“Che costa il mondo!”. La Settima di Mahler.
Fra le Sinfonie di Mahler, la Settima contende all’Ottava il primato della meno eseguita e, di conseguenza, è con essa la meno conosciuta e apprezzata dal grande pubblico. Nel caso dell’Ottava la spiegazione risiede anzitutto nelle abnormi, anche per Mahler, proporzioni dell’organico, che come è noto le valsero l’appellativo di “”Sinfonia dei Mille””; per la Settima tali ragioni non sono determinanti. Questa Sinfonia ha infatti la durata media, cioè assai considerevole, di altre Sinfonie più celebri, come la Seconda o la Quinta; richiede un organico orchestrale vastissimo ma del pari non nuovo per Mahler, e anzi di lui caratteristico; non prevede l’impiego della voce e del coro, come avviene in altri casi: è dunque una Sinfonia puramente strumentale, priva di programma se non di contenuti extramusicali. Sotto l’aspetto formale, si compone di cinque movimenti e di tre parti, ma lascia chiaramente intendere il legame con le forme della tradizione classica.
Le ragioni di questa scarsa presenza della Settima sono perciò da cercare altrove, cioè nella sostanza musicale e nel carattere della composizione. Che si tratti di una Sinfonia ostica, perfino sgradevole in certi passaggi, è indubbio. Ma questo potrebbe valere anche per altre Sinfonie, come la Sesta. Del resto, nessuno pensa ormai più di accostarsi a un lavoro di Mahler attraverso un ascolto ingenuo e disimpegnato: la forza e l’interesse della sua musica stanno proprio in questa richiesta. Ma se altrove Mahler colpisce nel segno soprattutto con abbandoni di semplicità disarmante, con gesti di presa immediata, con suggestioni poetiche e con pensieri musicali che comunque ci coinvolgono e ci raggiungono direttamente, questo nella Settima accade raramente, e sempre in modo problematico. Non parrà allora casuale che fra gli intenditori la Settima conti come una delle Sinfonie più alte e avanzate di Mahler, e da alcuni sia ritenuta addirittura la più grande di tutte: quasi che la stessa osticità e complessità fossero un segno della sua grandezza, magari in una lettura tutta tesa a ritrovare in essa le radici di tanta musica contemporanea, nella direzione degli espressionisti viennesi; quando non un vero e proprio simbolo dell’inizio di un’epoca nuova della musica.
La consuetudine di considerare l’opera di Mahler secondo criteri evoluzionistici ha buon gioco nel vedere nella Settima il punto di arrivo delle due Sinfonie che la precedono, quasi il chiudersi di una triade dialettica: la sintesi dopo la tesi e l’antitesi, il trionfo (nella Quinta) e la caduta (nella Sesta) dell’Eroe. In realtà, ove si eccettuino alcune analogie stilistiche che del resto si estendono a tutte le Sinfonie, questa posizione critica rivela ben presto la sua insignificanza. Vero è piuttosto che Mahler ha sempre riscritto la stessa Sinfonia, alla ricerca di una identità – se si vuole esistenziale non meno che creativa – di problematica definizione. E se questo è ciò che lo rende oggi così attuale, è altrettanto evidente che ogni Sinfonia costituisce un mondo a sé, nel quale la citazione e l’autocitazione entrano come archetipi compositivi, come costanti di situazioni variabili, continuamente riplasmate e analizzate.
Nella Settima il linguaggio di Mahler raggiunge il massimo dell’estraneazione e insieme il massimo del suo contrario, la partecipazione, trattando del tema che è oggetto della sua riflessione: il rapporto con la natura, l’interrogarsi sull’alienazione dell’uomo dalla natura e sulla spinta che continuamente lo porta a cercare il contatto con essa, per partecipare alla sua vita e compenetrarsi nella sua purezza. “”Qui la Natura fa udire la sua voce””, è il motto che Mahler pensava di apporre all’introduzione della Sinfonia. Compositivamente, la soluzione è volutamente estremizzata: soltanto la piena coscienza dell’alienazione, e soprattutto la sua completa, brutale rappresentazione, possono aprire la strada alla salvezza e forse alla riconquista dello stato di natura originario. In questo estremismo è contenuta già la critica, e soggettivamente l’autocritica, del proponimento: Mahler sa che è impossibile riconciliarsi con il mondo della natura, ritrovarne l’immediatezza e l’innocenza. Quel mondo gli appare, appena lo evoca, livido, notturno, spettrale: già nell’intitolazione dei tre movimenti centrali, pietoso escamotage della cattiva coscienza. Il “”sentimento della natura””, dilatato soggettivamente oltre i limiti dell’identificazione romantica, si rivela come qualcosa di profondamente diverso dalla natura in sé: irreali o sordi i suoni e le voci della natura, marci, corrotti o banali i vocaboli, i sensi, i segni con cui si cerca di cogliere, nella proiezione interiore, quei simboli, e di esprimerli. Quel che risulta alla fine è sogno q allucinazione; per Ugo Duse, “”un grande grido di dolore scaturito dalla necessaria illusione di riconquistare la perduta innocenza attraverso il ludibrio della più profonda depravazione””. Allora quello che rimane è solo la possibilità di controllare e di organizzare compositivamente questa perdita.
Composta fra il 1904 e il 1905, durante i mesi estivi che Mahler abitualmente sottraeva alla sua attività principale di direttore dell’Opera di Vienna, la Settima esercita questo controllo sul piano dell’organizzazione formale. Quanto più i contenuti tendono a farsi molteplici e sfuggenti, tanto più Mahler accentua il peso della struttura, della costruzione e dell’architettura formale; e nella Settima giunge, apparentemente, all’equilibrio della proporzione perfetta, come se alla logica di un piano prestabilito fosse affidata la garanzia della sua realizzazione. Il primo tempo (Adagio – Allegro con fuoco) e l’ultimo (Rondò – Finale) formano due parti a sé stanti e in un certo senso si riflettono a specchio: per quanto estesi e ramificati, Mahler si serve degli schemi classici della forma-sonata e del rondò. I tre movimenti centrali costituiscono invece un blocco omogeneo: quello di mezzo (Scherzo) è incorniciato da due serenate, cui Mahler dà lo stesso titolo di “”Nachtmusik””, ossia Notturno, e stacchi di tempo simili, Allegro moderato e Andante amoroso. Programmaticamente, dunque, Mahler pone a contrasto due forme proprie dell’elaborazione sinfonica con una parte centrale di carattere contemplativo ed evocativo, nella quale a parlare dovrebbe essere la natura stessa, in prima persona. Lo sdoppiamento del movimento lento nelle due serenate ha lo scopo di far risaltare il carattere dello Scherzo, apice della Sinfonia; nel quale l’illusione di riscoprire la natura nella sua oggettività si manifesta già dall’aggettivo che lo accompagna: “”schattenhaft””, fantomatico.
Assai istruttivi sono a questo proposito i dati che abbiamo sulla genesi della Sinfonia. Nell’estate del 1904 Mahler aveva composto il secondo e il quarto movimento, i due Notturni in forma di serenata, senza pensare ancora a una nuova Sinfonia. La quieta contemplazione del paesaggio, con i suoi echi pastorali e le suggestioni dei suoni di natura, ma anche con le sovrimpressioni d’un’immaginazione romanticamente fiorita, si erano combinate armonica-mente con la semplicità di canti notturni, per i quali, realisticamente, Mahler aveva impiegato strumenti tipici delle serenate, come la chitarra e il mandolino. A detta di Alma Mahler, nelle “”Nachtmusiken”” gli si libravano dinanzi visioni di Eichendorff, mormorii di fontane, fruscii di boschi, il mondo romantico tedesco. Interrotti solo da enigmatici segnali militari e da improvvisi, sinistri richiami, come gemiti o sussurri, talvolta gridi lontani. L’estate seguente Mahler prese la decisione di por termine alla Sinfonia. Si ritirò come l’anno prima sulle rive del Wörthersee, a Maiernigg, senza riuscire però a concentrarsi e a lavorare. “”Per due settimane”” – ricorderà – “”mi tormentai e mi disperai, come certo rammenti ancora, finché non presi la fuga nelle Dolomiti! Là la stessa storia, finalmente rinunciai e ripresi la via di casa persuaso che l’estate sarebbe stata perduta. Tu non eri ad aspettarmi a Krumpendorf, perché non ti avevo avvertita del mio arrivo. Montai in barca per farmi portare all’altra riva. Al primo colpo di remo mi venne in mente il tema (o piuttosto il ritmo e il carattere generale) dell’introduzione al primo tempo e in quattro settimane il primo, il terzo e il quinto tempo erano bell’e finiti! “”.
In questa lettera alla moglie, scritta nel giugno 1910, Mahler ricordava esperienze distanti nel tempo rivelando la genesi della Settima Sinfonia. Quel che gli premeva sottolineare ad Alma, forse per farle capire anche altre cose di lui, era quale fosse l’impulso che lo muoveva alla creazione: la spontaneità. “”Sia nell’arte che nella vita la spontaneità mi è indispensabile. Se fossi obbligato a comporre, sono sicuro che non metterei insieme nemmeno due note””, scriveva a colei.
La “”spontaneità””. Ma come riconoscere nella figura ritmica e nel carattere generale dell’introduzione alla Settima non si dice il suono di un colpo di remo nell’acqua ma semplicemente gli effetti della spontaneità? Per quanto sia avventato tentar di psicanalizzare Mahler, la decisione improvvisa, quasi febbrile, di riprendere il lavoro denuncia l’ansia nevrotica di un brusco ritorno alla realtà e tradisce la presa di coscienza di come, oltre i limiti da lui già fissati, gli fosse difficile dar corso alla spontaneità. L’inizio della Settima è agghiacciante. Il lutto di una duplice tonalità minore (si minore, mi minore) si contorce nei timbri scarnificati di una marcia funebre su ritmi secchi, implacabili, e distrugge sin anche il ricordo dei profumi della notte e dell’armonia della natura. Importante è una chiosa di Duse: “”La dilatazione del momento soggettivo oltre il mondo del reale ha portato l’uomo dei suoni di natura non più alle fonti della vita bensì a quel sentimento che non è già panico, non più pieno di orrore e stupore ma che partecipa mediatamente della natura solo in quanto ne esprime le storpiature del soggetto””.
Fin dall’inizio, gli slanci melodici e le impennate liriche, che dovrebbero rappresentare la partecipazione al sentimento dell’uomo di fronte alla natura, assumono, nella strumentazione, colori lividi e funerei, tratti grotteschi e sardonici. Il grande arioso del corno tenore, che presenta il tema fondamentale dell’introduzione, ha scatti incontrollati, toni patetici, indugi singhiozzanti. Anche quando Mahler imita le voci della natura – il canto degli uccelli o i mormorii della foresta – la raffigurazione è stravolta, artefatta, quasi caricata di simboli estranei. Le inserzioni realistiche, come i campanacci delle mucche, la frusta, le campane di villaggio, o i richiami dei corni da caccia, suonano sempre in lontananza (“”in weiter Entfernung””, molto lontani, secondo le didascalie) e stentano ad aderire al paesaggio morale e spirituale. L’idillio montano è solo pena e nostalgia in un mondo alienato. Del resto, neppure gli idiofoni valgono per il suono che danno, ma per l’orecchio che ascolta e per le associazioni mentali che essi, nel raccoglimento, producono.
In tale contesto, muta anche la prospettiva delle due serenate. I “”segnali”” che Mahler pone ad apertura di ognuna di esse sono già di per sé enigmatici, cifrati. Nella prima “”Nachtmusik””, i suoni dei corni che si rispondono in eco sembrano proporre una disposizione d’animo placata, un ascolto franco, in sintonia con la natura. Ma via via che il dialogo pastorale dei legni si articola e si sviluppa infittendo la scrittura contrappuntistica, la distanza da quei richiami aumenta e la serenità svanisce in malinconia. Quasi dimostrativamente, ogni volta che il contatto si perde Mahler riespone il richiamo dei corni, ma armonicamente variato e sfibrato. La notturna chiarezza della tonalità di do maggiore si annuvola a poco a poco velandosi di “”minore””: e appare, quasi ineluttabilmente, la scabra successione accordale maggiore-minore che ben conosciamo dalla Sesta Sinfonia, come motivo del destino.
Nella seconda “”Nachtmusik””, l’assolo iniziale del violino gioca una parte ancora più ambigua. “”Mit Aufschwung””, con slancio la melodia s’innalza di ottava, poi si spegne mestamente scendendo alla nota di partenza: è un gesto plateale, intensamente patetico, quasi un lungo sospiro prima di iniziare la parodia della serenata son accompagnamento di chitarra e mandolino. È curioso notare la somiglianza di questa melodia con quella di “”Amami, Alfredo”” nella Traviata: Mahler scrive, in testa al movimento, “”Andante amoroso””. Il mondo dei ricordi e delle citazioni forse inconsapevoli, che qui diviene palesemente teatro, alza il suo sipario per lasciare intravedere, dietro il tranquillo procedere della umoristica serenata (ma si tratta di un umore che sa anche essere nero), un sorriso di ironia.
“Schattenhaft”, fantomatico, è, come si è detto, l’aggettivo che Mahler usa per caratterizzare io Scherzo. Oltre che spettrale, questo movimento è indistinto nella sua sinistra cupezza e fa rabbrividire con le sue visioni d’orrore. Colpi di timpano sempre più incalzanti, turbinii di archi sferzanti come tempesta, irreali dialoghi fra strumenti, armonie frementi e squarciate atmosfere, producono l’impressione di una danza macabra sfrenata, sullo sfondo di una natura in rivolta, quasi violentata. La consolazione vana di un Trio nel quale la voce del violino solo, pateticamente, fa sentire il suo stupore e la sua nostalgia di canto, ha per risposta solo un valzer d’ignobile scompostezza; se ne ricorderanno molti testimoni dello sfacelo del mondo. Poi, da capo, lo Scherzo. Anche l’innocenza, ormai, ha dichiarato fallimento; anche se si trattasse di un incubo, o di ombre.
Se, alla radice, il problema fondamentale di Mahler era come riuscire a conciliare la spontaneità con l’elaborazione compositiva, nella Settima questo problema viene sospinto verso una strada senza ritorno. Ancora più significativa è perciò la via d’uscita che Mahler s’inventa nella costruzione dei due movimenti esterni della Sinfonia.
Nel primo tempo, l’amplificazione della forma, l’estensione delle sezioni tematiche, la continua proliferazione delle figure motiviche all’interno della disposizione secondo lo schema di una grande forma-sonata, non conducono ad alcun contrasto, ad alcuno sviluppo, ad alcun “”superamento””: siamo invece di fronte a una situazione bloccata che via via si espande e si stabilizza, facendo emergere da una materia stagnante simboli oscuri, residui non integrati nonostante la loro marcata, individuale pregnanza. Il ritorno periodico della marcia funebre dell’introduzione sottolinea proprio questa mancanza di direzionalità, senza tuttavia sostituirla con una linea di percorso circolare: questo, Mahler lo aveva già tentato altrove, già nella sua prima Sinfonia.
All’estremo opposto, il Rondò-Finale, con le sue proporzioni non meno che colossali, si pone coscientemente il problema del superamento del blocco, ossia, metaforicamente, dell’uscita dal regno delle ombre verso la luce. Con la scelta della tonalità di do maggiore per l’ultimo movimento, Mahler gioca per così dire a carte scoperte: questo vasto “”ditirambo in do maggiore””, come è stato definito non senza sarcasmo, trionfo dell’energia costruttiva e dell’abilità compositiva, ostenta un carattere positivo, ottimistico, smagliante e persino festoso. Ma quanto lo è in realtà? Non si dicono cose nuove: Mahler qui mente sapendo di mentire. Ancora un gesto retorico, questa volta spregiudicatamente esibito, apre il movimento: un assolo di timpano, nel quale l’autore raccomanda all’esecutore, con amabile ironia, di suonare la sua cadenza “”con bravura””. L’assoluta indifferenza espressiva, dichiarata già nell’indicazione del movimento come “”Allegro ordinario””, la più assoluta oggettività, ribadita anche dalla sorprendente scarsezza di didascalie, regnano deliberatamente nel Finale: solo suoni, come per incanto liberati dall’ossessionante rapporto con la natura, che chiamano vorticosamente altri suoni, e creano figure, ritmi, accordi, polifonie, armonie, parti, insiemi.
Mahler era troppo scaltro per non sapere che affidare il “”superamento”” e la trasfigurazione a un Rondò è una contraddizione, un sotterfugio. Il Rondò, per definizione, è una forma chiusa su se stessa, una girandola di ritornelli che non conducono a niente, un movimento circolare vuoto quando è privo di sostanza. Abilmente, Mahler sottrae al suo Finale in forma di Rondò ogni sostanza, ogni punto fermo: la conclusione sarà positiva e trionfale, ma solo nell’apparenza formale. Avviluppandosi nel serrato intreccio di una tecnica compositiva basata sulla variazione perpetua, egli è così libero di spingersi in ogni direzione, di aprire ogni porta e di richiuderla subito; in un impeto di effusione, arriva perfino a citare il tema dei Maestri cantori di Norimberga e a costruirci su un fugato; per poi aggredire con la forza di un panegirico e spingere al massimo i riflettori. Così facendo, Mahler sposta all’esterno il problema del Finale; prima lo maschera, poi lo elude: e con un meraviglioso colpo di scena ci lascia con un palmo di naso, senza certezze e nelle tenebre, al termine di una cavalcata fiammeggiante e stancante.
Fonti autorevoli informano che Mahler amasse scherzare sul Rondò finale della Settima Sinfonia e commentarne il carattere baldanzoso con un detto tipicamente austriaco: “”Was kost’ die Welt!””, “”Che costa il mondo!””. Il “”mondo”” rappresentava ciò che quotidianamente lo opprimeva, con le sue miserie, le sue bassezze, le sue falsità, le sue incomprensioni, e che reclamava obblighi sempre più stretti per consentirgli di sopravvivere anche come compositore. Nella natura, al suo opposto, Mahler aveva identificato la libertà, la purezza, la sua vera vita di creatore: mandato sulla terra non tanto per comporre, ma per esser composto dalle voci di natura, là aveva fissato i confini della spontaneità. Oltre il mondo. La Settima Sinfonia è per quattro quinti un tragico, struggente e brutale commiato dalla natura; al mondo è dedicato il suo ultimo quinto.
Esa Pekka Salonen / Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Ente autonomo del Teatro Comunale di Bologna, Stagione sinfonica 1986