La musica da camera di Borodin, Čajkovskj, Musorgskij, Rimskij Korsakov, Prokofiev, Sostakovič

L

La camera russa

 

Nazionalismo, recupero del folklore e delle tradizioni popolari, ricerca di una propria autentica identità culturale affondata nelle radici della storia, valorizzazione di ideali sedimentati nel passato e riscoperti, rivitalizzati nel presente: questi termini ricorrono spesso quando si tratta della musica russa dell’Ottocento, sia che la si consideri di per sè o la si metta a confronto con i filoni principali della grande produzione europea coeva. L’immagine che noi ne abbiamo tende continuamente a sdoppiarsi: da un lato privilegiamo l’individualità di opere d’arte che sembrano nascere da una precisa coscienza della propria autonomia a cercare in se stesse condizioni espressive diverse da quelle della tradizione colta occidentale, come di chi ascoltasse le più profonde risonanze di un mondo finalmente capace di rispecchiarsi anche all’esterno e di trovare le forme per affermare potentemente la sua peculiare esistenza; dall’altro lato siamo invece portati a stabilire raffronti, influenze e mescolanze con altre scuole di pensiero e di linguaggio in quel grandioso processo, tutt’altro che univoco , e anzi ricco di molteplici richiami, di apertura dalla Russia all’Occidente, e dall’Europa alla Russia. Processo che non si arresta nell’Ottocento e che continua, sia pure con altri sviluppi, anche nel nostro secolo. Osservare questa evoluzione dal punto di vista della musica da camera significa necessariamente scegliere la strada del confronto e della interferenza fra tradizioni diverse. Almeno per generi come il Quartetto e la Sonata, capisaldi di ciò che noi intendiamo convenzionalmente per musica da camera: ossia opere non solo nate per un ristretto numero di esecutori, destinate a piccoli ambienti, ma anche strutturate secondo regole precise. Non solo sotto il profilo formale, ma anche in relazione alla loro destinazione sociale, questi generi sono peculiari della tradizione occidentale, essendosi affermati in condizioni storiche ed estetiche che precedono i nuovi impulsi dati alla musica dalla scuola nazionale russa. Questi impulsi si produssero in tutta la loro novità ed originalità soprattutto nel teatro; proprio in quanto si distaccavano dai modelli italiani, francesi e tedeschi per ricreare radici e mezzi di espressioni propriamente nazionali. Qui fu possibile imboccare una strada nuova , che dal “”gruppo dei Cinque””, orgogliosamente fedeli ad un concetto di musica non accademico o scolastico, si estese in direzioni diverse, senza però mai rinunciare ai presupposti fondamentali di quel deciso orientamento. Ne recano tracce perfino le eccezioni: ad esempio gli spendidi Quartetti di Borodin, che a noi sembrano il visionario tentativo di conciliare i nuovi contenuti della musica russa emancipata nella sua individualità con le grandi forme della tradizione occidentale. E qualcosa di analogo, ancor più proiettato verso la conquista di spazi personali, è rappresentato dai Quartetti di Čajkovskj, che sostanziano di melodie, temi e ritmi russi un impianto formale fondamentalmente rispettoso delle forme classiche, pur con tutti gli aggiustamenti del caso. Naturalmente musica da camera non significa soltanto Quartetti e Sonate per violino o altri strumenti accompagnati dal pianoforte, ma anche pezzi di carattere e liriche per canto e pianoforte. E qui il discorso cambia, non implicando necessariamente il confronto con principi tecnico-formali legati ai modelli occidentali. Una lirica è un mondo a sè, che nasce e muore con il suo testo e le sue note: da essi soltanto è determinata. Il suo ambito non è prefissato, e può aprirsi liberamente al canto popolare nelle sue peculiarità modali, ritmiche e melodiche. Già il caso di Musorgskij è in questo senso illuminante. I suoi lavori per questi organici non sono altro che un prolungamento delle premesse realizzate nel teatro, e non stabiliscono alcun confronto con forme e linguaggi di altra provenienza: vivono per così dire di luce (e ombre) proprie, appunto per il fatto di non essere condizionati da strutture preventivamente fissate. Ma Musorgskij non ha mai composto Quartetti e Sonate, dove avrebbe dovuto fare i conti con condizionamenti che nel suo radicalismo rifiutava; come se una musica autenticamente russa non potesse e dovesse calarsi in ordinamenti formali appartenenti ad altri orizzonti espressivi. Il corollario è semplice nella sua evidenza: la musica russa si può esprimere soltanto in forme diverse da quelle occidentali, perchè è concettualmente, essenzialmente diversa. Ed emozioni ed idee che intimamente le appartengono non possono essere tradotte in tempi e luoghi che le siano estranei.

 

***

 

Tutta la storia della musica e della cultura russa dal secondo Ottocento può essere interpretata alla luce del conflitto fra una tendenza rigorosamente autoctona e una più o meno decisa apertura filo-occidentale: quest’ultima motivata dal desiderio di rivendicare il proprio rango di arte e di civiltà, tanto per contrapporsi quanto per mettersi alla prova e semmai arricchirsi tramite il contatto con altre tradizioni. La contrapposizione fra Oriente e Occidente è del resto uno dei temi fondamentali della storia del nostro secolo, e si ripercuote anche nelle scelte, autonome o imposte dei musicisti.

La mediazione avvenne invece proprio alla fine del secolo scorso, con il contributo mai abbastanza considerato di Rimskij-Korsakov. La sua linea risultò vincente non solo nel modo di presentare la musica dei compositori russi nel resto d’Europa, anche correggendoli e modificandone la sostanza, ma anche nella fisionomia data alla musica russa in patria, da quel centro di irradiazione potentissimo che fu il Conservatorio di Pietroburgo: città non a caso profondamente intrisa di cultura occidentale. Il conflitto, già intrinseco nella figura di Rimskij, si acuì considerevolmente negli anni che precedettero la rivoluzione, per venire poi perentoriamente, drasticamente sciolto dall’ideologia comunista, ancor prima che questa degenerasse in assolutismo dogmatico. Le strade di comunicazione con l’Occidente si interruppero improvvisamente, provocando una diaspora di musicisti che proprio per affermare i valori della musica russa, traditi in patria, dovettero riparare all’estero; a meno di non accettare una situazione che, paradossalmente, li costringeva ad uniformarsi o a negare proprio gli ideali artistici da cui erano mossi in senso nazionale. Storicamente, l’evoluzione della musica russa si arrestò proprio nel momento in cui ai musicisti non fu più possibile scegliere, se non con un atto individuale, scisso dalla collettività, fra tendenza nazionale e apertura filo-occidentale. Al dramma insito nell’indole russa se ne aggiunse così un altro, di portata più ampia ed eminentemente tragico: l’impossibilità di rafforzare le fondamenta di un rinnovamento che coincidesse con la raggiunta coscienza di sè e del proprio mondo artistico. Tutto ciò che è mirabilmente e terribilmente racchiuso nella risposta che il commissario per l’istruzione popolare Lunaciarskij dette a Prokofiev quando questi, nel 1918, gli chiese il permesso di lasciare la Russia: “”Lei è un rivoluzionario nella musica, noi nella vita; dobbiamo lavorare insieme. Ma se lei desidera andare in America io non la ostacolerò””. Come è chiaro, non era Prokofiev a tradire la Russia , ma la Russia a non riconoscere una parte di sè.

 

***

 

La grande attualità di Prokofiev va ben al di là della ricorrenza del centenario della nascita: in essa è rappresentata la condizione più generale dell’artista russo nel periodo successivo alla svolta sopra indicata. A differenza di Stravinskij, egli non tagliò mai il cordone ombelicale che lo legava alla patria, ma mantenne dei rapporti difficili, che tuttavia seppe sfruttare anche in senso creativo. Prokofiev è esattamente l’emblema dell’artista russo sradicato ma non isolato dal suo mondo: proprio perchè il conflitto continua a vivere in lui trasfigurato nelle misure dell’arte. Nelle sue scelte di campo, la Russia non è mai esclusa; ma è una Russia ideale, profondamente diversa da quella ufficiale dei suoi tempi, tenuta in vita dall’emozione e dal ricordo, e per così dire trasportata fuori dei suoi confini, posta a confronto con l’evoluzione delle forme e dei linguaggi della modernità. Le composizioni da camera che vengono presentate in questo ciclo, le Sonate, i Quartetti e le liriche, sono una sorta di compendio di tutti i motivi che finora abbiamo cercato rapidamente di toccare. Ciò che colpisce è anzitutto il profondo rispetto non solo per la forma esterna ma anche per la logica del pensiero architettonico fondato su schemi classici. Vi regnano un ordine, un equilibrio e un controllo stilistico che rispondono non soltanto ad aspirazioni di chiarezza linguistica e misura classica (nella disposizione dei tempi, nella configurazione dei temi, e via dicendo), ma anche al chiaro intento di seguire un esempio che vada nella direzione di un’arte di segno positivo e costruttivo. Ciò non impedisce affatto il rinnovamento delle soluzioni linguistiche, e ancor meno la cura del disegno tecnico-strumentale, in senso anche virtuosistico . In altri termini il tratto melodioso e chiaro, sensibile ed eloquente, non implica la rinuncia a quegli slanci e a quelle scabrosità ritmiche e armoniche così tipiche del suo stile. La ricerca della chiarezza, su cui il compositore sembra insistere particolarmente in queste opere, guarda all’obiettivo di una musica dai contorni nitidi e luminosi, ma non necessariamente neoclassica; il desiderio di mettere ordine nello svolgimento della creazione senza tuttavia cadere in forzate inibizioni è il segno distintivo della musica da camera e si risolve in una lotta fra istinto e razionalità, nella quale l’autodisciplina è in funzione della liberazione di forze primarie e viceversa. E queste forze primarie sono assai più di un pigmento superficiale, impermeabile agli strati più profondi della composizione; coincidono anzi con gli elementi fondamentali del comporre: sono l’energia motrice del ritmo la varietà del ritmo e la spontaneità della melodia. Qualcosa che ci appare intriso di spirito russo, nelle sue manifestazioni più diverse, canto popolare, rito religioso, allegria grottesca, ironia scherzosa, di cupa meditazione. Anima russa, insomma, sempre presente e sempre riconoscibile.

Riconoscibile subito se messa accanto ad opere dello stesso genere di altri autori europei, rispetto a Schönberg , Ravel , Hindemith e Debussy, la musica di Prokofiev non ha niente da invidiare sul piano della modernità, della novità del linguaggio, del magistero compositivo, quest’ultimo reso ancor più lucente da una vocazione alla brillantezza virtuosistica in larga parte legata alla sua natura di musicista “”pratico””. Ma il colore, il timbro inteso non solo in senso propriamente musicale, lo rende inconfondibile perfino nell’eclettismo che sovente ammanta le invenzioni apparentemente più contrastanti e sfuggenti. La vena popolare, che ha le sue radici nel mondo incantato dell’infanzia (anche quando è visto con gli occhi dell’adulto nè felici nè innocenti come in Pierino e il lupo), scorre come una fonte tranquilla e rassicurante, irrorando di linfa vitale i pascoli verdeggianti della fantasia. Nella musica da camera tutto questo si manifesta in un possesso stabile e gioioso di valori che nessuna tragedia può offuscare, e nessun condizionamento esterno minacciare.

 

***

 

Dmitrij Sostakovič è autore di quindici quartetti per archi , che esauriscono pressochè tutto il corpus della sua musica da camera e abbracciano un periodo che va dal 1938 al 1974, l’anno che precedette la sua morte. Nessun compositore del Novecento si dedicò altrettanto assiduamente a questa forma, per tradizione considerata la più nobile e pura della musica strumentale stessa. Per Sostakovič il dialogo fra i quattro archi torna ad essere quello che era per gli antichi, un modo di conversare pianamente, concentrandosi, e di dare compiuta espressione ad un pensiero musicale: in altri termini un modo di realizzare una equilibrata fusione di densità concettuale, compattezza formale e pathos. Il suo punto di riferimento è però individuabile negli ultimi quartetti di Beethoven, da cui era partito anche Bartòk per i lavori con lo stesso organico, seppure spingendosi verso una deduzione radicale di principi compositivi assoluti, collocati al di là dell’ignoto. Non è così per Sostakovič. Sostakovič riprende da Beethoven molte sue conquiste nell’ambito del linguaggio quartettistico: per esempio l’impiego del meccanismo contrappuntistico della fuga; la formula del recitativo lirico di forte espansione melodica, che porta a squarci e ora elegiaci ora di drammaticità quasi teatrale, le forme severe della variazione (per esempio nel Secondo Quartetto); di suo aggiunge una tensione armonica esasperata o viceversa una completa trasparenza diatonica, l’unica di carattere dinamico, l’altra di tipo sospensivo, ma entrambe miranti a incrementare l’energia espressiva. E ancora: ricorrente è la presenza di ostinati ritmici, veri e propri stilemi di un’ansia di riempire gli spazi e i tempi della musica in una sorta di horror vacui, nonchè caratteristica la proliferazione dei movimenti, dai cinque del Terzo Quartetto fino ai sette dell’Undicesimo Quartetto; e sei, tutti Adagio, sono nell’ultimo portentoso Quindicesimo Quartetto, vera summa funebre dell’arte tutta di Sostakovič. Per Sostakovič il quartetto era un mezzo pressochè illimitato di creazione artistica, nel quale si riunivano tutti gli attributi della composizione. Resta semmai da precisare il senso in cui questa scelta si muoveva, e che cosa vi fosse implicato. La constatazione che l’interesse per questa forma eletta della musica da camera si manifestasse a partire dal drastico giro di vite imposto dalla

censura di regime in nome dell’estetica del “”realismo socialista”” (Sostakovič fu duramente colpito dagli attacchi della banda staliniana fin dal 1935) può far supporre un ripiegamento nel privato di cui proprio la musica da camera, ideologicamente influente perchè di contenuto inafferrabile, sarebbe dimostrazione.

Questa tesi è suggestiva e in parte accettabile, ma oscuri – desolati, mesti, cupi, disperati, funerei- che continuamente incontriamo nei Quartetti, accanto a scoppi d’iroso umorismo e di sarcasmo impotente, come se si trattasse di una sorta di reazione affidata a simboli e segni criptici o di protesta contro la situazione politica, sociale ed artistica della Russia sovietica, è meccanica e semplicistica. Il pessimismo di Sostakovič non è di origine storica, non è la risposta privata di

un singolo artista all’ottusità burocratica e all’insensibilità culturale degli apparati del regime, ai quali per altro egli diede in molte occasioni il suo appoggio: questo pessimismo è di natura metafisica, universale, e riguarda l’essenza stessa della vita e della creazione.

Di più, esso è radicato nell’anima russa, immodificabile da sempre, sempre di nuovo gemente sotto molteplici apparenze.La camera russa è quella dei bambini di cechoviana memoria contemplata nell’atmosfera senza sole della maturità; dove le note risuonano pregne di euforia e di disperazione, di slanci e di abbattimenti, di utopie e di amare disillusioni. La musica da camera ci trasmette questi suoni in maniera singolarmente amplificata, unendo gli spunti del folklore alle ardite sperimentazioni della musica colta, al passo con i tempi ma sempre eternamente rivolta a sondare i misteri immutabili dell’inconscio e dell’ineffabile: russa e internazionale insieme. Intorno a quel centro si dipanano umori, sentimenti, stati d’animo, pensieri e azioni.

Voci che riempiono il nulla e che pure testimoniano l’ineludibile, meraviglioso destino delle cose umane.

Irina Zhurina, Galina Preobrazhenskaja, Liana Issakadze, Franz Hauk, Quartetto Glazunov, Danil Shafran, Anton Ginzburg
Asolo Musica, XIII Festival Internazionale di Musica da Camera 1991

Articoli