«Tutto il mio divertimento è il teatro»
Sfogliammo le pagine all’indietro e arrivammo all’allegra fuga di Papageno e Pamina da Monostatos. Guarda, disse indicando con il dito. Qui arriva, come tra parentesi, un altro messaggio: l’amore è la cosa migliore della vita. L’amore come significato segreto del vivere.
Ingmar Bergman, Lanterna magica
Sulla genesi del Flauto magico, e piú in generale sulle opere dell’ultimo anno di vita di Mozart, sono fiorite molte leggende: piú che la scarsità, è l’elusività dei documenti in nostro possesso a renderle, se non legittime, almeno in parte giustificate. Ma non solo. Che si parta da una ricostruzione delle circostanze esterne alla sua nascita, o che invece si affrontino direttamente il testo e la musica interrogandosi sulla loro sostanza e il loro significato, Il flauto magico è un’opera pervasa di mistero, avvolta in un’aura favolosa: e accettare questa condizione, senza specularci troppo sopra, è l’unica via per entrare dentro il suo mondo. Questo mondo ha tuttavia la sua ragion d’essere e la sua realizzazione non in principi astratti ma nella vita del teatro, nella concretezza specifica della scena: è lí che Mozart e Schikaneder si ritrovarono a lavorare per dare corpo a un’idea insieme attuale e ambiziosa. L’idea era attuale nel senso che esistevano in quel frangente a Vienna tutti i presupposti per realizzarla; ma anche ambiziosa, perché, raccogliendo una tendenza del tempo, mirava a superare le convenzioni piú o meno consolidate del costume teatrale, e non solo di quello. Non si trattava tanto di sconvolgere queste abitudini quanto di dare a esse una nuova veste sul piano delle possibilità eterogenee offerte dal teatro come tale, potenziato al massimo grado nei suoi elementi costitutivi.
Tutti gli accadimenti scenici e musicali che si svolgono nel Flauto magico seguono una dinamica eminentemente teatrale, sganciata però da una logica drammatica coesa, stringente e unitaria per principio. Se nelle opere italiane Mozart aveva potuto abbattere le barriere dei generi fino al loro intreccio e fusione, facendo dei pezzi d’insieme il culmine dell’azione e della sintesi drammatica il momento di massima tensione musicale, nel Flauto magico non esisteva un terreno già coltivato da rimestare, né una tradizione su cui riflettersi. Semmai c’era un genere da fondare: quello della «Teutsche Oper», nome col quale Mozart registrò Die Zauberflöte nel catalogo delle sue opere alla data del luglio 1791, quando ne cominciò la strumentazione. Opera tedesca non significava però automaticamente fondazione di un genere ma semplicemente scelta, oltre che di una lingua, di una forma e di uno stile. La forma era quella del Singspiel, ossia una forma non interamente musicata ma comprensiva di dialoghi parlati e di musica; lo stile quello della Zauberoper, l’opera di argomento magico, mistura di tragico e di comico, di ‘meraviglioso’ e di bonaria trivialità, nella quale elementi fiabeschi intercalati a caratteri allegorici si esprimevano in un tono popolare non di commedia realistica ma di racconto fantastico, senza spazio né tempo reali.
Tanto il Singspiel quanto la Zauberoper, pur appartenendo in larga misura alla produzione di moda, vivevano ai margini del grande teatro di corte, che a Vienna continuava a essere italiano, e non costituivano ancora un genere fisso, con regole prestabilite. Gli ingredienti dell’intreccio fantastico, con inserti comici e simbolismi vaghi, addirittura oscuri, tali però da colpire l’attenzione in modo diretto, un po’ divertendo un po’ edificando, trovavano la loro piú attraente realizzazione negli effetti spettacolari ricercati e ricorrenti con cui si moltiplicavano le sorprese, poco curando la verosimiglianza: improvvisi capovolgimenti delle situazioni, travestimenti e salvataggi spericolati, oggetti magici, frequenti cambiamenti di scena con conseguente spiegamento di macchinari, interventi di animali e di mostri, di fate e di spiriti, ora malvagi ora benigni. E, questo, l’armamentario della Maschinen-Komödie, che nella Vienna di allora godeva di grande popolarità, forte di un linguaggio figurativo ingenuo, prossimo alla tipologia della fiaba: la cornice cui appartiene anche Il flauto magico ed entro cui sarebbe nata la nuova «opera tedesca». Della quale il sostenitore piú scaltro era allora proprio un oriundo italiano, Karl von Marinelli, impresario di successo al Teatro Popolare del quartiere di Leopoldstadt. E se è vero che il pubblico che ne seguiva le vicende era principalmente quello del popolo, incolto ma non impreparato, attirato dalla lingua e dall’apparato magico, a poco a poco la fama di quegli spettacoli si estese raccogliendo adesioni per cosí dire piú qualificate: una condizione essenziale per spiegare perché Mozart accettasse la commissione di un’opera di quel tipo da parte del suo amico Emanuel Schikaneder.
Costui, impresario, autore drammatico, attore e cantante, era riapprodato a Vienna nella primavera del 1789, rilevando il teatro del sobborgo auf der Wieden («Wiener Freihaustheater auf der Wieden», questo il nome completo) e cominciando a darvi gli spettacoli della sua compagnia itinerante nell’estate: aveva allora quarantuno anni, otto piú di Mozart. Una consultazione anche rapida del suo repertorio ci illumina su un fatto: Schikaneder non cominciò affatto col rappresentare testi popolari e commedie fiabesche ma arrivò a essi poco a poco intuendone le potenzialità, anzitutto teatrali; ciò che per lui non voleva dire soltanto successo di cassetta. Schikaneder si era già fatto conoscere nei paesi dell’Austria e della Baviera con un repertorio che comprendeva abitualmente i grandi testi di Lessing e di Schiller, oltre che di Shakespeare: Re Lear, Amleto, Macbeth, in spettacoli nei quali fungeva, oltre che da impresario, da attore (anche La tempesta era un suo pezzo forte). A Ratisbona, dove si era poi fermato per un certo tempo, aveva allargato le sue esperienze di impresario e cantante fiutando il cambiare delle mode: dal dramma all’opera, e dall’opera alla commedia spettacolare, fino al genere saliente e favorito dell’opera magica con dialoghi. Sotto questo profilo Die Zauberflöte non nacque affatto come un progetto senza radici; al contrario, esso fu un punto di arrivo, la cui maggiore attrattiva era data dalla possibilità di una sperimentazione teatrale su un terreno fertile ma non ancora consolidato. Un punto di partenza, quando nel marzo del 1791 all’impresa si uní Mozart.
Una delle tesi piú leggendarie vuole che Il flauto magico nascesse da una crisi finanziaria del teatro di Schikaneder e dalla conseguente richiesta da lui fatta a Mozart di `salvarlo’ per amicizia. Sono false l’una e l’altra cosa. Schikaneder non si trovava affatto in difficoltà economiche, ma anzi in un momento propizio per tentare una «grande opera», denominazione con cui fin dall’inizio venne presentato il libretto. Quanto a Mozart, nonostante le sue prospettive si fossero complicate dopo la morte dell’imperatore Giuseppe II, che lo proteggeva, si trovava anch’egli in pista di lancio, decisissimo a mantenere le posizioni acquisite; senza contare che difficilmente avrebbe accettato di dare una mano a Schikaneder solo per amicizia: un’amicizia peraltro neanche troppo stretta, nonostante la comune fede massonica. Il progetto del Flauto magico dovette sembrargli invece una magnifica occasione per sperimentare a sua volta nuovi orizzonti, giacché conosceva assai bene le possibilità della «troupe di Schikaneder»; né ciò d’altra parte escludeva che egli cogliesse la prima occasione per tornare sulla strada dell’opera italiana, come La clemenza di Tito (la cui composizione s’intreccia con quella del Flauto magico) avrebbe dimostrato. Tutte le testimonianze di Mozart che ci sono rimaste, soprattutto le lettere alla moglie Konstanze, chiariscono con quanto entusiasmo e convincimento egli sposasse l’idea della grande opera tedesca: non certo per ricavarne soltanto un successo di periferia. Tanto Schikaneder, l’autore del libretto, quanto Mozart con la sua musica si misero dunque al lavoro nella assoluta convinzione di creare qualcosa di importante per loro stessi prima ancora che per il loro pubblico: e il teatro lo avrebbe sanzionato. Questo ‘pensare in grande’ è la premessa stessa del Flauto magico; al punto che diviene questione assai secondaria congetturare sulla paternità del libretto: è del tutto verosimile che Schikaneder si facesse aiutare non solo da Karl Ludwig Giesecke, poi autoproclamatosi coautore del testo, ma anche da altri membri della sua compagnia, come era prassi nel suo teatro. Quanto a Mozart, la sua presenza non si limitò alla composizione della musica ma agí anche a fondo sul libretto, in fase sia progettuale che realizzativa, secondo la sua abitudine. Il confronto degli autografi lo dimostra senza eccezione. Il risultato che conosciamo fu la conseguenza non solo di un ‘pensare in grande’, ma anche di un ‘agire insieme’.
Fonte primaria del Flauto magico è la raccolta Dschinnistan oder Auserlesene Feen- und Geistermärchen («Jinnistan ovvero Raccolta di fiabe di fate e di spiriti») edita da Christoph Martin Wieland tra il 1786 e il 1789: in particolare la fiaba Lulu oder die Zauberflöte («Lulu ovvero Il flauto magico») del parroco scrittore August Jakob Liebeskind. Fonti secondarie del repertorio fiabesco sono invece un Oberon, König der Elfen (Oberon, re degli Elfi) di Karl Ludwig Giesecke, già rappresentato da Schikaneder con la musica di Paul Wranitzky e visto anche da Mozart a Francoforte nell’ottobre del 1790 (fu in quell’occasione che scrisse alla moglie la frase che qui figura in epigrafe come titolo) e il Singspiel Hüon und Amanda (1789) di Friederike Sophie Seyler. Per la tessitura morale dei misteri iniziatici e per l’ethos illuministico del libretto, nonché per l’ambientazione orientaleggiante, antico-egizia, alcuni motivi provengono dal dramma eroico Thamos, König in Agvpten di Tobias Philipp von Gebler (già musicato da Mozart anni addietro) e dal romanzo Séthos, histoire ou vie tirée des monuments anecdotes de l’ancienne Egypte dell’abate Terrasson; mentre il libro Mysterien der Ägypter del naturalista e fratello massone viennese Ignaz von Born suggerí probabilmente qualche tratto della figura di Sarastro. Se l’Oberon offriva un modello terminale di Singspiel fiabesco già realizzato, da cui perciò allontanarsi, Lulu conteneva invece soprattutto vari spunti sparsi da ricollegare per ricavarne una vicenda. Alla base c’era soltanto un mago cattivo che rapisce la figlia di una fata buona: e questa a sua volta viene salvata da un giovane principe che ristabilisce l’ordine annientando il mago, liberando e sposando la fanciulla. Come si sa, le cose nel libretto del Flauto magico sono un po’ piú complicate; giacché l’inserzione delle prove cui sono sottoposti Tamino e Pamina prima di ricongiungersi nell’amore introduce una dimensione affatto nuova nella trama, mutandone la prospettiva: in cui s’inserisce anche la figura ‘comica’di Papageno, ispirata dal Kasperl del teatro popolare viennese. Non piú dunque solo una fiaba in cui buoni e cattivi sono rigorosamente distinti, ma un cammino di evoluzione che coincide con un’iniziazione a carattere morale. Gli elementi di questa conquista, soprattutto lo sfondo esoterico dei misteri iniziatici, provengono come detto dalle fonti secondarie, ma portano in primo piano alcune convinzioni di Mozart, collegate alle ragioni piú profonde e meno rituali della sua adesione alla massoneria: l’idea che accanto alla sfera terrena dei sensi, rappresentata nell’opera da Papageno, esista una sfera ideale, spirituale, commisurata all’uomo; ed è lí che si realizza, nella conquista dell’amore, un’aspirazione di carattere trascendente. Non è necessariamente un messaggio, quello che Mozart vuole qui darci, tanto meno non univoco. Piuttosto un valore costruito sulla compresenza di piú piani, inattuabile se accanto alla sfera superiore della coppia ‘nobile’ di Tamino e Pamina non continuasse a esistere anche quella inferiore, ‘plebea’, in cui Papageno incontra la sua Papagena.
L’abitudine nata nell’Ottocento di considerare l’Opera come una successione di scene costruite sulla progressione verso un unico culmine drammatico, e dunque sulla continuità dell’azione piú che su coppie di contrasti, ha pesato a lungo, e pesa tutt’oggi, sul giudizio del libretto del Flauto magico: perfino un uomo di teatro come Richard Strauss lo considerava confuso e strampalato, riscattato solo dalla musica sublime di Mozart. Molti, fino dall’inizio, ne hanno sottolineato l’incoerenza, come se l’opera avesse cambiato linea strada facendo. Si è perfino giustificato questo ipotetico cambiamento di rotta con un fatto esterno: la rappresentazione nel giugno di quel 1791, da parte del concorrente Marinelli, di un’opera affine per argomento e trama, Kaspar der Fagottist oder Die Zauberzither («Kaspar il fagottista, ovvero La cetra magica») di Joachim Perinet e Wenzel Müller, che avrebbe costretto Schikaneder a ribaltare l’azione nel bel mezzo, facendo del personaggio buono, in origine una fata splendente, una donna malvagia, l’astrifiammante Regina della Notte, e del mago cattivo, ridotto al torbido Monostatos e sdoppiato nel frattempo in Sarastro, l’incarnazione della saggezza. Anche questa leggenda non è suffragata da alcuna prova concreta; di piú, risulta insostenibile da un punto di vista sia storico che drammaturgico.
Il ribaltamento delle situazioni, che poi avrebbe raggiunto una logica drammatica ben piú stringente nella pièce à sauvetage, tradizione cui si ricollegano sia il Fidelio di Beethoven che Il franco cacciatore di Weber, era uno degli elementi fondamentali della Zauberoper: ne garantiva per cosí dire l’effetto di sorpresa, in modo spesso inverosimile ma proprio perciò teatralmente efficace. E l’effetto teatrale era un requisito qui fondamentale per i nostri autori: nel senso di un repentino cambiamento di prospettiva, non di un sovvertimento di valori determinati. D’altronde, che neppure la Regina della Notte sia una figura monolitica lo dice inequivocabilmente la sua prima aria, che incute terrore e inquietudine piú che essere rassicurante. E anche a non saper nulla del seguito, si ha subito l’impressione che dietro alla sua severità, alla sua magnificenza e perfino al suo dolore, si celi qualcosa di oscuro e di minaccioso, di innaturale (il gelo estatico delle colorature) e di demoniaco: difficile pensare al trionfo della sua bontà (ecco un caso, non certo l’unico, in cui la musica di Mozart interpreta e chiarisce il testo). ll ribaltamento della prospettiva ha la stessa funzione che nella tragedia (e la Regina della Notte è personaggio da opera seria) ha la peripezia: uno svelamento della verità che coincide col massimo della tensione drammatica. Sotto la veste dell’indeterminatezza tipica delle fiabe Schikaneder, fatto salvo che il personaggio di Papageno da lui interpretato non ne venisse sacrificato, travasò nell’azione la stessa forza di un dramma classico, lasciando a Mozart lo spazio per il dispiegamento della logica perentoria della sua musica. E senza volere a nostra volta ribaltare giudizi consolidati, questa concezione appare di una modernità inaudita, e precorre perfino esiti estremi raggiunti i quali il teatro musicale d’oggi è entrato in un vicolo cieco, incontro alla sua morte. Le simmetrie molto evidenti di cui l’opera è costellata, dal numero tre simbolo massonico al sette della figura piramidale retta dalla specularità di luce e notte, ricostruiscono un’unità intrinseca all’opera, che fa della coerenza interna ai suoi piani il perno attorno cui ruota il divenire delle trasformazioni.
A spingere verso l’alto e a dare sostanza a queste trasformazioni, che per risultare efficaci e avvincenti dal lato teatrale dovevano essere improvvise, non preparate, provvede la tematica ‘morale’ che si innesta sul canovaccio primario: il regno illuminato di Sarastro e dei suoi sacerdoti. Non c’è dubbio che Mozart e Schikaneder abbiano riversato qui le loro convinzioni massoniche: facendo però dell’iniziazione a una nuova consapevolezza un percorso teatralmente articolato. E se già il tono solenne della presentazione di Sarastro si identifica anche nell’ascoltatore piú ignaro di riti massonici con la affermazione di valori superiori, quasi sacri, il bene non è ancora, come nella fiaba, un valore acquisito: sarà il risultato di una conquista. Da questo punto di vista l’opera ha una progressione tutt’altro che inverosimile.
Di solito si annette scarsa attenzione, in sede sia critica che esecutiva, alla funzione dei dialoghi parlati nell’economia dell’opera. In teatro le parti parlate vengono abbondantemente tagliate, alterando cosí il rapporto originariamente pensato con la musica. Intendiamoci, non che quando parlano i personaggi dicano cose essenziali per la storia; non è neppure lí che l’azione procede: semmai si sospende e per cosí dire si contempla per fornirci qualche informazione collaterale, quando non serva a introdurre scenette comiche quasi fini a se stesse, nelle quali il dialogo assume forme d’improvvisazione tipiche della commedia viennese. Oggi che I1 flauto magico è intepretato non da attori-cantanti come quelli per i quali fu composto, tutti versatili e vestiti su misura, ma da cantanti ‘veri’ poco abituati alla spontaneità della recitazione, risulta per noi pressoché impossibile vedere realizzate adeguatamente le due parti insieme. E naturalmente ciò che conta è in primo luogo la musica di Mozart, ossia il canto. Se tutto ciò è probabilmente irreversibile, bisogna tuttavia tenerne conto quando si giudichi la tenuta drammatica del testo. E in quegli spazi apparentemente morti che si creano i presupposti degli svolgimenti e dei mutamenti dell’azione, in tempi di attesa che lasciano non solo prevedere cambiamenti improvvisi ma anche, per cosí dire, lavorano perché essi avvengano. E il clima di attesa che si produce quando la musica tace è la premessa affinché la tensione drammatica si intensifichi, sfociando poi nel canto accompagnato dall’orchestra, nell’azione permeata e definita dalla musica. E su questo equilibrio che riposa la teatralità del Flauto magico. Alterarlo significa perdere lo slancio e il tempo di gittata dell’arco.
Punto culminante di quest’arco è il Finale del primo atto, che da un lato riassume ciò che sino a quel momento era stato presentato e dall’altro introduce tutt’altri significati nell’azione, conducendo l’intreccio in una nuova direzione. A mutare non è solo il paesaggio esterno, ma soprattutto quello interiore, psicologico. La musica con cui i tre Fanciulli, accompagnando Tamino alle porte del Tempio della Sapienza, lo richiamano alla fermezza, alla temperanza e al silenzio, ha il tono eloquente di un invito rassicurante, che prefigura il clima caldo, umano del regno luminoso di Sarastro, e nello stesso tempo contiene un’emozione arcana, un dubbio angoscioso. Di colpo siamo introdotti in un’altra sfera. E a dircelo non è solo la solennità ieratica ma ancora fanciullesca della musica, bensí la profondità degli accenti e la verità del canto, che lascia intuire un nuovo spessore, una diversa continuità. L’intensificazione drammatica è ottenuta proprio abolendo l’alternanza fra parlato e canto, e dando alla scena della rivelazione la forma di un recitativo accompagnato incalzante, che si fa dialogo serrato nella disputa fra Tamino e il Sacerdote venuto a istruirlo sulla missione che l’attende. E che qui stia per accadere qualcosa di decisivo lo dice proprio la scelta di una forma aperta, continua, intensamente drammatica, al posto del parlato e delle forme chiuse arie, duetti e insiemi usate in precedenza. Un fatto musicale diviene cosí individuazione di una dimensione formale e spirituale nuova, accendendosi teatralmente.
Il Sacerdote si congeda riprendendo, ma in modo minore, il tema dei tre Fanciulli. Tamino, rimasto solo, ne assume su di sé un frammento, in forma interrogativa: quando finirà la notte eterna, quando gli occhi rivedranno la luce? Qui Tamino non parla solo della sua ansia, del suo amore e del suo desiderio, ma sembra caricarsi del dolore dell’umanità, intuire e contemplare in un istante di brivido il significato della vita e della morte. Un coro invisibile gli risponde sottovoce, ambiguamente: presto, presto, o mai più! Il suo pensiero si rivolge allora a Pamina, ed egli chiede se ella viva: sí, ella vive, rispondono gli invisibili. Il suo nome è pronunciato come se si trattasse di una formula magica; la risposta giunge esitante ma piena di speranza: viole e violoncelli, riprendendo il tema dei Fanciulli, assicurano che un alto destino vigila su tutte le cose. Il modo maggiore suggella la certezza che Pamina vive perché esiste l’amore, e l’amore è reale nel mondo degli uomini, di tutti gli uomini: come anche Papageno, piú tardi, felicemente apprenderà. Solo a questo punto, mentre il suono del flauto compie l’incantesimo, la voce per qualche istante tace. Tutto è armonia, tutto è compiuto. Forse è esagerato affermare che l’iniziazione di Tamino sia già avvenuta a questo punto: eppure quello che seguirà fino alla fine dell’atto non è altro che l’effetto di questa rivelazione. E a confermarlo, assai piú dell’entrata trionfale di Sarastro che squarcia l’oscurità, è il momento in cui Tamino e Pamina, come Romeo e Giulietta, si riconosceranno al prima sguardo, improvvisamente e definitivamente, come in un sogno che divenga realtà: è lui, è lei. A Mozart basta una semplice cadenza per dire che il riconoscimento è totale, che il teatro può anche inventare la felicità completa. Le prove da superare saranno ancora tante, ma nessuno potrà piú dubitare della loro riuscita.
Se questo momento rappresenta una rivelazione, nella coscienza individuale, dell’esistenza dell’amore (né è inverosimile che Pamina ancora dubiti dell’amore di Tamino e pensi di uccidersi di fronte al suo silenzio: a lei sfugge in quel tratto il senso piú alto della missione), le prove del fuoco e dell’acqua costituiscono l’affermazione di una legge universale, trascendente, che riguarda tutta l’umanità: il compimento dell’amore nel mondo degli uomini. Non è solo l’ideale massonico in cui Mozart credeva, lo spirito della solidarietà e della fratellanza universale rappresentato da Sarastro e dalla casta dei sacerdoti, ma qualcosa che si realizza proprio attraverso la coppia unita dall’amore, capace di elevarsi a una consapevolezza piú alta: proprio ciò che né Sarastro né i sacerdoti possono raggiungere (il che è certamente una critica sorridente della gerontocrazia maschile e forse anche dei riti sacrali della massoneria).
E ciò che chiaramente esprime, al vertice di tutta l’opera, la scena degli Armigeri. Qui Mozart utilizza un procedimento simmetricamente opposto rispetto a quello del Finale del primo atto: non un canto interiorizzato dell’eroe che si spoglia delle sue certezze per prepararsi esitante a una nuova verità, ma una verità che si afferma con la forza di una legge assoluta, la cui certezza consentirà alla coppia eletta di superare le ultime prove. Il fatto che Mozart abbia introdotto in questa scena un corale di Bach nel duetto degli Armigeri che leggono l’iscrizione misteriosa, e ne abbia poi elaborato la citazione su un accompagnamento contrappuntistico nella marcia della purificazione, è forse l’unica concessione di stampo non teatrale: qui è la musica stessa a diventare protagonista, con gesto che addita le regioni del sublime. Quando il fugato si arresta bruscamente, comprendiamo di essere giunti, dopo un cammino di sofferta attesa, alle soglie di un mondo nuovo.
Componendo l’Ouverture per ultima, due giorni prima che l’opera venisse rappresentata al Theater auf der Wieden il 30 settembre 1791, Mozart riassunse i diversi piani dell’opera e ne indicò musicalmente gli sviluppi: il triplice accordo che risuona all’inizio dell’Ouverture annuncia il regno di Sarastro, ma è anche il simbolo di un’attesa e di una trasformazione che l’Adagio misteriosamente scandisce; la dinamica in cui si svolgerà l’azione è prefigurata dal fugato in cui si slancia l’Allegro, un segnale che riassume in sé l’altezza di pensiero della favola e insieme la sua vivace, immediata teatralità: la spinta verso una rotazione a trecentosessanta gradi si placa e si compie nel corale degli Armigeri sulla soglia del tempio, rivelandosi musica senza tempo né spazio, governata da leggi assolute. Per questo tutto doveva essere esattamente calcolato fin dall’inizio, l’architettura drammatica, le relazioni armoniche, la strumentazione e i caratteri, perfino gli stili di canto e le diverse tradizioni operistiche da impiegare: realizzarlo sulla scena sarebbe stato un divertimento che non aveva piú nulla a che fare se non col teatro, perché del teatro aveva fatto tutto il mondo.
Gianluigi Gelmetti / Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Teatro dell’Opera di Roma, Stagione Lirica 2001