Giacomo Puccini – La Bohème

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Morire in bellezza


La Bohème di Puccini contende a La Traviata di Verdi il primato del melodramma più popolare. Chi non le conosce, chi non le ama? Quante volte le abbiamo viste sulla scena. Eppure ogni volta quasi quasi vorremmo illuderci di non conoscerle ancora (oh, se si ripetesse il miracolo della prima volta) e ci sorprendiamo a pensare che forse una sera le cose cambieranno, che non saranno la morte e la solitudine il destino dei loro personaggi. Ma se ciò accadesse, tutto l’incanto svanirebbe: Violetta, Mimì debbono morire perché si rinnovi il miracolo del teatro, della musica, della vita.

La Bohème e La Traviata hanno molti punti di contatto. Certo, le fonti sono diverse, diversa è l’epoca, diversissimi gli autori. Ma il luogo è lo stesso, Parigi, una città che nonostante lo scorrere del tempo (Puccini data l’epoca al 1830 circa) appare misteriosamente simile, soprattutto nella visione degli artisti. Anche la morte sceglie lo stesso mezzo per colpire, la tisi. Violetta e Mimì frequentano mondi diversi, perché diversa è la società nella quale sono nate: ma la loro storia traccia una parabola comune, dagli amori folleggianti ed effimeri alla scoperta del vero amore, al sacrificio, imposto o scelto, alla morte improvvisa. Se osserviamo la costruzione delle due opere ci colpiscono alcune analogie. All’inizio una festa, nell’un caso per così dire di sfarzosa mondanità ufficiale, nell’altro miseramente improvvisata dagli amici nella soffitta di Rodolfo. Poi l’incontro e la dichiarazione d’amore, quando i predestinati rimangon soli. I brevi istanti di felicità. La rinuncia per amore (anche Mimì abbandona Rodolfo per non essergli di peso). La peripezia, inevitabile: dove i personaggi fanno esattamente il contrario di quel che sentono e poi si pentono (anche la tremenda scenata di gelosia di Alfredo è in fondo un modo, più tragico, di riconciliarsi, o almeno di capire, troppo tardi). Il ritrovarsi alla fine, per morire insieme. Violetta e Mimì muoiono davvero, ma la vera morte è quella di chi resta.

Che la morte colpisca proprio nel momento in cui tutto sembra essersi risolto e il futuro poter splendere radioso è un’antica consuetudine del teatro tragico. Lo è meno, però, nel melodramma. La genialità di Verdi sta nell’aver trasformato un personaggio negativo (secondo la morale borghese Violetta è una prostituta d’alto bordo) in una figura che racchiude la sua nobiltà nei sentimenti del cuore e nei segreti dell’anima. Puccini riprende questo tema e dimostra che anche personaggi più umili, quasi da commedia, sono capaci di purezza e di verità. Per lui, a differenza di Verdi, dove il dogma è assoluto, ciò coincide con una stagione della vita, la giovinezza, e ha a che fare anche con un modo di vivere. Per questo nella Bohème l’ambientazione, che in Verdi è solo la cornice che per contrasto fa risaltare il dramma, è essenziale non solo per il color locale (la vita di bohème parigina) ma anche per la definizione dei personaggi, e fa parte della loro psicologia. Anche se il dramma si snoda su un tema più generale (l’impossibilità dell’amore se non come presagio e ricordo) non potremmo pensare questi personaggi e le loro reazioni al di fuori dell’ambiente che li circonda, anzi li contiene. Il passaggio dal chiuso della soffitta all’animato spettacolo en plein air del quartiere latino, e da questo al paesaggio brumoso della barriera d’Enfer che guarda lontano, prima del ritorno simmetrico alla soffitta dove tutto aveva avuto inizio, dispone in un arco quasi classico i quattro momenti del dramma: l’attesa, la gioia, il ricordo, la fine. Da una scena all’altra (che Puccini significativamente chiama quadri, non atti) non c’è svolgimento né evoluzione: i quattro quadri sono come istantanee che si accostano e che fissano in immagini e suoni quattro momenti della giovinezza, della speranza e, messi insieme, della vita.

Proviamo a esaminare come sono costruiti questi quadri. Nella soffitta di Rodolfo entriamo di colpo, senza preamboli, ruvidamente: il freddo, il tanfo, il disordine che vi regnano sono subito in stridente contrasto con la simpatia che ispirano Rodolfo e Marcello. I quattro amici sono un poeta, un pittore, un musicista e un filosofo, artisti evidentemente falliti ma potenzialmente grandi artisti, se il mondo andasse diversamente. Ma il loro tratto fondamentale è l’ironia, che è un sentimento poco disposto all’illusione, forse proprio perché maschera ideali più profondi. Cavarsela e divertirsi è apparentemente il loro motto. Ma poi accade il miracolo, o – che è lo stesso – la cosa più comune: di fronte all’inatteso Rodolfo s’innamora. Anche se ci viene il sospetto che quella melodia irresistibile – «Che gelida manina» – l’abbia architettata per far la corte a tutte le ragazze carine che gli capitassero a tiro, ciò che conta è che in quel momento si sveli la sua identità, ossia la sua ansia di amore. E che Rodolfo sia capace di amare, è la musica a dircelo: il quasi recitativo dell’esordio si apre in una distesa, appassionata melodia, il cui effetto dipende in larga misura dal fatto che finora, nella presentazione del personaggio, Puccini l’aveva accuratamente evitata. La risposta di Mimì – «Sì, mi chiamano Mimì» – è altrettanto inequivocabile: non si può far per scherzo o fingere quando si cantano e si dicono quelle cose. La frase musicale è in altri termini lo specchio di un destino, quello dei protagonisti. Il calibrato effetto di questo quadro, con l’improvviso slancio delle melodie e poi con il loro intreccio nel duetto, si basa sulla preparazione dell’attesa che rivela il nuovo: e il nuovo è l’inatteso, o meglio ciò che si è sempre atteso.

Il quadro del quartiere latino, con la sua variopinta animazione, ha più di uno scopo: rendere più intenso e caratteristico il colore locale (ciò che avviene nella prima parte), introdurre il personaggio di Musetta, l’amante capricciosa di Marcello, e farci sentire che la gioia non può essere fatta che di attimi. Qui tutti sembran felici la vigilia di Natale; a parte il ragazzo che vorrebbe «la tromba e il cavallin» di Parpignol, e invece dovrà imparare che nella vita non si può aver tutto (una discesa di semitono con una nota di volta: basta questo per dire tante altre cose). E in realtà questo quadro, proprio per la sua esibita festosità, crea, in chi lo sappia ascoltare, una angoscia sottile. Puccini riesce a farci intuire che i personaggi per primi sono consapevoli che quella gioia finirà presto, e perciò vogliono viverla disperatamente fino in fondo. Sembran chiedersi, mentre ordinano al Caffè Momus e si scambiano parole d’amore: Dio mio, che sarà di me dopo, quando ripenserò a questi istanti felici? Ed è questa, dice Puccini, la natura tremenda dell’amore: che il suo ricordo diviene insostenibile quando finisce.

Difatti il terzo quadro, la barriera d’Enfer, s’apre nella desolazione del dopo, quando il giorno che nasce è un peso, ed è una pagina di musica leopardiana. Incorniciato da un gesto drammatico dell’orchestra platealmente tratto dal finale secondo dei Maestri cantori, si svolge nel clima, più che invernale, autunnale del ricordo, dell’elegia, ma come di chi non abbia, dopotutto, perduto la speranza. È la vita in sé che è spietata. Mimi ha abbandonato Rodolfo perché in una soffitta ci si può incontrare e morire, oltre che fare l’amore, ma non passar la vita in coppia tutti i giorni. Marcello tira la carretta a spese dell’oste, dipingendo, lui che vorrebbe vendicarsi affogando i faraon, «quei guerrieri sulla facciata»: e il «Passaggio del Mar Rosso» è diventato «Al porto di Marsiglia». Litiga anche continuamente con Musetta, e sogna davvero di essere un artista, non solo di fare anche lui, nel suo campo, la coda al «Castoro». Musetta invece «insegna il canto ai passeggeri»: e verosimilmente non solo quello, perché ha capito come vanno le cose e che per tenersi vivi bisogna destreggiarsi. Musetta è ciò che non è Mimì: con i piedi per terra, anche se sempre pronta a spiccare il volo. Il finale del quadro è drammaturgicamente, non musicalmente, il più debole: che Rodolfo e Mimì si riconcilino è verosimile, ma non che s’illudano ancora sul loro futuro (come la realtà dimostrerà). Essenziale è qui il tema dell’addio, che dà alla melodia di «Donde lieta uscì» un carattere paradigmatico: solo in forza dei ricordi si riuniranno, per rivivere ciò che non tornerà più.

L’inizio del quarto atto è di una perfidia unica: siamo arrivati al punto che i due amici per la pelle, stanchi di tormentare se stessi, si levan la pelle l’un l’altro, commentando le allegre avventure delle loro amiche. Ma è da questo esordio che si capisce la portata del dramma che stanno vivendo: ora hanno capito anche loro che l’amore non dura, e la differenza è tutta qui, tra presagire e sapere. E in questo anfratto che la musica di Puccini rode come un tarlo, spietatamente. Ciò che segue è solo la conseguenza, la dimostrazione del teorema: la inscenatura di un epilogo inevitabile. Puccini ha cercato di dare una trasfigurazione alla rappresentazione della morte di Mimì nell’ultimo duetto, quando il ricordo del passato, associato musicalmente alla reminiscenza delle melodie, getta un’ombra di rimpianto, ma anche una luce di gratitudine. Un grande critico, Giacomo Debenedetti, ha scritto: «Per morire in bellezza non basta essere certi di congedarsi tra il generale rimpianto. Bisogna riuscire a piacersi nel momento che si muore. […] Puccini conduce le sue eroine a morire, ma lungo il loro tragitto ne celebra la vitalità, tutta estri, brevi esuberanze, perfino capricci. Finché sono vive, esse chiedono promesse all’indomani, e soprattutto alla speranza d’amore. Nel momento che muoiono non chiedono promesse all’aldilà. Se qualcosa deve sopravvivere, è solo una memoria tutta terrena».

Daniel Oren / Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera
Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 1991-92

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