi, l’espressione più compiuta della libera immedesimazione nella musica di Bach e insieme una creazione del tutto originale e indipendente.
“”L’apprezzamento dell’antica e tuttora superiore grandezza è un culto nell’esercizio del quale nessuno dovrebbe temere di rimetterci: a meno di non voler lasciarsi imporre il marchio della boria vacua e dell’ignoranza, e ostentare un tale insulto in impudente stoltezza””: così, nella sua Autorecensione (6), Busoni commentava la decisione di voler dare un completamento all’Arte della fuga di Bach. I problemi di fronte ai quali si trovò all’inizio e il modo seguito per risolverli sono esposti con grande chiarezza in un passo di questo stesso scritto:
Il frammento di Bach è basato su quattro fughe, delle quali due sono compiute e la terza incominciata. Il frammento si interrompe là dove i tre temi si incontrano per la prima volta. E ciò cha mancava era anzitutto lo sviluppo di questi tre temi.
Una fuga a tre soggetti è certo un compito che mette paura.
Ma i tre soggetti erano dati, la loro sovrapposizione precisata e i temi ricchi di possibili sviluppi contrappuntistici.
Invece la quarta fuga doveva esser creata completamente. Per il tema ancora inespresso (il quarto) non era dato alcun punto d’appoggio, se non l’assoluto presupposto che questo quarto tema a un dato momento, doveva presentarsi insieme con gli altri tre, dunque doveva adattarsi ad essi. Poiché il tema principale dell’Arte della fuga (il “”frammento”” è la conclusione di quest’opera) non si trovava fra i tre già dati, era facile indovinare che questo tema principale doveva essere aggiunto – come quarto – e così chiudere il ciclo di tutta l’opera.
Ma Busoni non si fermò qui.
Con intervalli caratteristici dello stile bachiano costruii, su questi quattro, ancora un quinto tema (di carattere evidentemente contrastante) così che la mia nave solcò le acque perigliose con cinque vele tese.
Al numero già elevato di combinazioni delle parti consentito dal contrappunto quintuplo e dagli artifici canonici (strette, inversioni, aumentazioni e diminuzioni del tema, trasposizioni e così via), Busoni aggiunse di suo l’alterazione degli intervalli, quella del ritmo e la variazione del tema. Alla grande Fuga in un primo tempo aveva pensato di premettere una Fantasia a mo’ di Preludio; ma poco dopo aver iniziato il lavoro cambiò idea e dette il carattere di fantasia a tutta la fuga. Ciò non deve meravigliare. Fuga non fu mai per Busoni sinonimo di forma accademica, rigorosa e schematica, in antitesi alla forma per eccellenza libera della Fantasia. Anzi, proprio la fuga di Bach, con le sue irregolarità e le sue “”eccezioni””, lasciava margini alla più ampia libertà e leggittimava in nome della coerenza stilistica e del risultato artistico la ricerca di una sfumatura personale.
La prima versione della Fantasia contrappuntistica, limitata alla “”Fuga””, fu terminata a New York tra il febbraio e il marzo 1910. Ma già in aprile Busoni era intento a rielaborare il “”Preludio Corale Meine Seele bangt und hofft zu Dir“”, fondamento della terza Elegia (una serie di pezzi per pianoforte composta nel 1907 e intitolata appunto Elegie), per porlo “”a guisa di Introduzione“” e richiamarlo poi alla memoria prima della Stretta finale della Fuga. Esso apre effettivamente, con pochi ritocchi, la versione definitiva (meglio nota come “”Edizione maggiore””) della Fantasia contrappuntistica per pianoforte solo (“”compilata per il pianoforte””, intesta Busoni: vedremo in seguito l’importanza di questa precisazione), che fu pubblicata con la dedica a Wilhelm Middelschulte “”maestro del contrappunto”” da Breitkopf & Härtel nel giugno 1910.
Solo che qui appare, svelando il nesso originario con Bach, sotto un nuovo titolo: «Preludio al Corale Allein Gott in der Höh ‘sei Ehr’» (Sia gloria solo a Dio nell’alto dei cieli). A questa vasta Introduzione fanno seguito, senza soluzione di continuità, le tre grandi Fughe sui soggetti dati di Bach; poi un Intermezzo basato sul motivo simbolico di quattro note del nome B-A-C-H (si bemolle, la, do, si naturale), quasi un momento di distensione, per cui Busoni prescrive un tempo “”più tranquillo”” e un’esecuzione “”mistica””, poco dopo “”visionaria””. Il breve ma denso Intermezzo prelude alla sezione centrale dell’opera, costituita da tre Variazioni sui temi delle tre Fughe elaborati contrappuntisticamente. Segue poi una Cadenza di estrema concentrazione espressiva e fantastica, che sfocia nella quarta fuga, costruita sul tema principale dell’Arte della fuga e su una nuova – la quinta – figura cromatica: la quale, dapprima controsoggetto, diviene in seguito il centro propulsivo di questa straordinaria sezione, la più possente per linguaggio e invenzione. Tra questa Fuga e la Stretta finale riappare nella parte acuta della tastiera (“”sostenuto, dolcissimo””) il Corale armonizzato con pure triadi perfette, mentre nell’estremo registro basso un ostinato ripete ossessivamente, quasi sfondo di colore, il motivo B-A-C-H e al centro, inframezzata da lunghe pause, una successione di tre accordi su ritmo giambico punteggia (“”come un vago riflesso””) la distesa melodia del Corale. L’effetto complessivo è miracoloso nella sua semplicità e rappresenta un esempio luminoso di quel magistero tecnico ed espressivo caratteristico dello stile pianistico maturo di Busoni. Nella Stretta che chiude l’opera, infine, il materiale di tutta la composizione si addensa in un edificio sonoro massiccio, per dissolversi a poco a poco, dopo diafane successioni di accordi modalmente e tonalmente indefiniti, su un’unica nota, re, in ottave sovrapposte (e re, come si sa, è il tono fondamentale dell’Arte della fuga di Bach).
L’audacia della costruzione architettonica, la ricchezza e insieme la misura della realizzazione, la maestria suprema della scrittura pianistica, fanno della Fantasia contrappuntistica un monumento grandioso, se non unico, nel suo genere. Nella citata Autorecensione, Busoni scriveva: “”Ho creduto di lavorare nello spirito di Bach, mettendo al servizio del suo piano le estreme possibilità dell’arte odierna quale organica continuazione dell’arte sua; come le estreme possibilità dell’arte del suo tempo erano divenute mezzo di espressione per lui stesso””. Questa affermazione illustra il piano programmatico dell’opera anticipando la poetica della “”nuova classicità””. Se il rinnovamento del senso armonico per mezzo di una libera polifonia ne è la cifra stilistica, l’idea che muove la forma e la avvolge nel suo procedere nella sfera del sentimento è l’aspirazione all’opera d’arte compiuta e perfetta; musica in sè per sè, senz’altri aggettivi. Busoni aveva scelto il pianoforte perché quello era il mezzo a lui più congeniale; ma la Fantasia contrappuntistica rimaneva soltanto musica, un’idea realizzata e trascritta sulla carta: “”La Fantasia contrappuntistica non è pensata per pianoforte, nè per organo, nè per orchestra. E’ musica. I mezzi sonori che comunicano questa musica all’ascoltatore sono di secondaria importanza””.
In realtà, senza rinnegare questo principio, Busoni cercò a lungo la forma migliore e più compiuta per comunicare questa musica. Nel 1912 pubblicò una terza versione, ridotta, della Fantasia contrappuntistica (nota come “”Edizione minore””) con scopi essenzialmente didattici: inserita poi nel quarto volume della Edizione Bach-Busoni, prima della “”versione maggiore””, reca il titolo di “”Preludio al Corale Allein Gott in der Höh’sei Ehr’ e fuga su un frammento di Bach””, e contiene, nella Introduzione, tre nuove Variazioni sullo stesso Corale in sostituzione del Preludio, e la sola grande Fuga a quattro soggetti. A questa seguì, ben dieci anni dopo, ossia nel 1922, una quarta e ultima versione di proporzioni veramente monumentali, per due pianoforti: in questa versione il “”Preludio al Corale”” originario e le Variazioni sullo stesso Corale sono fusi insieme in una vastissima sezione introduttiva suddivisa in tre parti (“”Introduzione””, “”Corale e Variazioni””, “”Transizione””); dopo la quale si dipanano, ulteriormente modificate e adattate alla nuova veste, le tre Fughe, l’Intermezzo, le tre Variazioni (qui col titolo latino di “”Variatio I, II, III””), la Fuga IV, la ripresa del Corale e la Stretta. Il titolo completo ne riassume la straordinaria complessità strutturale: Fantasia contrappuntistica. Variazioni sul Corale “”Ehre sei Gott in der Höhe””, seguite da una fuga quadrupla su un frammento di Bach, per due pianoforti.
L’elevato magistero tecnico che Busoni aveva sfoggiato nella costruzione architettonica dell’opera, seguendo leggi di equilibrio e di sviluppo degli elementi compositivi dati, la padronanza assoluta del linguaggio contrappuntistico, le nuove acquisizioni in fatto di armonia, di melodia e di dinamica formale: tutto questo era stato messo al servizio della più ampia libertà di espressione, nel segno di una “”Fantasia”” d’ispirazione bachiana ma di stile moderno, personale. Nella versione per due pianoforti tali caratteri acquistano una dimensione polifonica più esauriente e piena, realizzando con l’affrancamento della materia dal mezzo strumentale quell’astratta purezza che secondo Busoni doveva essere uno dei segni distintivi della composizione. Non solo perché è l’ultima questa versione ci appare come la più organica e completa. Annullando l’alto peso specifico strumentale delle precedenti versioni, distendendo la materia su una superficie più vasta, essa supera l’ambito della musica per pianoforte (“”compilata”” per il pianoforte, non si dimentichi) e risolve asprezze e tensioni prima ancora condizionate, se non altro, dalle enormi difficoltà tecniche dell’esecuzione: l’idea di una musica assoluta, spirituale e trascendente, che è l’anima di questo capolavoro, ci viene così rivelata e comunicata senza limitazioni, come una pagina aperta e dispiegata in tutta la sua ampiezza.
Alla musica di Bach si richiama anche l’Improvvisazione sul Corale “”Wie Wohl ist mir, o Freund der Seele“”, composta nel 1916.
Busoni aveva già utilizzato questo Corale per una serie di Variazioni che concludono la Seconda Sonata in mi minore op. 36a per violino e pianoforte: lavoro degli anni giovanili (1898-99) ma importante, quasi di svolta, tanto che l’autore stesso lo definì il suo opus 1. Il fatto che Busoni vi ritornasse dopo molti anni per estrarne il contenuto di una composizione “”quasi completamente originale”” ha una duplice spiegazione. Busoni riconosceva in quell’approdo bachiano, così come si presenta nella Sonata, un punto di arrivo, il risultato della depurazione della componente tardo-romantica e soprattutto brahmsiana a cui, come artista del suo tempo, aveva contingentemente attinto nelle opere precedenti; ma nello stesso tempo, a posteriori, dopo tanti lavori ispirati da Bach (e fra questi la Fantasia contrappuntistica, appunto), non era soddisfatto della elaborazione a cui era stato sottoposto, in quel contesto, il Corale stesso. Rispetto alle vaste ma un po’ eterogenee esplorazioni, assai ricche e complesse soprattutto sotto il profilo armonico, delle Variazioni, l’Improvvisazione mostra un più stretto controllo sul materiale compositivo e una scrittura più essenziale: per esempio nell’equilibrio tra melodia e polifonia, armonia e contrappunto. Anche qui, nonostante l’allargamento degli orizzonti espressivi, Busoni sembra aver proceduto nel senso della chiarezza e della coerenza.
Accanto a Bach, Mozart fu un punto di riferimento costante di tutta la vita artistica di Busoni. E proprio negli ultimi anni, prima a Zurigo e poi a Berlino, Busoni tornò ad accostarsi anche come esecutore all’opera di colui che gli appariva “”il numero finito e perfetto, la somma tratta, una conclusione, non un principio”” (7). Nel 1921, a Berlino, suonò in due serate sei Concerti per pianoforte e orchestra, praticamente tutti i maggiori di Mozart. Per nove di essi (per il K. 466 e il K. 488 addirittura in due versioni) scrisse fra il 1916 e il 1922 quelle Cadenze che sono modelli di proprietà stilistica pur nella reinvenzione potenziata per il pianoforte moderno. A parte i Concerti e la grande Sonata in re maggiore K. 448 per due pianoforti, altro pezzo favorito delle esibizioni in duo con Egon Petri, poche altre opere di Mozart figurano nel repertorio pianistico di Busoni; e ancor meno sono quelle rielaborate o trascritte in funzione di uno stile pianistico moderno. Le ragioni addotte da Busoni testimoniano ancora una volta la sua coerenza in questa disciplina:
I successori di Bach, Haydn e Mozart, ci riescono in realtà più lontani e rientrano completamente nella cornice del loro tempo.
Tentativi di trascrizione di qualche loro opera – nel senso delle succitate trascrizioni di Bach – sarebbero errori grossolani. Le composizioni per pianoforte di Mozart e di Haydn non possono esser adattate in alcun modo al nostro stile pianistico: al loro contenuto ideale basta e corrisponde soltanto la scrittura originale. (8)
Fanno eccezione, nel repertorio del duo pianistico, la Fantasia per un organo meccanico in fa minore K. 608 e il Duettino concertante, rispettivamente del 1922 e del 1919, che non derivano però da originali pianistici. La Phantasie für Orgelwalze, composta da Mozart a Vienna nel 1791 per un piccolo organo meccanico a rulli, è un pezzo di singolare scrittura, a prima vista quasi sproporzionato fra il profondo contenuto della musica e la povertà del mezzo chiamato a realizzarlo. Formalmente si tratta di un brano tripartito, costituito da due Allegri con al centro un Andante di carattere contrastante. Busoni aggiunge di suo una Introduzione e dà ai due movimenti estremi uno spiccato carattere di fuga: rendendo così esplicite, in un denso intreccio contrappuntistico, le virtualità già contenute nella musica di Mozart.
Di tutt’altro spirito il Duettino concertante, che prende spunto dal Finale del Concerto in fa maggiore K. 459 di Mozart per un brillante gioco della fantasia, di grande eleganza e levità. La trascrizione per due pianoforti esalta la pungenza del dialogo, dando evidenza ai temi e alla loro elaborazione, sottolineando i tratti umoristici e quelli pensosi, delineando l’architettura e gli elementi ornamentali che virtuosisticamente l’abbelliscono: il tutto con una trasparenza formale appena appannata dal respiro caldo di un’intima commozione.
Le Finnländische Volksweisen op. 27 sono l’unico lavoro per pianoforte a quattro mani di Busoni che si sia conservato (precedenti tentativi giovanili, a metà strada fra l’apprendistato compositivo e la pratica domestica con la madre pianista, sono andati perduti o sono rimasti inediti: poco o nulla del resto avrebbero aggiunto all’immagine di Busoni). Esse risalgono al 1888, anno in cui il ventiduenne Busoni si recò a Helsingfors, l’odierna Helsinki, per insegnare pianoforte presso il locale Istituto musicale (vi sarebbe rimasto per due anni scarsi). La curiosità nei confronti di nuove esperienze nell’ambito della musica nazionale era già allora uno dei tratti distintivi dell’indole di Busoni. E proprio la conoscenza della musica popolare finnica gli suggerì la composizione di quest’opera su melodie originali della tradizione popolare del luogo. L’arrangiamento pianistico chiaramente influenzato dagli autori che Busoni maggiormente frequentava a quel tempo (in modo particolare da Chopin e dalle Ecossaisen di Beethoven, uno dei suoi pezzi favoriti: Busoni andava particolarmente fiero di questa sua elaborazione da concerto, poi pubblicata nel 1889); ma in esso si possono individuare anche tipici atteggiamenti di uno stile compositivo già incline alla vaghezza armonica (per esempio nello sfruttamento di scale diverse da quella di sette suoni della tradizione occidentale) e alla robusta tessitura contrappuntistica. Ciò viene evidenziato soprattutto nelle parti finali dei due movimenti di cui si compongono le Finnländische Volksweisen (rispettivamente “”Alla Marcia”” e “”Vivace””), dove la spontaneità dell’ispirazione melodica tende ad essere sovrastata dallo spessore quasi eccessivo degli sviluppi polifonici.
La Finlandia e le sue melodie popolari non furono che una piccola tappa nel cammino di un artista che si avviava alla conquista del mondo. Quel mondo lo avrebbe avuto ai suoi piedi per la durata di almeno trent’anni, ma soltanto come pianista. Non come compositore. E questo fu il cruccio che turbò, ora con sdegno, ora con rassegnazione, l’intera esistenza di Busoni. La sua opera, che aspirava alla perfezione del classico quasi si trattasse di reintegrare le diverse epoche della storia della musica in un accordo universale – l’utopia di una triade perfetta Bach – Mozart – Busoni nell’unità dell””‘armonia eterna”” -, rimase inconclusa: forse per eccesso, forse per diminuzione. Busoni non smise tuttavia mai di chiedersene la ragione. A Leo Kestenberg, che lo esortava a porsi a capo del rinnovamento musicale della nuova repubblica tedesca, scriveva da Parigi il 3 marzo 1922:
Il mio stile sconcerta tutti: troppo giovane per i vecchi, non abbastanza avventuroso per i giovani, infatti rappresenta un capitolo lindo nel disordine dei nostri tempi. In quanto tale saprà tener testa meglio ai futuri rinnovamenti delle generazioni che verranno.
Del resto (vorrei annotare qui la seguente osservazione) sono arrivato alla conclusione che la fama del virtuoso è più duratura di quella del creatore! Ciò appare contrario a ogni insegnamento tradizionale, ma ecco come giustifico la mia osservazione. La fama del virtuoso si sottrae all’esame dei posteri. La fama del creatore viene riesaminata da ogni nuova generazione per saggiare se sia giustificata; alle volte negata, spesso diminuita, ad ogni modo messa in dubbio, e di rado interamente confermata (9).
Da questo punto di vista, dunque, la partita rimaneva aperta. Soprattutto per chi, in vita, non era mai stato creduto abbastanza nell’altro suo lato.
NOTE
(1) Ferruccio Busoni, Lettere, a cura di Sergio Sablich, Milano, Ricordi/Unicopli, 1988, pag. 475. “”La Pulzella”” è La Pulzella d’Orleàns, poema di Voltaire.
(2) Ferruccio Busoni, Nuova classicità, in Lo sguardo lieto – Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele D’Amico, Milano, Il Saggiatore, 1977, pag. 113.
(3) Ibidem, pag. 113, nota 1.
(4) Ferruccio Busoni, Valore della trascrizione, in Lo sguardo lieto cit., pag. 219.
(5) Ferruccio Busoni, Abbozzo di una nuova estetica della musica, in Lo sguardo lieto cit., pagg. 50-51.
(6) Ferruccio Busoni, Autorecensione, in Lo sguardo lieto cit., pagg. 173-176. Le citazioni che seguono sono tratte da questo scritto.
(7) Ferruccio Busoni, Aforismi mozartiani, in Lo sguardo lieto cit., pag. 297.
(8) Ferruccio Busoni, Introduzione al “”Clavicembalo ben temperato”” di J.S. Bach, in Lo sguardo lieto cit., pag. 252.
(9) Ferruccio Busoni, Lettere cit., pag. 477.
Nikita Magaloff
XXVII Festival Pianistico Internazionale 1990 – Brescia e Bergamo