Nè trilli nè arpeggi, il piacere di cantare un po’ tacendo
Ci apprestiamo ad ascoltare un programma di pezzi rari di Gioachino Rossini. Rari e inconsueti giacché non appartengono al teatro, con il quale siamo per lo più abituati a identificarlo, o alla musica sacra, che nei suoi capolavori di maggiori dimensioni è entrata ormai a far parte della nostra coscienza dopo reiterate e importanti esecuzioni, bensì alla produzione per coro e per complessi vocal con accompagnamento di strumenti, in combinazioni spesso curiose se non stravaganti, a seconda delle occasioni e delle circostanze, sovente la lor parte misteriose. Molte delle quali non ci sono infatti neppure note con sicurezza, o sono state ricostruite con ragionevole approssimazione solo nel corso delle pubblicazioni iniziate nel 1954 da parte dei Quaderni Rossiniani patrocinati dalla Fondazione Rossini di Pesaro, in collaborazione con la Casa Ricordi.
Gran parte di questi pezzi appartengono all’ultima produzione rossiniana, quella che egli volle definire, con ironia non priva di severa serietà, Péché de vieillesse. In modo particolare essi sono distribuiti nei primi tre album dedicati interamente alli musica vocale. Del primo, intitolato Album italiano, fa parte La passegiata [sic], quartettino per soprano, contralto, tenore e basso con pianoforte Più nutrita la presenza nel secondo volume, Album français; vi si trovano l’ottettino per 2 soprani, 2 contralti, 2 tenori e 2 bassi senza accompagnamento di pianoforte Toast pour le Nouvel An La Nuit de Noël per basso («Un vecchio») e otto pastori (2 soprani, 2 contralti, 2 tenori e 2 barito ni), con accompagnamento di pianoforte e armonium, di cui esiste anche la versione italiana che comincia con le parole «Tu che a salvarci», qu prescelta, e infine il Choeur de chasseurs démocrates, per coro maschile con accompagnamentc di tam-tam e due tamburi soltanto, di cui sappiamo che fu composto su richiesta della baronessa Rothschild ed eseguito da cantori dell’Opéra allo Château de Ferrières in occasione della visita d Napoleone III nel dicembre 1862. Il volume III, Morceaux réservés, contiene all’inizio il Chant funèbre à Meyerbeer, per coro maschile con accompagnamento di rulli di tamburo (il titolo completo reca però un’iscrizione più significativa: «Quelques Mesures de Chant Funèbre. A mon pauvre ami Meyerbeer G. Rossini. 8 heures du Matin. Paris, 6 Mai 1864»); ad esso seguono l’Ave Maria per coro con accompagnamento d’organo o pianoforte, che secondo il biografo di Rossini Giuseppe Radiciotti sarebbe stata dedicata all’imperatrice Eugenia per far concedere al vecchio amico Michele Carafa la pensione che gli era stata tolta, Le Chant des Titans per quattro bassi all’unisono e accompagnamento di pianoforte e armonium, su cui specialmente dovremo ritornare, la Preghiera per otto sole voci (2 tenori I, 2 tenori II, 2 baritoni, 2 bassi, senza accompagnamento) e da ultimo Le Départ des Promis, Tyrolienne Sentimentale, per quartetto (2 soprani all’unisono e 2 contralti all’unisono) con accompagnamento di pianoforte. Restano esclusi da questo elenco i due cori a tre voci femminili con pianoforte La carità e La speranza (quest’ultimo un riadattamento dall’Edipo Coloneo, 1817), su parole francesi rispettivamente di Louise Colet e Hippolyte Lucas, eseguiti per la prima volta nella Salle Troupenas a Parigi il 20 novembre 1844 e ristampati con traduzione italiana da Ricordi nel 1991 e 1992.
Siamo dunque di fronte a lavori di circostanza, di dimensioni brevi e scritti da Rossini per il proprio piacere, o dietro richiesta di amici e ammiratori, come gli era sempre capitato. Ciò esclude che sia possibile trovare in essi tratti unitari, o collegamenti che vadano al di là di semplici coincidenze, anche quando il complesso vocale è accompagnato dal solo pianoforte. E per quanto la tentazione sia forte, non pare verosimile attribuire a Rossini la intenzione di rifarsi ad analoghi modelli della letteratura classica e romantica tedesca, che non sappiamo fino a che punto conoscesse e da cui comunque lo allontanavano troppi fattori e diaframmi d’indole e di «contenuti». Indubbiamente il periodo che abbraccia molti dei «peccati di vecchiaia» è contrassegnato da un deliberato distacco dai tempi nuovi e dalle mode allora imperanti, nonché dall’isolamento in una personalissima gerarchia dei valori della musica: anche il gusto per la dimensione privata del fare musica non è estraneo a questo ritrarsi dal mondo in una solitudine tanto più ambigua quanto mai veramente assoluta. E allora anche la composizione di pezzi vocali destinati all’esecuzione non solistica ma collettiva, «a perfetta vicenda», presuppone una scelta di campo, in un esercizio sempre più affinato della scrittura e dello stile. Come scrive Bruno Cagli, «la scrittura è di straordinaria eleganza e la mano del compositore non cede mai alle lusinghe più spiccate del soggetto, ma ad esso si accosta con quella lieve ironia e con quel distacco che saranno la cifra dominante della sua ultima produzione vocale. L’accademia all’italiana, e cioè l’esibizione musicale nell’ambito ristretto delle famiglie aristocratiche, il concerto da salon francese, di moda in quegli anni, sono già una misura ideale per il Pesarese, ormai alieno dai clamori del teatro e dalle grandi sale dove si cimentano i lions del trionfante romanticismo».
Ciò che colpisce in questi lavori è la riduzione all’essenza del linguaggio polifonico, la rinuncia alle bellurie squisitamente vocali, come i trilli e gli arpeggi gorgheggianti, la chiarezza della costruzione contrappuntistica mai esibita o portata all’eccesso, ma semmai alleggerita e impreziosita. Tutta la prima parte di questo concerto, così com’è impaginata, s’iscrive in un’atmosfera di crepuscolare elegia, di purezza espressiva che fa intravedere sullo sfondo, ma in lontananza, la pungenza delle invenzioni ritmiche proprie delle opere buffe, o la solenne monumentalità di quelle serie. Il tono religioso dell’Ave Maria, tenuta tutta sottovoce salvo che nelle invocazioni ripetute alla Madre di Dio perché interceda per gli uomini di buona volontà, è piuttosto un richiamo alla pietas intesa come amore, dolcezza e speranza, non certo categorica affermazione di fede. Si direbbe quasi un affidarsi fiducioso alla musica come riempimento di un’assenza, forse un ritorno a certe ingenue memorie dell’infanzia. Questo clima si manifesta anche nella Preghiera per otto sole voci maschili, quasi un prolungamento ulteriormente depurato di uno stato d’animo nostalgico: anche qui le voci procedono per lo più insieme e sottovoce in tempo «Andantino», con una progressione che raggiunge l’apice nell’invocazione «porgi a noi la mano», per ricadere subito al ripresentarsi dell’immagine del «dolore»: una pausa generale isola la frase dei primi tenori «Signor, deh!», prima della duplice ripresa e della dissolvenza finale in ppp, «adagio». Incorniciato dai due cori femminili La carità e La speranza, entrambi preceduti da un’introduzione pianistica che anticipa in modo singolare certi passi della Petite Messe Solennelle, il Canto funebre su parole di Emilien Pacini è un esempio della vena più graffiantemente ironica dell’umor nero rossiniano: la caisse roulante accompagna il canto delle voci maschili in questo compianto per la morte di Meyerbeer, «mon pauvre ami»: omaggio a un grande della scena, sincero almeno nel riconoscere la fragilità della grandezza umana e l’ineluttabilità del destino che tutti affratella. La notte di Natale è invece una pastorale sul ritmo cullante del pianoforte a cui si unisce l’armonium: un dialogo sommesso tra il basso e il coro misto descrive la cal-ma e la gioia della sacra notte, il dono incommensurabile della pace.
Di tutt’altro carattere è invece la seconda parte, che ci ripropone l’immagine più effervescente del genio di Rossini. Essa si apre con il Choeur de chasseurs, allegro e scanzonato nei suoi ritmi vivaci e un po’ chiassosi, con ampi salti d’intervalli e caricaturali acciaccature. Segue il brano senz’altro più attraente dell’intera raccolta, il Canto dei Titani, specificati nel sottotitolo come «Encelade, Hypérion, Coelus, Polyphème, 4 Fils de Titan, le frère de Saturne». L’organico comprende, oltre a «quatre voix de Basses-de haute Taille Soli à l’unisson», l’accompagnamento di pianoforte con armonium ad libitum: il testo è anch’esso di Emilien Pacini, librettista-editore e per molti anni censore dei teatri parigini. Maggiori informazioni su questo «petit morceau vocal de ma composition» si possono desumere da una lettera inviata da Rossini il 15 ottobre 1861 ad Alphonse Royer, presidente del Comitato della Société des concerts du Conservatoire di Parigi: essendogli stata richiesta una cantata per solennizzare l’erezione di un monumento a Luigi Cherubini, Rossini si era rifatto a una composizione per canto e pianoforte scritta in origine sul testo metastasiano «Mi lagnerò tacendo» per uso del conte Belgioioso di Milano, ricavandone il canto di un Titano innamorato che parafrasava Mozart («Crudel perché finora farmi penar così?»). Sulle nuove parole francesi di Émilien Pacini («Guerre!! Massacre! Mort! Carnage!») esso divenne un furibondo canto di guerra dei Titani che danno l’assalto all’Olimpo. In questa nuova forma, adattato per quattro voci di basso profondo all’unisono, strumentato per grande orchestra, Le Chant des Titans venne eseguito a Parigi in onore di Cherubini, il 22 dicembre 1861, con grande successo. Più tardi venne utilizzato anche per lo scoprimento di un monumento di Mozart a Vienna. Nella versione con accompagnamento di pianoforte e armonium ad libitum, questo pezzo si ricollega singolarmente alla Petit Messe Solennelle, ed è una delle pagine più impressionanti del vecchio Rossini. Da notare l’effetto tonitruante dei quattro bassi all’unisono, e l’incisiva presenza del pianoforte, con i suoi sforzati e staccati.
Simmetricamente complementari sono i due brani successivi, la deliziosa Passeggiata, un «Andantino grazioso» introdotto da una lunga e fiorita cadenza del pianoforte, e Le Départ des Promis, il cui carattere finemente parodistico-popolareggiante è ben sintetizzato dal sottotitolo, «Tyrolienne sentimentale», quartetto femminile del tutto degno delle ultime epigrafi rossiniane. Al Rossini più esilarante, quello degli stralunati concertati delle sue opere, si ricollega invece il Toast pour le Nouvel An, un ottettino di sublime scrittura e di irresistibile comicità con il suo testo infarcito di rime martellanti, di lazzi e doppi sensi. La carrellata si conclude così sui botti di una delle più tipiche esplosioni del genio di Rossini, dove il nonsenso sembra essere specchio per metà magico e per metà deformante di un congedo festoso dalla serietà delle cose: troppo serie, appunto, per esser prese sul serio.
Qualche osservazione di carattere più generale può essere utile a questo punto per racchiudere, se non in unità, in un cerchio questo inconsueto programma. Partendo anzitutto dal trattamento delle voci, che si uniforma a quella misura che è anch’essa sintomo di una riduzione del tasso virtuosistico della scrittura rossiniana: una riduzione certamente intenzionale e sapientemente realizzata senza rinunciare all’arguzia e alla fantasia. La tessitura non esce mai dall’ambito dell’estensione più naturale delle voci, ma si caratterizza in rapporto al testo con l’invenzione di figure e incisi soprattutto ritmici che hanno una forte pregnanza musicale, secondo quell’astrazione dal significato nudo e crudo della parola che si ritrova in modospeciale nel suo tardo stile vocale. In altri termini, la definizione di una forma musicale primigenia, per quanto limitata a pagine di circostanza, pervade anche il testo riflettendone il clima espressivo e dà l’impronta al pezzo senza perdersi troppo in dettagli descrittivi. Ancora Cagli chiarisce che sarebbe errato considerare questo procedimento come un segno di indifferenza al testo: «fu piuttosto il rispetto di un principio estetico ben preciso che aveva informato la musica del Barocco e del periodo classico, adesione a quel «prima la musica e poi le parole» che non era soltanto la conseguenza della presunta invadenza di cantanti e maestri di cappella, ma piuttosto constatazione della impossibilità della musica di seguire da vicino il testo nelle sue peculiarità più minute». Che le trovate di Rossini siano anche qui di natura più musicale che drammatica è da porsi in stretta connessione con la capacità di articolare in senso contrappuntistico (il contrappunto come modo di pensare e di costruire più che come stile storicamente individuato) il discorso fra le varie voci, in forma compatta. E altrettanto decisivo è l’impiego del pianofore, o dei suoi sostituti, come mezzo di definizione ambientale, quasi secondo l’estetica del pezzo di carattere. Il fatto che la maggior parte di questi brani sparsi sia confluita nella raccolta estrema non dipende solo da ragioni cronologiche bensì da una affinità stilistica e compositiva: all’apice della quale sta la Petite Messe Solennelle, come monumento più alto di una nuova coscienza artistica. Tutto è reso possibile dalla finta modestia del «pianiste de la quatrième classe», così declassatosi apposta per poter rivendicare una libertà d’azione a tutto campo: avendo ancora molto da dire un po’ tacendo e ancor più celiando.
Michael Graves / Martino Faggiani, Coro da Camera Accademia di S. Cecilia
XXV Festival delle Nazioni Città di Castello 1992