Richard Wagner – Sigfried

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Ritratto dell’eroe da giovane

 

Fra i primi abbozzi del mito nibelungico di Sigfrido e la prima rappresentazione integrale della Tetralogia L’anello del Nibelungo a Bayreuth nell’agosto 1876, corrono esattamente ventotto anni, nel corso dei quali la vicenda umana e artistica di Wagner subì profonde e decisive trasformazioni. Il progetto originario di fare delle gesta e della morte di Sigfrido la materia di una grande opera eroico-romantica in tre atti si era venuto ampliando per ragioni di chiarezza e di comprensione artistica, fino ad abbracciare una grandiosa azione drammatico-musicale in quattro parti che, dalla catastrofe principale (La morte di Sigfrido, il futuro Crepuscolo degli dei) risaliva alle imprese del Giovane Sigfrido (poi Sigfrido), alle origini dell’eroe (La Walkiria), e infine agli antecedenti più remoti del furto dell’oro del Reno e della maledizione del nibelungo Alberich (argomento del prologo, L’oro del Reno).

In quest’ordine Wagner aveva dato stesura poetica ai testi delle tre giornate e del prologo fra il 1848 e la fine del 1852; si era poi accinto alla composizione della musica partendo, come era naturale, dall’Oro del Reno, che fu iniziato il 1″” novembre 1853 nell’esilio di Zurigo e finito di strumentare il 28 maggio 1854; per passare subito alla prima giornata, La Walkiria, già interamente abbozzata alla fine del dicembre 1854 ma ultimata in partitura soltanto il 23 marzo 1856. A questo punto Wagner era alla metà dell’opera, che si riprometteva di continuare e finire quanto prima.

Il 22 settembre di quell””anno cominciò a comporre la musica del Sigfrido e il 20 gennaio 1857 terminò lo schizzo del primo atto, dedicando i mesi successivi alla strumentazione. Ma già il 22 maggio, dopo essersi ripreso da una crisi nervosa che lo aveva costretto al riposo, pose mano al secondo atto. Tutto sembrava dunque procedere per il meglio quando improvvisamente, il 27 giugno, Wagner interruppe il Sigfrido alla metà della seconda scena del secondo atto, là dove Sigfrido, partito Mime, si stende sotto il tiglio e comincia con le parole: «Dass der mein Vater nicht ist…» («Che costui non sia mio padre…»). Interruzione dapprima momentanea (due settimane dopo, quasi con furia, Wagner era intento ad annotare in rapidi schizzi l’abbozzo compositivo e orchestrale della conclusione dell’atto, come temendo di perdere il filo e di non avere i punti di riferimento necessari alla successiva elaborazione); poi, il 9 agosto, definitiva: tanto definitiva e duratura che il terzo atto non sarebbe venuto che undici anni dopo.

Che Wagner avesse deciso in piena coscienza di rinunciare per il momento all’impresa di continuare l’Anello è dimostrato dalla famosa lettera inviata l’indomani di quel fatale 27 giugno all’amico Liszt: «Con gli Härtel non avrò più nessun fastidio, poiché finalmente mi sono deciso a rinunciare all’ostinata impresa di completare i miei Nibelunghi. Ho guidato il mio giovane Sigfrido nella bella solitudine del bosco; ivi l’ho lasciato sotto il tiglio e con sincere lacrime ho preso commiato da lui: – sta meglio là che altrove -. Se dovessi una volta ripigliare il lavoro, bisognerebbe o che le circostanze mi rendessero più facile il compito, o che mi fosse dato di regalare al mondo il mio lavoro nel significato più ampio della parola». Nella stessa lettera Wagner addebitava la sua decisione non soltanto al fallimento delle trattative per l’acquisto dell’Anello da parte di Breitkopf & Härtel, da cui si era ripromesso una buona rendita anticipata assicurando di poter finire il lavoro in breve tempo; ma anche alla necessità, sentita come improcrastinabile dopo un’astinenza durata ormai otto anni (da quando Liszt aveva diretto Lohengrin a Weimar), di ritornare al teatro con un’opera nuova di minori dimensioni, al fine di ritrovare il contatto con il pubblico e con la realtà viva di un’esecuzione. L’opera nuova, «assolutamente adatta ai tempi, che mi darà una buona e pronta rendita e mi manterrà a galla per qualche tempo», come ottimisticamente scriveva a Liszt, nella sua mente esisteva già: ed era Tristano e Isolda, che Wagner pensava ora di comporre, dopo «aver chiuso Sigfiido sotto chiavistello come un sepolto vivo».

Nel lungo periodo di interruzione dell’Anello del Nibelungo – un sogno apparentemente irrealizzabile a breve scadenza – Wagner peregrinò per mezza Europa, da Zurigo a Venezia, da Parigi a Vienna; prima di poter far ritorno in Germania, grazie all’amnistia del 28 marzo 1862 che cancellava la condanna all’esilio inflittagli per la partecipazione ai moti di Dresda del ’49, esser di nuovo cacciato, questa volta da Monaco, e trovar finalmente pace a Tribschen, in Svizzera. Compose non soltanto Tristano e Isolda (cominciato il 1° ottobre 1857 e terminato il 6 agosto 1859, ma rappresentato per la prima volta il 10 giugno 1865 a Monaco), ma anche una nuova versione per Parigi del Tannähuser (che cadde clamorosamente alla prima del 13 marzo 1861, nonostante la veemente difesa di qualche illuminato, come Baudelaire) e i Maestri cantori di Norimberga (concepiti già alla fine del 1861, ma composti fra l’inizio del 1866 e il 24 ottobre 1867, e rappresentati con grande successo a Monaco il 21 giugno 1868); senza contare il soggetto di Parsifal, apparso «come in sogno» il Venerdì Santo del 1857 e steso in un primo abbozzo in prosa fra il 27 e il 30 agosto 1865.

In tutti questi anni, il progetto dell’Anello rimase nello sfondo senza però essere mai del tutto abbandonato. Già nel dicembre 1859 gli editori Schott di Magonza avevano acquistato la partitura dell’Oro del Reno, riservandosi di comperare i diritti dell’intera Tetralogia a lavoro ultimato (cosa che difatti poi avvenne). Nell’aprile 1863 il poema, riveduto e corretto negli ultimi due drammi, che recavano ora i titoli definitivi di Siegfried e Götterdämmerung (ossia Sigfrido e Crepuscolo degli dei), uscì in edizione a stampa, corredato da una prefazione nella quale Wagner tornava a esporre le necessità che sole ne avrebbero permesso la realizzazione scenica e musicale: una sede adatta, un auditorio costruito ad anfiteatro (a tale scopo aveva incaricato l’architetto zurighese Gottfried Semper di preparare alcuni progetti edilizi), la fossa d’orchestra invisibile al pubblico, un’acustica appositamente studiata per le caratteristiche del Wort-Ton-Drama, dove musica, azione e parola potessero risaltare nella loro unità e unione, lunghi periodi di prove con cantanti espressamente scelti e guidati dall’autore. Quanto ai finanziamenti, si sarebbe dovuto provvedere o con donazioni private, raccolte attraverso un pubblico appello, o con l’intervento di un principe munifico e amante dell’arte, non ancora corrotto da quel genere di opera «che offende il senso tedesco per la musica e il dramma». «Si troverà mai questo principe?», suonava l’appassionata conclusione di Wagner.

Un tale principe esisteva, anche se nel dicembre 1862, quando Wagner scriveva la sua prefazione, non era stato ancora trovato. Era costui l’erede al trono di Baviera, un giovane stravagante e schivo, di straordinaria bellezza e di acuta sensibilità, folgorato dalla musica di Wagner fin da quando, a quindici anni, aveva visto e udito Lohengrin a Vienna. Allorché egli, il 10 marzo 1864, a soli diciotto anni di età succedette sul trono di Baviera a re Massimiliano II col nome di Ludwig (Luigi) II, Wagner si trovava a Vienna, oppresso dai debiti, abbandonato da tutti e costretto a disfarsi delle sue cose pur di realizzare moneta contante per far fronte alle cambiali più pressanti. Il 23 marzo, caduta definitivamente la speranza di poter rappresentare Tristano, Wagner dovette fuggire da Vienna per sottrarsi all’assedio dei creditori; riparò in Svizzera, e di lì a Stoccarda. E proprio a Stoccarda, il 3 maggio, lo raggiunse dopo lunga ricerca un inviato di re Luigi, latore di un ritratto, di un anello e di un messaggio che ingiungeva di recarsi all’istante, e per la via più breve, a Monaco, dove il re in persona l’attendeva per onorarlo. «Quello stesso giorno avevo ricevuto da Vienna le più insistenti raccomandazioni di non ritornare. Spaventi di questo genere, ora, la vita non me ne avrebbe più fatti provare. Il pericoloso cammino per il quale il destino oggi mi chiamava alle più alte mete m’avrebbe, sì, riservato fastidi e affanni d’altra natura, quale ancora non conoscevo; ma sotto la protezione del mio nobile amico mai più mi avrebbero oppresso col loro peso le volgari miserie dell’esistenza»: sono, queste, le parole con cui si conclude Mein Leben, l’autobiografia di Wagner.

Wagner fu ricevuto dal re in udienza privata nella Residenza di Monaco il 4 maggio, come un imperatore. Sapute le sue esigenze, Ludwig passò all’azione. Pagò tutti i debiti, alloggiò il compositore all’ «Englischer Garten», il quartiere residenziale di Monaco, gli fissò un congruo stipendio, affittò per lui una villa sul lago di Starnberg, vicino al castello di Berg, residenza estiva del re: dimora principesca, e alcova segreta dei primi amori con Cosima, la figlia di Liszt che il 29 giugno aveva raggiunto il maestro, ufficialmente per aiutarlo nella preparazione della autobiografia. Ma nei loro incontri non si limitarono solo a questo, evidentemente: nove mesi dopo, il 10 aprile 1865, Cosima partorì a Wagner una figlia, cui fu imposto il nome di Isolde; lo stesso giorno in cui Hans von Bülow, suo marito, dirigeva all’Opera di Monaco la prima prova orchestrale del Tristano.

Il 7 ottobre, in nuova udienza dal re, Wagner ricevette «1’ordine ufficiale» di finire l’Anello, per acquistare il quale le casse dello stato sborsarono la non lieve somma di 30.000 fiorini; il compositore, prudentemente, aveva taciuto i precedenti impegni presi con Schott. Quell’anno decisivo per la sua vita si concluse sotto i migliori auspici: il 4 dicembre si ebbe la prima rappresentazione a Monaco dell’Olandese volante, diretta dall’autore, e il 29 dello stesso mese re Luigi, su richiesta di Wagner, commissionò a Semper il progetto per la costruzione di un nuovo teatro a Monaco, adatto allo scopo di mettere in scena la Tetralogia. Intanto, già in settembre Wagner aveva cominciato a rivedere le parti già fatte del Sigfrido, stendendo in bella copia la partitura del primo atto e mettendo ordine negli appunti orchestrali del secondo. Non ne avrebbe però ripreso la composizione vera e propria che alla fine del 1868. Il 1865 è l’anno della prima rappresentazione del Tristano, data d’inizio di una nuova era della musica. Ma fu anche l’anno dei primi aspri attacchi portati dagli ambienti più in vista di Monaco a quell’intruso che, oltre a tenere una condotta non proprio irreprensibile, intendendosela con la moglie di colui che egli stesso aveva fatto chiamare alla direzione dell’Opera, esercitava un influsso nefasto sul re, condizionandolo nelle scelte politiche e perfino religiose. Posto di fronte al bivio della scelta «fra l’amore e la venerazione del suo popolo fedele e l’amicizia di Richard Wagner, Ludwig si vide costretto ad invitare Wagner ad andarsene. Il 10 dicembre egli lasciò la Baviera, accompagnato da una forte somma e dall’assicurazione che il re, suo suddito, non l’avrebbe comunque mai abbandonato.

Si trasferì di nuovo in Svizzera. In aprile, affittò una villa a Tribschen presso Lucerna, dove sarebbe rimasto fino al 1870, anno in cui avrebbe spiccato l’ultimo volo, destinazione Bayreuth. Poco dopo, lo raggiunse anche Cosima con le figlie, la sua e le due avute in precedenza da Bülow; intanto, il 25 gennaio, era morta Minna, sua moglie, da anni confinata a Dresda. Il 1866 è l’anno dei Maestri cantori, il cui lavoro occupò Wagner anche per gran parte del 1867 e fu allietato dalla nascita (17 febbraio) della seconda figlia dell’unione con Cosima, Eva. E proprio i Maestri cantori, alla prima rappresentazione del 21 giugno 1868, furono la personale rivincita su Monaco: Wagner vi assistette dal palco reale accanto all’estasiato Luigi, fatti oggetto entrambi di fenomenali ovazioni. Rimase quello il più grandioso trionfo ottenuto da Wagner in teatro prima di Bayreuth.

Fece ritorno a Tribschen il 24 giugno 1868, questa volta veramente deciso a riprendere il lavoro alla Tetralogia. Alla certezza che la ostinata impresa avrebbe trovato realizzazione secondo i suoi desideri grazie all’aiuto di Luigi si univa ora una tranquillità spirituale ed effettiva mai provata prima, rafforzata dalla decisione di Cosima di divorziare da Bülow e vivere per sempre con lui. Ottenuto il divorzio il 16 novembre, Cosima si stabilì definitivamente a Tribschen. Verso la fine dell’anno, Wagner si gettò a capofitto nel Sigfrido, e il 23 febbraio 1869 poté terminare la bella copia della partitura del secondo atto, undici anni e mezzo dopo che l’aveva interrotto. Si sentiva trasformato, felice e sereno, rigenerato da una nuova maturità artistica; in una lettera al re amico (24 febbraio) scrisse che nel suo lavoro era scesa «eine seltsame Gleichmässigkeitn», una strana, insolita regolarità. In queste condizioni la composizione del terzo atto non richiese molto tempo, neppure quattro mesi, dal 1° marzo al 14 giugno; intanto, il 6 giugno, con sensazionale tempismo, insieme con il terzo atto era nato anche il terzo figlio, un maschio finalmente: Siegfried. L’estate servì per stendere l’abbozzo orchestrale e poi la strumentazione, e alla fine di settembre del 1869 la partitura era virtualmente ultimata, anche se la bella copia non fu pronta che il 5 febbraio 1871.

Il 22 settembre 1869 si era avuta a Monaco la prima rappresentazione dell’Oro del Reno, strenuamente voluta e anzi imposta dall’impaziente Ludwig contro il parere di Wagner. Così la Tetralogia cominciava a vedere la luce, anche se l’autore non poteva ancora rallegrarsene. Al battesimo ufficiale dell’intero ciclo a Bayreuth, dove Sigfrido andò in scena per la prima volta il 16 agosto 1876, mancavano ancora sette anni. Wagner non sapeva allora quanti ce ne sarebbero voluti, ma era certo che quel giorno sarebbe venuto. E intanto perdonò volentieri l’impazienza dell’amico e sovrano, e nel dedicargli la partitura del Sigfrido volle eternarlo con parole di enfasi sincera: «… E questo gesto è riuscito al tuo amico: ciò che egli racchiuse per undici anni nel sonno muto, il suo canto ha ridestato ora alla vita e alla donna risvegliata si unisce il compagno. Ma come avrebbe mai squillato questo canto di risveglio se il fiore della tua giovinezza non fosse per me sbocciato? Il giorno in cui te lo mando mi invita a indirizzare il miracolo interamente a te».

Dei sette personaggi che compaiono nell’azione della seconda giornata dell’Anello del Nibelungo, Sigfrido, il protagonista, è l’unica figura nuova. Ritroviamo accanto a lui Wotan, il padre degli dei, celato nel costume del Viandante (Wanderer); i nibelunghi Alberich e Mime, che tramano per riconquistare il tesoro maledetto empiamente sottratto alle figlie del Reno; il gigante Fafner, che del tesoro ha ora il possesso, e per meglio custodirlo si è mutato in drago; Erda, la Madre Terra veggente e inutilmente saggia; e infine Brunilde, la Walkiria punita da Wotan per la sua disubbidienza e addormentata su una rupe recinta da alte lingue di fuoco.

Chi conosca gli antefatti del prologo e della prima giornata sa che in realtà Sigfrido è già presente in modo implicito nello svolgimento del dramma. Ideato dal pensiero di Wotan alla fine dell’Oro del Reno come strumento di redenzione del mondo e fonte di riscatto della colpa degli dei (e ad annunciarlo è il simbolo musicale della spada Nothung), concepito nell’amore incestuoso dei gemelli Siegmund e Sieglinde e salvato, dopo la morte del padre, dal generoso sacrificio di Brunilde, Sigfrido viene alla luce in un antro della foresta, dove la Walkiria ha condotto Sieglinde per sottrarla al furore di Wotan. Nel partorirlo, la madre muore, lasciando in eredità solo i frammenti della spada Nothung, già appartenuta a Siegmund e spezzata in duello mortale dalla lancia di Wotan. Raccolto dal nano Mime, che gli nasconde la sua vera identità allo scopo di servirsene per conquistare l’anello, Sigfrido cresce nella selva a contatto con la natura, di cui si sente parte, ignaro e inconsapevole di tutto ciò che lo circonda. Quel che segue, lo si apprenderà direttamente dalle vicende della seconda giornata della Tetralogia: come Sigfrido, forgiata da sé la spada che il fabbro Mime non è in grado di temprare, abbatta con essa il drago e subito dopo il perfido nano, si impadronisca dell’anello e del tesoro e, sospinto dal canto di un uccellino della foresta di cui ora comprende il linguaggio, raggiunga la rupe di Brunilde e risvegli la Walkiria addormentata.

L’entrata in scena del protagonista imprime una svolta profonda alla forma del dramma musicale, di cui Wagner dovette essere ben consapevole. Rispetto all’Oro del Reno e alla Walkiria, Sigfrido presenta una struttura più lineare e compatta: addensata in scene simmetricamente bilanciate e bloccate sul contrasto diretto fra i personaggi, con Sigfrido al centro. La vicenda si svolge in tre atti, ognuno suddiviso in tre scene: nel primo atto, ogni scena pone di fronte due personaggi, Mime e Sigfrido (I scena), Mime e il Viandante (II scena), di nuovo Mime e Sigfrido (III scena); nel secondo, tre personaggi per volta, Alberich, il Viandante e Fafner (I scena), Mime, Sigfrido e Fafner (II scena), Sigfrido, Mime e Alberich, più l’intervento fuori scena della voce dell’uccellino della foresta (III scena); nel terzo atto, infine, il contrasto si radicalizza ancora, fra Erda e il Viandante (I scena), Sigfrido e il Viandante (II scena), Brunilde e Sigfrido (III scena). Significativamente, ogni finale d’atto coincide con il superamento del contrasto e con l’affermazione vittoriosa di Sigfrido sui suoi antagonisti: sui nibelunghi (su Mime), sui giganti (su Fafner), sugli dei (su Wotan). L’incontro con Brunilde è il punto di arrivo di questa giornata, il vertice trionfale nel quale si compie l’ascesa del giovane protagonista verso il rango di eroe a lui predestinato.

All’inizio, Sigfrido non è ancora un eroe: per Mime, che lo ha allevato, è solo un ragazzaccio selvatico, irriconoscente, ardito sì, ma soprattutto stupido. E perfino Wotan in veste di Viandante vede in lui, più che un eroe, un redentore, da manipolare per i propri fini. Sigfrido si apre alla vita a poco a poco, colmando il vuoto dell’adolescenza e della prima giovinezza attraverso simboli oscuri, quasi indecifrabili: le leggi della natura che rispetta ma non comprende, l’ossessione della spada, il significato della paura che non conosce, il pensiero della madre morta per lui e del padre assente, il bisogno di sapere la sua origine, di darsi un’identità. Natura, sensibilità, intuito, inconsapevolezza formano i tratti fondamentali del suo carattere. La sua ignoranza è duplice: non conoscere nulla vuol dire non aver paura di nulla, e quindi esser pronto ad affrontare tutto, ma anche non sapere ancora scegliere. Uno dopo l’altro, egli dà consistenza a quei simboli: e così scopre se stesso, ed emozioni e sentimenti prima sconosciuti. Dal limbo dell’incoscienza, acquista coscienza di sé e del mondo per mezzo della riflessione e poi dell’azione: apprende come la madre morì per lui, il proprio nome (Siegfried, pace della vittoria) e quello di lei, il sacrificio del padre; spinto da nuove ambizioni, forgia la spada, uccide il drago e arriva a comprendere magicamente il linguaggio della natura: per la prima volta trema di paura. dopo averla invano attesa di fronte all’orrore della selva evocato da Mime, o alla minaccia del drago, all’asta di Wotan e al fuoco di Loge, riconoscendo l’ignoto nella figura della Walkiria addormentata. Solo allora la solitudine gli appare insopportabile, ardente il desiderio di sapere: in quel momento Sigfrido diviene un eroe.

L’incontro con Brunilde è l’ultimo e definitivo stadio dell’apprendistato di Sigfrido, quello in cui egli si scopre, oltre che uomo capace di amare, eroe luminoso: e a compiere il riconoscimento. svelando chi davvero Sigfrido sia, è la vergine Walkiria, dopo il risveglio da un lungo sonno. Questa rivelazione segna il punto più alto della parabola della giovinezza di Sigfrido, un attimo stellare della sua vicenda, a cui seguirà una discesa rapida, e tutt’altro che eroica. Dal Crepuscolo degli dei apprenderemo non soltanto che Sigfrido non è la salvezza e l’eredità gloriosa di un mondo rigenerato quale Wotan aveva sperato, ma anche che la sua vocazione eroica è fonte di rovina. La rovina di Sigfrido ha inizio nell’istante in cui egli sa, dalle parole di Brunilde. di essere un eroe destinato a grandi imprese: ossia, è ancora Brunilde a esortarlo, «zu neuen Taten», a nuove imprese.

Dell’impossibilità di essere un eroe, Sigfrido apprenderà il senso soltanto prima di morire trafitto a tradimento, come a un eroe non si conviene: solo allora, nel ricordo della passata giovinezza radiosa, tornerà ad esserlo veramente. C’è un punto, nel Sigfrido, in cui il destino dell’eroe è adombrato appena, ma inequivocabilmente: nel canto di Fafner ferito a morte, pieno di struggimento e di presagio per la sorte di quel «ragazzo dagli occhi chiari, inconscio di se stesso» che ha compiuto l’ultimo atto del crepuscolo dei giganti. Un canto che ha già il tono di una marcia funebre.

Seguendo la speciale struttura drammaturgica del poema, Wagner si serve per la musica del Sigfrido di una tecnica compositiva arricchita. Arricchita non tanto negli elementi, che permangono gli stessi, solo ancor più perfezionati e affinati dalle prove precedenti. quanto nel loro impiego e sviluppo, e nei fini a cui tendono. I Leitmotive restano funzioni determinanti per la caratterizzazione psicologica ma accentuano il peso dell’allegoria, della reminiscenza, fino a presentarsi in addensamenti stratificati, come contrasti tematici diretti, categorie di distinzione fra personaggi e valori, metafore del dramma (per esempio nel monologo di Mime all’inizio o nella potente scena dell’assalto di Sigfrido al drago). Dal lato armonico, il cromatismo d’ascendenza tristaniana ora si fonde ora si contrappone al diatonismo dei Maestri cantori, anche qui con intenti evidentemente simbolici: cromatico è il mondo sonoro delle figure oscure e tenebrose di Mime, Alberich e Fafner, e delle scene in cui essi intervengono o sono evocati dalla musica, come nei preludi del primo e del secondo atto; ad armonie sfigurate da intervalli alterati si accompagna un canto inquieto, contorto e teso, brulicante di ombre e carico di attese. Diatonico, ossia più luminoso, disteso, in rilievo, quello di Sigfrido e delle scene di cui è protagonista, in cui il canto stesso si fa aperto, modellato su ampie arcate a tutto tondo, svettante. Il motivo del corno di Sigfrido, che echeggia nel secondo atto prima dell’uccisione del drago, ne è l’emblema massimo. La figura di Sigfrido viene in tal modo precisata dalla musica, e la sua evoluzione delineata proprio dalla imperiosa individualità dei suoi temi in sé e rispetto a quelli degli altri personaggi con cui si scontra; altrove, invece, è definita da sottili incrinature armoniche e da introspettivi ripiegamenti melodici, là dove Sigfrido, solo sulla scena, si interroga sgomento sulla propria origine (nel primo e poi nel secondo atto) o trema per la prima volta di paura di fronte alla Walkiria addormentata («Non è un uomo!» atto terzo. scena terza).

Su altri piani, Sigfrido deve all’esperienza dei Maestri cantori la muscolosa tessitura contrappuntistica e la compattezza ritmica di alcune scene (la tempra della spada nel primo atto, ad esempio, con gli inni gioiosi e selvaggi della fucina e il controcanto di Mime sullo sfondo), e un umorismo acido, che impregna la personificazione di Mime, quasi parente stretto di Beckmesser, e la grottesca scena della baruffa tra Alberich e Mime, nella terza scena del secondo atto. Dall’altro lato, emergono l’importanza essenziale e la risonanza profonda che hanno le voci e i suoni della natura, ai cui fremiti Sigfrido si abbandona rapito (la pànica pienezza del Mormorio della foresta nel secondo atto), e la freschezza popolare di motivi che risuonano con il richiamo di elementi primordiali, quasi scaturissero dal sognare nostalgico della natura inconscia di Sigfrido.

In questa partitura, nel suo insieme di estrema plasticità ed evidenza rappresentativa, a dominare è l’elemento sinfonico, che si realizza con una tavolozza orchestrale di seducenti risorse espressive, ricchissima di colori e di sfumature. «E’ il fatto musicale spinto al delirio timbrico, la musica come esistenza e decantazione di timbri», ha scritto Gianandrea Gavazzeni. La tecnica dell’affresco sinfonico è impiegata soprattutto nei grandiosi finali del primo e del terzo atto e nella scena centrale del secondo, allo scopo di rendere, per mezzo della massima concentrazione dei blocchi musicali, le vaste dimensioni spaziali e coloristiche su cui si staglia la figura di Sigfrido. Wagner non rinuncia però al gusto e al culto di lui così tipico per il particolare, strumento di penetrazione psicologica, e alla raffinata pregnanza delle trasformazioni e degli intrecci tematici. Ad esserne interessati sono soprattutto i personaggi di Mime (chiuso nel suo piccolo mondo di astuzie e di viltà) e del Viandante, nelle cui sembianze Wotan diviene il dolente protagonista dello sdoppiamento fra un passato   glorioso popolato di sogni di potenza e un presente segnato dal destino, che egli non può più determinare, né vuole cercare di mutare: «Zu schauen kam ich, nicht zu schaffen», «a guardare son venuto, non ad agire», è la risposta serafica di Wotan al naligno furore di Alberich (prima scena del secondo atto). Di lui l’importanza per l’economia del dramma della scena degli enigmi con Mime, tutt’altro che un’inutile ricapitolazione di ‘atti già noti, e della terrificante scena della evocazione della dea-madre. Erda. Wotan è costretto a ricordare un’ultima volta ciò che più l’opprime, l’ingiusta punizione della Walkiria, e a domandarsi al colmo dell””angoscia: «Wie besiegt die Sorge der lott?», «come il dio potrà vincer l’affanno?»: implacabile la risposta di Erda, colei che tutto sa: «Du bist – nicht was du lich nennst!», «tu – non sei quel che ti nomini!». L’ineluttabile si compie nel successivo incontro con Sigfrido: la lancia dei patti, che aveva mandato in frantumi la spada Nothung, è ora a sua volta fatta a pezzi dalla spada brandita da Sigfrido. Al Viandante non resta che raccogliere tranquillo i pezzi caduti e retrocedere, lasciando via libera all’ultima tappa dell’iniziazione di Sigfrido.

La scena finale ripropone per l’ultima volta un contrasto drammatico dilatato a grandi dimensioni sinfoniche. Il blocco finale, con le sue sezioni ben definite, si erge come una cima isolata ;sulla vicenda dell’Anello, conducendoci dall’oscurità alla luce che trionfalmente conclude la sfolgorante giornata di Sigfrido. Quasi a preparare il passaggio di registro che schiude un’orizzonte nuovo, la tensione si allenta, i ritmi si appianano, i timbri si chiariscono, le aspre dissonanze divengono consonanze piene, l’armonia si fa a poco a poco diatonica fino a raggiungere nel momento solenne del risveglio di Brunilde l’incandescente purezza della tonalità di do maggiore. L’intervento della voce acuta femminile, finora assente in questa giornata se si eccettuano i naturalistici gorgheggi del canto dell’uccellino della foresta, è preparato dai trasalimenti di Sigfrido, sgomento e stupito di fronte alla figura umana a lui ignota: la sua risposta è quasi una liberazione dall’improvvisa angoscia che lo assale. Le prime parole di Brunilde sono di saluto al sole, alla luce, al giorno luminoso; solo poi erompe la domanda fatale: «Wer ist der Held, der mich erweckt?», «chi è l’eroe, che m’ha svegliata?». Della risposta si incarica questa volta la musica, intonando a piena orchestra il motivo dell’eroismo di Sigfrido. Di fronte all’impeto selvaggio di Sigfrido e al proprio stesso amore, la Walkiria cede dopo una difesa appassionata, unendo il suo canto a quello di lui e sposando così il proprio destino a quello dell’eroe. Quanto ai due temi principali del duetto finale, intonati da Brunilde il primo sulle parole «Ewig war ich, ewig bin ich» («Eterna fui, eterna sono»), il secondo dopo l’esclamazione giubilante «O kindischer Held! O herrlicher knabe!» («O eroe fanciullo! O stupendo ragazzo!»), essi contengono un preciso riferimento autobiografico: Wagner li aveva pensati per il linguaggio intimo e segreto di un quartetto d’archi nel 1864, al tempo dei primi amori furtivi con Cosima, e poi rielaborati nell’Idillio di Sigfrido, offerto in dono la mattina di Natale del 1870 all’amica e consorte per il suo compleanno e per la nascita del figlio Siegfried.

All’amore senza sapere di Sigfrido, Brunilde dona ora il suo sapere intriso d’amore e di sacrificio. Neppure Sigfrido da solo (l’uomo da solo) è l’umanità completa: ne é appena la metà; soltanto con Brunilde diventa un redentore. Nessuno da solo può tutto: c’è bisogno di molti, e la donna che soffre e s’immola diviene alla fine la vera, cosciente redentrice: poiché l’amore è in senso proprio l’eterno elemento femminile stesso». Ciò non toglie che l’ottimismo del Sigfrido, in seno alla Tetralogia, sia anche uno stato d’animo, una stagione della vita: il momento della luce, l’età della giovinezza eroica e mitica del mondo vista con gli occhi disincantati di un dio perdente, come Wotan, e di un artista maturo miracolosamente ritornato giovane, come Wagner. E come ha intuito Nietzsche, quel «prototipo meravigliosamente lineare del giovane, il Sigfrido dell’Anello del Nibelungo, poteva crearlo solo un uomo, e precisamente un uomo che avesse trovato solo tardi la sua giovinezza».


Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Ente autonomo del Teatro Comunale di Bologna, Stagione d’Opera 1989-90

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