Giacomo Puccini – La Rondine

G

Il destino delle illusioni

“Ah!…………….”

(La rondine, atto III, congedo di Magda)

Alle opere di Puccini, come a quelle dei grandi autori, si va di solito animati da precise convenienze e attese. A parte le due opere di gioventù, esse appartengono non soltanto al repertorio corrente ma anche alla nostra più intima coscienza di ascoltatori, e ciò fa sì che in queste ci si aspetti di ritrovare emozioni già sperimentate, magari di rinnovarle, ma senza l’incognita del nuovo o dell’ignoto. Certo, può (deve!) capitare di scoprire ogni volta qualche nuovo particolare che fino ad allora ci era sfuggito, ma esso verrà comunque ricollegato alle nostre precedenti esperienze e riflessioni. Potrà anche capitare che questo o quel titolo ci piaccia di più o di meno, in assoluto o in un dato momento della nostra vita, ma ciò non dipenderà affatto dalla conoscenza dell’opera, ma semmai dalla cultura, dalla sensibilità, dal gusto o dal capriccio. Tutt’al più ad ogni nuovo ascolto l’attenzione e la curiosità verranno attirate dagli interpreti, per stabilire confronti, se non paragoni, con altre esecuzioni: ossia dal modo in cui l’opera viene concretamente realizzata. Il che implicitamente significa che un’idea ce la siamo già fatta, e sta a noi scegliere se accettare di rimetterla in discussione o rimanere chiusi nelle nostre convinzioni, giuste o sbagliate che siano. In fondo è Puccini stesso che ci insegna che il primo amore non si scorda mai, ed è difficile non idealizzare il ricordo della prima volta (o di “”quella volta””) in cui abbiamo ascoltato Bohème, Tosca o Butterfly. Il possesso stabile di un repertorio è un elemento di civiltà, ma porta con sé, soprattutto nel teatro musicale, per sua natura legato all’atto esecutivo, qualche inconveniente.

La rondine è, fra le opere di Puccini, quella per la quale questo discorso ha meno valore. Trattandosi di un’opera della piena maturità (1917: dopo verranno solo Il trittico e Turandot), non vale per essa la scusante della giovinezza o dell’inesperienza. Nessuno si sognerebbe di giudicare Le Villi o Edgar (come pure Un giorno di regno di Verdi o Le fate di Wagner) alla stessa stregua delle opere successive: per il semplice fatto che sono le opere successive a stabilire un metro di riferimento e a fissare uno stile, variabile fin che si vuole ma continuo e definito, rispetto al quale le opere giovanili sono studi di carattere, o semina per il raccolto della creatività futura. Nel caso della Rondine il problema è invece un altro. Quest’opera non fu riconosciuta, fin dal suo apparire, né come un’opera “”tipica”” di Puccini, né come un’opera di cambiamento o di svolta. E la sua vita nel repertorio è sempre stata asmatica, precaria, pallida. A livello di popolarità non può competere con nessun’altra produzione della maturità di Puccini, neppure con Il trittico, alla cui composizione le sue vicende s’intrecciarono. E c’è da credere che popolare al pari delle altre non diventerà mai. Ne sono riprova, se vogliamo prendere a riferimento parametri di audience, l’esiguità delle incisioni discografiche (3 nel catalogo ufficiale Bielefelder del 2000, contro 27 di Bohème, 24 di Tosca e 18 di Butterfly), la scarsa predilezione dei cosiddetti grandi interpreti, soprattutto dei direttori (va dato atto al maestro Gelmetti di essere da tempo, e non solo in Italia, l’eccezione che conferma la regola), la rarità delle riproposte, a cui, con battuta scontata, si accompagnano invariabilmente i motti, a seconda dei partiti, “”Una rondine non fa primavera”” o “”Con la rondine arriva la primavera””.

Naturalmente il caso, proprio in quanto tale, si prestava come pochi alla battaglia delle idee. Ad accaniti e autorevoli sostenitori del valore della Rondine (in questa pubblicazione rappresentati dal loro massimo esponente storico, Alfredo Mandelli), si sono contrapposti altrettanto autorevoli, anche se forse meno accaniti, detrattori, rafforzati dalla maggioranza silenziosa di coloro che hanno ritenuto che sulla Rondine non valesse la pena di accapigliarsi troppo: né per gridare al capolavoro misconosciuto (ma esistono davvero capolavori misconosciuti?), né per ratificare l’opera mancata (ma è davvero un’opera mancata?). La rondine, si potrebbe dire con il cinico Jago, “”è quel ch’egli è””: e tanto basti.

La rondine sembra mettere in discussione il concetto stesso di capolavoro, e forse anche quello di opera compiuta, e non solo per i numerosi ripensamenti che l’accompagnano e le diverse versioni del finale, ma proprio per la sua stessa natura – atipica in Puccini – di opera astratta, in bilico tra gioco intellettuale (un gioco nel quale Puccini si trovò implicato quasi suo malgrado), sfida alle convenzioni di un genere (quello dell’operetta) e saggio sulla verità dei sentimenti nel melodramma. Quest’ultimo elemento appare il più importante e decisivo, forse quello che meglio inquadra l’unicità della Rondine nella produzione pucciniana. Essa è infatti la prima opera di Puccini nella quale ogni pretesa di realismo melodrammatico venga esautorata; l’unica nella quale i motivi fondamentali del suo teatro – i destini dell’amore – non siano vissuti in un’adesione istintiva ma mediati attraverso la rappresentazione, senza che giungano né ad affermarsi come valori ideali né a sublimarsi nella catarsi tragica. Non solo. L’uso programmatico dei ballabili, dall’onnipresente valzer a tutte quelle danze moderne di cui l’opera è letteralmente pervasa, la presenza pressoché costante di un “”canto di conversazione”” fatto di brevi, incisive ed enigmatiche figure musicali,

connotano una dimensione di continua sospensione e di frenetico mutamento, di vertiginosa alternanza tra simulazione e autenticità, tra immedesimazione e distacco. Come ha scritto il più giovane degli studiosi di Puccini, Michele Girardi, La rondine è “”una sorta di arguta riflessione rivestita di fascino melodico sui meccanismi dell’opera sentimentale, ma al tempo stesso un esperimento orchestrale di stile leggero e brillante animato dai più vari ritmi di ballo””(1). Una sorta di cerimonia funebre del melodramma ammantata di ambigui stereotipi citati, manipolati e cambiati di segno.

Che cosa accadrebbe se provassimo per una volta (e per qualcuno sarà addirittura la prima volta) ad ascoltare La rondine senza pregiudizi e preconcetti?

 

L’ambiente dell’azione – “”un salone elegantissimo in casa di Magda a Parigi”” – è descritto con minuziosa precisione, ma è subito chiaro che si tratta anzitutto di un ritratto psicologico, nel quale si assommano caratteri compositi e ricreati: la Parigi (e di riflesso la Vienna) del tardo Ottocento in abiti già novecenteschi, la Belle Époque e il suo crepuscolo proiettati sulla contemporaneità. L’opera inizia vivacemente in medias res, con un gesto orchestrale slanciato e brillante, subito interrotto (alla diciottesima misura) da una serie di accordi sui quali si staglia una melodia sospirosa di toni e semitoni alternativamente discendenti e ascendenti: frase languida che ricorda le antiche formule del “”lamento””, o meglio la loro retorica affettiva. Questa sequenza ritornerà spesso come tema-guida a contrassegnare l’illusione amorosa. Il segnale è dato in modo netto. Non di realtà si parlerà nell’opera, ma di sentimenti, di ricordi, di sogni: “”Fantasie! Fantasie! “”, come si esclamerà più volte e da più parti, con allusioni anche opposte, nel suo corso. Tutto è messo in moto – si presume per ravvivare l’ormai annoiata compagnia di cortigiane e protettori riuniti nel salotto di Magda de Civry – da una provocazione del poeta Prunier, quando egli afferma che la nuova moda che imperversa nel gran mondo elegante di Parigi è l””`Amor sentimentale””. E ne dà, fra i mugugni dell’ospite-padrone Rambaldo, le proteste divertite delle ragazze e impertinenti della cameriera Lisette, una descrizione fiorita nella prima romanza che s’incontra nell’opera, “Chi il bel sogno di Doretta poté indovinar?”: non un’espressione d’amore vissuto ma, appunto, un sogno, non un pezzo chiuso, ma una narrazione in forma aperta che Magda farà subito sua.

Qui naturalmente la musica passa in primo piano. Puccini scrive questo “”Andantino””, ironicamente preceduto dal rapsodico preludiare del cantore al pianoforte, in ???? e in Fa maggiore, ma evita accuratamente di risolvere in tonica sul tempo forte, mantenendo sospesa la melodia: essa inizia “”in levare”” con un salto di quarta ascendente, ma poi si ripiega su se stessa di un semitono e procede per arpeggi e frammenti di scale ascendenti e discendenti alternati. Il tutto si fissa poi, affermando finalmente Fa maggiore, in una estatica figura dell’orchestra, una nota lunga ripetuta (La acuto) e declinante in contrattempo di terza maggiore (Fa). Tutta questa pagina ha un carattere di sogno, di incantamento. E quando Magda la riprende e la continua, interiorizzandola, ci accorgiamo che l’ha impercettibilmente trasformata nella “”formula del sospiro””, come portata a sognare, sotto la prepotente urgenza del suo desiderio, un amore irreale, frutto di poesia e di immaginazione.

La mantenuta Magda, dunque, pur non essendo affatto insensibile ai gioielli del suo ricco amante Rambaldo, sogna un’altra condizione. Ma questa condizione non si identifica con l’alternativa di un amore vero (ecco la differenza dalla Violetta Valéry della Traviata), bensì con la nostalgia di sensazioni che appartengono al sogno e che ella non potrà rivivere se non nel ricordo. E sono le sensazioni di quando, fanciulla pura e innocente, aveva incontrato un giovane studente al Bal Bullier, innamorandosene perdutamente e scappando via con il cuore gonfio dall’emozione. La sua melodia “”Fanciulla, è sbocciato l’amore!”” (il secondo pezzo chiuso dell’opera) è da questo punto di vista significativo. Essa è l’espansione a specchio di quella del sogno di Doretta: quarta discendente, terze ascendenti e discendenti, semitono ascendente come a voler raggiungere un punto sfuggente, reso ancora più instabile dall’oscillazione tra modo maggiore e modo minore. Il Tempo di Valzer che l’accompagna è ulteriore specchio del ricordo: un trucco, che è di Puccini stesso, per evocarlo. Non stupisce quindi che Magda, sulle ali del desiderio, identifichi inconsciamente nel giovane e inesperto Ruggero, appena egli si presenta nel suo salotto come uno sprovveduto provinciale, il suo sogno d’amore. Ed è l’orchestra a indicarcelo accompagnanio la sua entrata, sul sottofondo dei convenevoli formali, con la musica del sogno d’amore di Magda (“”Tempo come Valzer moderato””).

Come il suo ricordo era stato mosso dalla poesia di Prunier, così la sua decisione di rivivere il passato è determinata dalla profezia di Prunier, che leggendole la mano le rivela il suo destino:

 

 

“Forse, come la rondine,

migrerete oltre il mare,

verso un chiaro paese

di sogno… Verso il sole,

 verso l’Amore… E forse…”

 

“Un cattivo presagio?”, chiede Magda interrompendolo. “No”, risponde Prunier: “”il destino ha un duplice viso: un sorriso, un’angoscia? Mistero!””. Non sfuggirà in questa breve pagina musicale una cruda reminiscenza dei fantasmi della Butterfly.

Si situa qui, per una spinta esterna, quasi fatale, il passaggio fallo stadio passivo a quello attivo. Ma attivo fino a un certo punto. Per non rivelarsi, Magda si traveste con gli abiti della sua cameriera Lisette, la quale si è a sua volta addobbata di nascosto con gli abiti della padrona per raggiungere anche lei a meta convenuta, il Bal Bullier. Ma vi è una profonda differenza in questi due travestimenti, un opposto fine. Mentre Lisette intende il travestimento come un gioco di seduzione eroica se non di promozione sociale (e in tal senso lo presenta il duetto che precede il finale), Magda cade in trance e si sdoppia in una figura che non è lei stessa, ma la sua controfigura. E,

come la Marescialla del Rosenkavalier di Strauss nell’idenico punto dell’opera, la fine del primo atto, si guarda allo specchio e non si riconosce più. Puccini aggiunge a questa vidente citazione un tratto poetico suo proprio: il nodo fondamentale non è il tempo che passa e che “”è una cosa strana””, ma il tempo che è passato e che non è stato vissuto. Magda vorrebbe tornare a essere Mimì, ma i tempi di Mimì sono ornai finiti e non torneranno più.

Ben altro che personaggio comico, Prunier è, nella sua ambivalenza anche sessuale (galante cicisbeo di belles dames sans merci e amante carnale di una cameriera, vate e pigmalione), il centro irradiatore di una malattia invisibile e letale: lo sdoppiamento della personalità. La scena che lo vede protagonista verso la fine del primo atto è una scena rivelatrice. L’esteta Prunier corregge con raffinata discrezione (“”pochi tocchi, pochi tocchi””) il travestimento di Lisette, cercando di intonarne la persona all’aspetto della finzione. Qui Puccini inventa una stranita passacaglia su una melodia ripetuta ossessivamente e danzante sul nulla, sostenuta da un’armonia sfuggente e spesa in un’atmosfera surreale: dove l’assurdo non sta tanto nel parlar di cappelli, di borsette, di mantelli, della “”cappa in seta nera””, o nel chieder perdono alle “”nove Muse”” per un tività così sconveniente, quanto nel dare all’apparenza – l’abito, il belletto, la posa – uno statuto di verità. Questo diversivo accresce il contrasto con l’ultima entrata di Magda (ancora sul suo “”Tempo di Valzer””, ma questa volta “molto lento”, combinato con il tema del sogno di Doretta): protetta dal mascheramento, ella è ora pronta a compiere il salto reso esplicito dalla metafora della rondine.

 

L’attacco del secondo atto è un energico concertato che ci catapulta nell’atmosfera surriscaldata del Bal Bullier, dove tutti – una folla mista di studenti, di artisti, di grisettes, di mondane, di avventori, di curiosi – cercano il gaudio di un attimo ridendo il miraggio dell’amore eterno. Le prime parole emergono distintamente dal fitto intreccio di voci e orchestra colte al volo dal dialogo di due amiche, sono: “”Non avresti per caso un po’ di cipria? Ho rosso il naso! “”. Il supremo understatement ha il compito di far risaltare l’irrealtà dell’incontro di Magda, travestita da grisette, con Ruggero, già spaesato di suo in quell’ambiente. Magda si presenta a lui con il candore sensuale di Mimì (“”Scusatemi… Scusate…””), e come Mimì accende subito la fiamma, o il desiderio, dell’amore. Magda è più che mai affascinata, come in un rito della rimembranza di cui deliba i singoli momenti, dal rivivere la situazione della sua giovinezza (“”L’avventura strana come nei dì lontani…””), un avvenimento che avrebbe potuto cambiare la sua vita e da cui lei è invece fuggita. Questa volta decide di non fuggire, di lasciarsi andare e di abbandonarsi al sogno: “E’ il mio sogno che s’avvera! Se potessi sperare!”, dirà più tardi al culmine dell’estasi. Il contrasto tra il sogno e la realtà tocca qui un apice della poetica pucciniana: l’amore è la media impossibile di impulsi opposti.

La danza ha preso nel frattempo movimento e calore, diventando gioiosa e frenetica. La grande scena in “”Tempo di valzer”” a metà dell’atto racchiude insieme l’affermazione e la negazione di ciò che il canto (ulteriore rielaborazione dei temi dell’illusione e del sogno) glorifica: “”dolcezza, ebbrezza, incanto, sogno””. Ma non per sempre, non eternamente. E ci accorgiamo che Magda ne ha il presentimento, quando aggiunge un “”Ah!””, due volte, a quel vano “”Per sempre! Eternamente!”” intonato da Ruggero appropriandosi della sua cifra musicale, ossia dei suoi temi. Questa scena esalta, non solo nella scrittura e nella movenza, lo spirito immortale dell’operetta viennese non come genere, ma come concezione del mondo: quel punto di indefinibile felicità e di indefinibile tormento che coincide con un sentimento dell’ignoto. Eterna nostalgia, eterna malinconia, eterno presagio.

L’intermezzo umoristico della seconda parte dell’atto ha il compito di creare, come è tipico della commedia, un contrappeso leggero alla situazione seria che si è creata, ma ha anche il significato sinistro di un brusco risveglio. L’incursione di Lisette e Prunier riporta Magda alla realtà. Ed è significativo che sia Prunier, il poeta disincantato e grottesco, a riconoscerla sotto il travestimento e a instillarle il dubbio che la sua sia solo una fantasia. Questo avvertimento turba Magda assai più dell’improvviso arrivo di Rambaldo, che ella affronta coraggiosamente e a cui oppone la sua ferma risoluzione: “”Lasciatemi seguire il mio destino. E’ finita!””. “”Possiate non pentirvene! “”, chiosa freddamente Rambaldo. Magda sfibrata s’abbatte su una sedia, guardando innanzi a sé fissamente, come se interrogasse il suo stesso destino. E la risposta viene sussurrata dallo spettrale episodio che segue, introdotto da una oscura figura ostinata dell’orchestra strisciante nel registro grave su cui si innalza una voce nella notte, la voce di un sopranino fuori scena raddoppiato dall’ottavino. La voce lontana canta:

 

“”Son l’aurora che nasce per fugar ogni incanto di notte lunar! Nell’amor non fidar!””

 

E un messaggio arcano che smentisce l’eternità dell’amore. E la sua eco sembra permanere anche nel duetto che chiude l’atto: non un duetto gioioso d’amore, ma un duetto di paura e di pianto, reso ancora più struggente dalla attonita strumentazione. “”E’ il mio sogno, capisci? Ma io tremo, tremo e piango…””, canta Magda rivolta, più che a Ruggero, a se stessa. E il motivo dell’illusione d’amore riappare, inesorabile.

Anche nel terzo atto, che si svolge in un hotel sulla Costa Azzurra dove Magda e Ruggero si sono rifugiati, la voce che insinua il disincanto non si è del tutto spenta. L’introduzione orchestrale ricorda le livide, sospese atmosfere marine di Debussy, ma nel canto palpita e freme tutta l’inquietudine di Puccini. Stupisce che si giudichino insulse e sdolcinate le tendresses degli amanti all’inizio della scena. Che siano vero idillio o presentimento della fine, esse esprimono un’attesa ambigua, che solo un colpo decisivo potrà sciogliere. Stupisce ancor più che non si sia compreso il fatto che l’invenzione melodica non possa qui risplendere di materiale nuovo ma debba, accanto a un’insistita rielaborazione dei temi-guida dell’opera, portare a un “”rimontaggio”” chiarificatore della perdita di sostanza e dello smascheramento, che nulla ha a che fare con un’apoteosi. Leggendo molti critici di Puccini, si ha a volte l’impressione che essi si vergognino per lui non tanto di un ipotetico “”sentimentalismo”” (quello superficialmente rimproveratogli dagli acerrimi nemici) quanto del “”sentimento”” e dei “”valori””, e che godano a darne un’immagine cinica e perversa. Se così fosse, il pubblico non amerebbe Puccini come l’ama(2).

Il colpo decisivo avviene con l’arrivo della famigerata lettera della mamma, che con ironia tragica – tecnica nella quale Puccini era maestro – sembrerebbe offrire una soluzione conciliante, e provoca invece la catastrofe finale. Non ci sentiamo di condividere il disprezzo per questa scena (un “”guaio””, “”un contrattempo”” perfino per il sommo Fedele d’Amico) (3). Anzitutto per il trattamento che ne dà la musica. Magda legge la lettera con commozione profonda e con allucinato terrore, su un “”Andante lento”” che ha le movenze di una marcia funebre ed è reso ancor più agghiacciante dalle quinte vuote dell’armonia. L’ironia è espressa con grande lucidità nell’opposizione tra le parole che Magda pronuncia leggendo e il distacco irrimediabile che esse stabiliscono dentro di lei. In tal modo la sua commozione, che Ruggero crede dovuta all’essere accettata nel mondo familiare, è invece già quella di un virtuale rifiuto. La situazione di fronte alla quale Magda si trova non consiste tanto nel decidere se rivelare o meno il suo passato all’uomo che ama, se desiderare di rimanere con Ruggero o tornare con Rambaldo (Rambaldo è ormai cancellato, e da lui non tornerà mai più), quanto nel riconoscere di non poter, disvelando la propria identità, cancellare il passato e vivere nel presente, tramutare il sogno in realtà. Il tratto umano e perfino eroico di Magda non sta nel non sentirsi degna di entrare in una famiglia onesta e nel sacrificarsi, bensì nel comprendere che non potrà mai farlo senza tradire il suo ideale. La volontà di Magda è la sola causa della sua lacerazione: anzi, semplicemente, il non poter trovare consistenza al di fuori del sogno è la ragione del suo dolore, che ella alla fine desidera solo per sé (“”che sia mio questo dolore””).

Il finale della versione originale della Rondine è, dei tre presi in considerazione da Puccini, il più aperto e ambiguo: un finale sospeso. Niente ci dice che nella rinuncia di Magda all’amore di Ruggero sia implicito un ritorno alla sua vita di prima. E nella stessa disperazione di Ruggero (“”Ma come puoi lasciarmi, se mi struggo in pianto, se disperatamente io m’aggrappo a te!””) è almeno lecito intravedere non solo un legame sincero e appassionato, ma anche la disponibilità a scegliere, tra la madre e l’amante, l’amante. Si può semmai notare che nell’ultima parola del libretto da lui pronunciata singhiozzando (“”Amore…””) risuoni, irrigidita, la testa del tema del sogno di Doretta: che è poi quella con cui Prunier aveva introdotto la provocazione. Anche Ruggero è preso nelle spire del destino, con una furia di ribellione impotente che la musica porta a temperatura espressionistica.

Questa conclusione non offre soluzione, ma conferma che il dubbio, l’incertezza, tratti per eccellenza della modernità, erano entrati anche nel teatro di Puccini. Ed è per questo che egli tornò alla fine a questo finale, che lascia a Magda (non alle pressioni ragionevolissime di Prunier, come nella seconda versione, o all’ira istintiva di Ruggero informato da una lettera anonima del passato della donna perduta, come nella terza) tutta la responsabilità della decisione: l’eroina non attinge, con il suo sacrificio, la soglia sacralizzante e nobilitante della morte, ma solo la coscienza tragica di sé. La rondine che aveva spiccato il volo nel sogno non potrà mai tornare a essere quello che era stata prima, né realizzare sulla terra il suo sogno d’amore. Magda ha imparato che la felicità non è né “”amore”” né “”danaro””, ma pena, strazio, conflitto insolubile tra ideale e reale. E su questo si blocca la sua autocoscienza. La sua ultima parola, sulla diafana dissolvenza dell’orchestra tra archi stridenti, dolci arpeggi e rintocchi gravi di campane lontane, è un “”Ah!”” tenuto a lungo in “”pianissimo”” sul La bemolle acuto quando è già uscita di scena. Il grido di una rondine ferita a morte.

La solitudine bruciante dell’uomo senza amore, questo dramma intimo di Puccini stesso, fa capolino quando uno meno se lo aspetta.

 

La rondine annuncia una crisi dalla quale Puccini non si sarebbe più ripreso, come dimostrano le vicende dell’incompiuta Turandot (incompiuta proprio nel finale!), e che la geniale parentesi del Trittico (tre piccoli mondi chiusi in se stessi, tre atti unici di carattere fulminante) avrebbe soltanto differito. E’ difficile,       dalle sue esternazioni contraddittorie e spesso umorali, capire fino a che punto egli ne avesse chiara coscienza. In che cosa consisteva questa crisi? Per quanto l’espressione possa sembrare paradossale per un artista che mostrava una smisurata considerazione di sé (e che era invece fragile, insicuro, oltre che incline ai complessi di inferiorità e al risentimento), si trattava di una crisi di identità. Non come compositore, ma come compositore di teatro. Puccini era cosciente di aver raggiunto una padronanza assoluta della tecnica compositiva in tutte le sue sfaccettature, senza per questo aver perso nulla della sua qualità di melodista, e di aver messo a punto, come La fanciulla del West aveva ben dimostrato, un progetto polistilistico, tra naturalismo e decadentismo, che gli consentiva di affrontare qualsiasi impegno nel teatro. Il problema era che il teatro nel quale credeva non esisteva più, e concepirne un altro non gli era possibile. I tentennamenti sulla scelta dei soggetti dopo La fanciulla del West rivelano non tanto un’incertezza di fondo, quanto un continuo interrogarsi sulla loro destinazione. E il fatto di passare repentinamente da un eccesso all’altro (“”Desidero ridere e far ridere gli altri””, alla Seligman il 19 novembre 1911; “”Ti dissi del voler far piangere: è qui tutto””, a Illica il 6 ottobre 1912) era la riprova di una perdita del suo ubi consistam nel teatro. Per quanto nella stessa lettera a Illica Puccini asserisse: “”Non cerchiamo originali mosse, non lambicchiamoci il cervello in ricerche di nuovo. L’amore e il dolore sono nati col mondo e le movenze tanto dell’uno come dell’altro le conosciamo bene, specie noi, che abbiamo passato i cinquant’anni””, l’affermazione sembrava vera soprattutto per la conclusione.

Nei sette anni che dividono La fanciulla del West dalla Rondine, il teatro musicale europeo produsse, per limitarsi ai titoli fondamentali, le seguenti opere:

1911: Il cavaliere della rosa (Strauss), L’heure espagnole (Ravel), Il martirio di San Sebastiano (Debussy), Il castello del principe Barbablù (Bartók).

1912: La sposa sorteggiata (Busoni), Der ferne Klang (Schreker).

1913: La vita breve (Falla).

1914: Le rossignol (Stravinskij).

1916: Goyescas (Granados), Arianna a Nasso (Strauss).

1917: Turandot e Arlecchino (Busoni), Palestrina (Pfitzner), Il viaggio del signor Broucek nel XV secolo (Janàcek), Una tragedia fiorentina (Zemlinsky).

Comunque le si voglia considerare, e tacendo delle nuove avanguardie che si affacciavano alla ribalta teorizzando un teatro di tutt’altra concezione (“”la musica disgustosa di oggi che, come avete ben detto, è assai simile alla guerra””, alla Seligman 14 settembre 1914), queste opere avevano significato una svolta epocale nel mondo del teatro: questo era il teatro moderno. Il problema non era che Puccini non fosse in grado di scrivere opere di questo tipo, ma che non riuscisse più a scrivere opere alla Puccini, e non perché non ne fosse capace, ma perché capiva che non sarebbero state più attuali. I suoi compagni di strada non erano mai stati, e men che mai lo erano ora, Leoncavallo, Giordano, Mascagni, Zandonai, Smareglia o Alfano, ma nemmeno il dramma musicale di Pizzetti o di Lualdi.

Ha scritto un altro giovane critico: “”La legittimazione del melodramma non ci interessa più, dopo La rondine. L’opera è posta da Puccini in cornice, poi in un’altra cornice, poi in un’altra: o meglio, ecco la cornice di un’opera che non esiste più, come non esistono più personaggi autentici, trama, accadimenti. Sempre più appare in Puccini, o attraverso Puccini, l’idea del teatro musicale come di un assoluto, del motore immobile di un sistema estetico che non si ponga in continuità con la vita, ma si configuri quale forma perfetta della modernità””(4).

Probabilmente La rondine non sarebbe mai nata se la commissione non fosse partita da un teatro tedesco, o meglio viennese, e se l’angelo custode Giulio Ricordi non fosse morto nel 1912, lasciando Puccini orfano e sperduto. E’ strano tuttavia che Puccini non avesse sentito come una diminuzione l’invito a scrivere, dopo una stagione di successi delle sue opere al Teatro Imperiale, un’operetta per il Karltheater, che a Vienna era pur sempre un teatro minore. Ambizione? Lusinga? Eccellente compenso? Non principalmente, se è vero che poi cambiò rotta, quando si rese conto della situazione. Ma come spiegare allora quest’interessamento, se già il 14 dicembre 1913 aveva scritto al barone Angelo Eisner, suo “”uomo”” a Vienna: “”Io, operetta non la farò mai””? Si tralascia però di leggere il seguito della lettera, assai istruttivo: “”Opera comica sì: vedi Rosenkavalier, ma più divertente e più organica””. A parte la celia di considerare Rosenkavalier un’opera comica (essa è una “”commedia musicale””, esattamente come La rondine è una “”commedia lirica””), è evidente che lo solleticasse l’idea di confrontarsi nella terra del nemico con una tradizione che da sempre aveva sentito come una sfida. E che fosse convinto di poter vincere la sfida con i suoi mezzi e alle sue condizioni. Da queste promettenti prospettive si passò, nel volgere di pochi mesi, alla rottura con Tito Ricordi e all’accordo preliminare con Vienna, al rigetto di una prima trama viennese, alla commissione del libretto italiano all’Adami, alla faticosa trasformazione del soggetto in una commedia lirica in tre atti, al passaggio a Sonzogno e al ripiego su Montecarlo (nel Principato di Monaco) come palcoscenico della prima in pieno infuriare della guerra nel marzo 1917, a ulteriori liti per la pubblicazione della partitura in Italia, alle revisioni del 1920 e 1921.

Messo in moto, il progetto della Rondine seguì il suo corso, e trasformo, nel concreto processo di composizione, in quel che sappiamo: una commedia sentimentale con un residuo dell’opera nuova non si annunciarono che le tensioni. Rimase in essa il segno di un mutamento, una sorta di sfiducia da parte del suo autore a continuare a credere che ciò in cui aveva creduto il suo teatro potesse essere non solo sacrosanto, ma anche eterno. Della contemporaneità La rondine reca, amaramente, le ferite. E sono proprio queste ferite a farci apparire più attraente il destino delle sue illusioni.

 

 

 

NOTE

(1) Michele Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia 1995, pag. 339.

(2) Trovo in uno studioso rigoroso della cultura e della tradizione classica un’osservazione illuminante: “”Credo che sia la nostra insofferenza dei valori di cui si parla a farci reagire a questa tautologia con atteggiamenti che possono variare dall’irritazione all’ilarità, e sono antistorici quanto lo è l’antipatia per Germont padre, personaggio invece canonizzato da Verdi non meno che da Dumas. Resta comunque il fatto che niente meglio della tautologia può esprimere la compattezza chiusa del mondo da cui Magda viene esclusa, ironicamente, nello stesso momento e con lo stesso atto in cui sembra venire accettata””. Cfr. Guido Paduano, Doretta e le altre, in La rondine, programma di sala del Teatro alla Scala, Milano 1994, pag. 88.

(3) Fedele D’Amico, L’operetta in un’opera, in L’albero del bene e del male. Naturalismo e decadentismo in Puccini, Lucca 2000, pag. 138.

(4) Francesco Maria Colombo, Dimenticare Vienna, in La rondine, programma di sala del Teatro Regio di Torino, stagione 1993-94, pag. 128.

Gianluigi Gelmetti / Orchestra, Coro e Corpo di Ballo  del Teatro dell’Opera
Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 1991-92

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