Riflessioni su “”Mozart e dintorni””
Il 27 gennaio 1906, in occasione del 150° anniversario della nascita di Mozart, Ferruccio Busoni pubblicò sull’edizione del mattino del quotidiano berlinese “”Lokal-Anzeiger”” una serie di aforismi mozartiani per cercare di fissare, in modo più o meno compiuto, le caratteristiche dell’immagine di colui che veniva definito “”la più compiuta apparizione di talento musicale che si sia avuta finora””. Può essere utile trascrivere qui alcuni di questi aforismi (trentacinque in tutto, tanti quanti erano stati gli anni della vita di Mozart: Busoni, si sa, era un fanatico della magia simbolica dei numeri). Questi per esempio:
“”La sua breve vita e la sua fecondità sollevano la sua perfezione al livello del fenomeno”” (n. 3).
“”Simile al capolavoro di uno scultore, la sua arte è un’immagine finita da qualsiasi lato si contempli”” (n. 6).
“”Le sue misure sono sorprendentemente esatte, ma si lasciano misurare e calcolare”” (n. 15).
“”Sta così in alto, che vede più lontano di tutti, e per ciò rimpicciolisce un poco ogni cosa”” (n. 20).
“”In lui antichità e rococò si uniscono in modo perfetto, pur senza che ne risulti un’architettura nuova”” (n. 31).
“”E’ il numero finito e perfetto, la somma tratta, una conclusione, non un principio”” (n. 34).
Abbiamo scelto di proposito alcuni degli aforismi più illuminanti tra quelli che cercano di inquadrare Mozart in una prospettiva formale e storica, tralasciando invece quelli che si rifanno all’immagine comunemente tradizionale del “”divino fanciullo””. Anche se Busoni non lo dice espressamente, Mozart è anche per lui un fenomeno prodigioso, ma non un enigma: perché “”insieme all’indovinello””, proclama in un altro aforisma, il quattordicesimo, “”ti porge la soluzione””. In altri termini, Mozart non può essere considerato un segmento imperscrutabile della storia, ma un cerchio chiuso nella sua perfezione. E tale perfezione si staglia sulla sua epoca rendendo impossibile ogni paragone.
Un ciclo di concerti basato sul tema “”Mozart e dintorni”” può quindi sembrare a prima vista ingeneroso soprattutto verso i musicisti chiamati a rappresentare i dintorni: un po’ come se di un paesaggio si facessero vedere gli scorci sublimi e più belli – belli anche in quanto culminanti – accanto a quelli di contorno, secondari. Ma non è esattamente così. Mozart non fu un rivoluzionario né un innovatore, bensì un osservatore attento del mondo che lo circondava: forse il più grande osservatore che la storia della musica abbia mai avuto, un attore e un ritrattista senza pari. La sua visione non esclude dunque la presenza degli altri, e anche se la rimpicciolisce un poco ne è per così dire il completamento, il compimento, la piena realizzazione. Se a lui si guarda beati e disarmati, lo si fa senza stabilire confronti: in un certo senso, egli parla anche per tutti gli altri, ne riassume i caratteri e li rifonde in un’armoniosa, agile sintesi.
I1 modo stesso in cui Mozart si pone di fronte agli altri musicisti è istruttivo. Non vi è in lui il senso della missione intesa come progresso, come scelta ideologica o personale, ma un’esatta intuizione di ciò che gli è necessario per realizzare un’idea: ed è un’idea che può mettere radici in ogni sentimento e atto umano. Questo tratto si esprime nella maniera più compiuta nel teatro, dove la stessa fusione dei generi tragico e comico – dal punto di vista storico la più grande svolta nelle vicende dell’opera prima del dramma musicale wagneriano – non è il risultato di un’intenzione, bensì di un’intima necessità prima di tutto umana. Mozart si identifica con ciascuno dei personaggi del suo teatro perché in ognuno di essi vi è una scintilla insopprimibile di verità: così come nella situazione più tragica vi è sempre un tratto di spirito, e in quella più allegra incombe sempre un risvolto tragico. Così è infatti la vita: ed è da essa che Mozart trae i suoi impulsi creativi. La sua libertà deriva da questa capacità di immedesimarsi nelle situazioni più diverse, la sua universalità riposa su questa versatilità. Con un paradosso si potrebbe affermare che Mozart è anche i suoi dintorni.
L’Ouverture, testa di ponte del nuovo statuto dell’opera. Il Concerto, momento di affermazione individuale dell’importanza e dell’indipendenza dello strumento solista e presa di possesso della realtà anche come esecutore. La Sinfonia, emblema di un modo nuovo, dialettico, di pensare in grande la forma-sonata attraverso la compiutezza del proprio eloquio. Sono questi i tre generi rappresentati in questo ciclo. Esemplari di tre modi diversi di tirare le fila di un discorso che è insieme radicato e fuori dal suo tempo. Tedesco di nascita, italiano di educazione, soggetto nella sua prima giovinezza all’influsso di un maestro di tendenza fortemente francese come Gluck, Mozart assorbì gli insegnamenti e le leggi delle tre scuole senza specialmente inclinare, nel suo modo di comporre, verso l’una o l’altra. Il suo carattere musicale sfociò in quella indipendenza e in quella oggettività che, libere da ogni manierismo, prive di qualsiasi tinteggiatura nazionale, dovevano avere come risultato necessario la nascita di un’opera d’arte musicale assoluta, sottile e pura, incurante di differenze di lingua, di costumi e di tempi. Tutto si amalgama in una ricchezza di contenuti, in una grandiosità d’impianto che trasforma definitivamente gli elementi dei modelli più disparati (Haydn in testa) in sostanza finita e la conduce dalla freschezza impellente e acerba dell’adolescenza allo splendore maturo della vita adulta.
Mozart, oltre al talento avuto in dote dalla natura, ebbe la fortuna di vivere in un’epoca nella quale si ponevano le basi della chiarezza del discorso musicale autonomo. I suoi tempi erano positivi, costruttivi, favorevoli all’ordine e all’architettura. La musica strumentale e sinfonica aveva acquistato una nuova autonomia, una nuova complessità, una nuova eloquenza, ma non aveva ancora agitato lo spettro del suo primato ambiguo nel concerto delle arti, non ancora estorto confini infiniti, stabilito recinti da abbattere o utopie da perseguire. Ciò che distingue Mozart da Beethoven non è una minor potenza ma un uso discreto della potenza, un accrescimento del bello mediante l’ingrandimento delle proporzioni anche nel senso della sottigliezza e della trasparenza. La naturalezza faceva sì che miracoli e diavolerie fossero ancora amici dell’ordine, il temperamento non richiedesse nervosismo, l’idealismo immaterialità, il realismo bruttezza. Una koinè linguistica si stava affermando proprio grazie a dintorni chiaramente delineati e non fluttuanti, e Mozart ne poteva approfittare senza ribaltare le convenzioni o imporre nuove regole. Il suo segreto, e la sua fortuna, fu di poter vedere e dire altre cose senza dover inventare una nuova lingua per farlo.
Esistono, nella storia della musica come in quella delle altre arti, periodi ciclici e opposti di consolidamento e di trasformazione, di chiarezza e di confusione. I creatori condannati a caderci dentro ne risentono. Mozart visse in un’epoca nella quale l’area della trasformazione era smisuratamente grande, ma non tale da far sentire impellente il bisogno di uscire dalle mura consolidate.
Wolfgang Amadeus Mozart – Concerto n. 27 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra K 595
Il K. 595, l’ultimo Concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, fu terminato il 5 gennaio 1791 ed eseguito durante un’””accademia”” privata il 4 marzo, in quella che sarebbe rimasta l’ultima esibizione pubblica di Mozart come solista. Pe quello che doveva rimanere il suo addio al genere musicale più fortunato e a lui più gradito, Mozart si orientò verso modi intimistici e relativamente semplici, tornando all’organico orchestrale ridotto dei primi concerti viennesi, senza trombe e timpani. Il clima è decantato e in alcuni tratti nostalgico, perfino astratto; manca qualsiasi esibizione virtuosistica, come pure ogni tentazione esteriore al tripudio e alla gioia: tutto è dominato invece da una tristezza quasi metafisica, fatta di dolcezza e rassegnazione. Alla eccezionale ricchezza tematica del primo movimento fa seguito la malinconia quasi enigmaica del “”Larghetto””, con un tema di “”romanza”” pensoso e cantabile. Il Rondò finale cita nel tema principale il motivo del Lied Sehnsucht nach Frühling (Desiderio di primavera), composto in quello stesso periodo: è una proposta melodica di una amabilità quasi popolare, capace di giocare con un’infinità di intrecci all’interno di una costruzione tanto elaborata quanto scorrevole.
Gianluigi Gelmetti / Michele Campanella, Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Teatro dell’Opera di Roma, Stagione Lirica 2001