Le perfette incompiute di Schubert e Bruckner
Ciò che accomuna la Sinfonia in si minore di Franz Schubert (Ottava o Nona a seconda di come si consideri nel suo catalogo l’esistenza fantomatica di un altro lavoro intermedio) e quella in re minore di Anton Bruckner (Nona e ultima della sua produzione) è il fatto di essere giunte a noi incompiute, ossia non complete rispetto al tradizionale schema classico in quattro movimenti. Appena due, giustapposti, o meglio disposti quasi a specchio, ne conta la Sinfonia di Schubert; tre, in una originalissima disposizione a piramide monca del Finale, costituiscono il torso comunque monumentale della pagina estrema di Bruckner. In entrambi i casi, sappiamo, o quanto meno possiamo ragionevolmente arguire, che i due compositori, legati fra loro da profonde, sotterranee affinità cromosomiche, non pensavano affatto di lasciare incompiuti i loro lavori: cosa del resto ovvia per chi si cimenti, e per di più nel pieno della maturità artistica, a scrivere opere sinfoniche nel solco della tradizione. Ma per quanto diverse siano le cause apparenti di questa incompletezza, nell’un caso come nell’altro la ragione primaria di essa sta nella quasi involontaria presa di coscienza, lucidissima in Schubert, più intimamente combattuta in Bruckner, che niente avrebbe potuto aggiungere significa valore a quanto era già stato detto e scritto. Quelle Sinfonie erano “”perfette”” – proprio nel senso etimologico di compiute, menate a compimento – proprio là d terminava il loro viaggio di ricerca, dentro e fuori i confini della convenzione.
Certo, a voler stare coi piedi per terra le circostanze della loro nascita potrebbero anche portarci a spiegazioni più concrete e a ricordare le differenti condizioni in cui il destino agì sulle nostre Sinfonie è pur vero che, dopo aver creato quasi di getto i primi due movimenti nell’ottobre 1822 (il manoscritto della partitura reca la data del 30 ottobre), Schubert aveva abbozzato l’intero Scherzo (anche orchestrandone l’inizio) e le prime 16 battute del Trio interrompendosi lì – dicono i biografi più accreditati – per consegnare l’autografo all’amico Anselm Hüttenbrenner quale rappresentante dell’Unione Musicale Stiriana in vista di un’esecuzione parziale in ringraziamento per la nomina di Schubert a membro onorario dell’istituzione. Sta di fatto che, svanita nel nulla l’esecuzione, Schubert non richiese indietro la sua musica, la quale rimase per anni – più di quaranta – nascosta presso l’amico; fino a che Johann Herbeck non la scoprì e finalme ne dette a Vienna la prima esecuzione: il 17 dicembre 1865, e Schubert era morto da trentasette anni, più di quanti ne avesse vissuti (fu poi l’editore a coniare l’appellativo di “”incompiuta””).
E’ inverosimile pensare che Schubert si fosse reso conto del balzo in avanti, che aveva compiuto rispetto al passato quella Sinfonia discendente in linea diretta dal classicismo, ma da esso indipendente: tanto equilibrata nella distribuzione delle forze e dei rapporti classici quanto intrisa fino al midollo di malinconie e trasalimenti romantici. È verosimile invece che in quel frangente, nel vortice di una piena creativa per lui stesso eccezionale, la considerasse solo un primo passo verso quell’idea di una “”grande Sinfonia”” su cui non c’è da arrovellarsi fino alla morte, e che in quanto tale la abbandonasse, non finita, al destino. O forse proprio perché “finita” destinata alle vertigini, che le appartengono, dell’infinito.
Affermare che i due movimenti finiti realizzino compiutamente l’idea di un linguaggio sinfonico nuovo significa coglierne solo una parte di verità. Che un’aura speciale, quasi un misterioso e inquietante senso di sfida, si diffondi dall’inizio nel mondo della Sinfonia, lo indica già la scelta inedita della tonalità, si minore, legata in Schubert a precise sensazioni di morte ma anche di orgogliosa volontà di affermazione della propria identità. ancor più inaudito è il percorso formale del primo movimento, “Allegro moderato”: dove un “”motto”” enigmatico affidato in pianissimo a violoncelli e contrabbassi (introduzione? o già tema?) si espande a poco a poco fino a liberarsi nel moto circolare, assolutamente chiuso in se stesso, del tema in sol maggiore, per trasformarsi poi in soavissime memorie o in improvvise esplosioni di violenza nello sviluppo, e, dopo aver taciuto per tutta la ripresa, riemergere alla fine con funzione di coda: come per imporre la sua inesorabile e fatale simmetria di inizio e di fine. Già qui ogni figura si specchia in se stessa, annullandosi e rigenerandosi continuamente, quasi a farci credere che tutto sia racchiuso in questo viaggio e che una continuazione sarebbe solo un nuovo, vano peregrinare. E invece accade il miracolo: il secondo tempo, “”Andante con moto””, è come se ripercorresse nella stessa visione, ma capovolta, una condizione affine di intensa, concentrata meditazione, sospesa tra luci ed ombre. Le stesse atmosfere, ora rese più distese da dolcissimi sogni (il dialogo assorto tra oboe e clarinetto), ora sferzate da oscuri turbamenti, si ripresentano in un iridescente spettro armonico che sembra fissare l’instabilità di ogni dolore umano, intuire la bellezza e l’ideale, fino ad approdare a uno straziato gesto di orrore. Ciò che segue, le trasfiguranti ripetizioni e la coda evanescente nel nulla del silenzio, sono un ultimo cenno di addio prima del commiato: la Sinfonia ha raggiunto la fine, una fine senza ritorno. Vengono in mente le parole di un celebre romanzo di Thomas Mann, riferite a una Sonata – l’ultima per pianoforte di Beethoven – che pur seguendo tutt’altre strade giunge allo stesso esito di questa Sinfonia: «Un terzo tempo? Una nuovi ripresa… dopo questo addio? Un ritorno…dopo questo commiato? – Impossibile».
Le cause che impedirono a Bruckner d completare la sua Nona Sinfonia soni apparentemente più semplici da decifrare. Essa è dedicata “”Al buon Dio””, con candida innocenza. Eppure la sua genesi assomiglia a un calvario, e l’opera si interrompe sulla croce prima della resurrezione, che pure contempla con fede sincera. I primi abbozzi datano dal 1887 all’inizio del 1889, quando la composizione venne abbandonata per la revisione della colossale Ottava Sinfonia. Ripresa nel 1891, giunse al traguardo del terzo movimento il 30 novembre 1894 e impegnò Bruckner fino al giorno della sua morte, avvenuta a Vienna 1’1 ottobre 1896, ma senza andare oltre l’abbozzo del Finale. La prima esecuzione avvenne a Vienna 1’11 febbraio 1903, in un versione rielaborata da Ferdinand Löwe ma per risuonare nella versione voluta dal suo autore la Sinfonia “del buon Dio” dovette attendere fino al 1932. Ecco un altro aspetto, questa volta legato solo all’esteriore incomprensione del mondo, che unisce il destino di due grandi musicisti.
A differenza di Schubert, dunque Bruckner non completò la Sinfonia perché la morte glielo impedì. Ma questa è solo una mezza verità. Già la lunga gestazione indica come, dopo aver trattatoin modo originale alcuni problemi di architettura formale nella Ottava, risolvendo in un Finale comunque travolgente, Bruckner si trovò con la Nona di fronte a una barriera, di struttura e di stile. Nella Ottava, per la prima volta, egli aveva invertito le posizioni dei movimenti interni, posponendo l’Adagio allo Scherzo. Nonostante la dilatazione delle dimensioni, a cui corispondeva una amplificazione dei conteiuti anche tematici, la Sinfonia di Bruckier era stata fino a quel momento basata su in solido impianto classico profondamene assimilato e tipizzato, nel quale lo Scherzo – con lo slancio ritmico della sua forza primordiale, popolarescamente attenuata nel Trio – fungeva da trampolino di lancio per la risoluzione positiva del Finale. Nell’Ottava, la novità dell’anticipazione dello scherzo aveva portato a estendere a dismisura il terzo tempo, cioè l’Adagio, allenando però le maglie della forma generale; fino a rendere il Finale un problema, risolto con un gesto utopico, tanto fieramente dimostrativo sul piano musicale quanto prosaico nelle intenzioni rappresentative: a celebrazione tra squilli e fanfare dell’incontro tra lo Zar russo e il Kaiser austriaco. Evidentemente in quel tempo Bruckner stava elaborando nella sua mente un’altra idea di Sinfonia.
Quest’idea conduce nella Nona Sinfonia a una sorta di perfetta trinità e unità. Lo Scherzo, impiantato nella stessa tonalità di re minore del primo movimento, si colloca al centro di una forma ad arco nella quale al primo movimento, “”Solenne. Misterioso””, si contrappone il terzo, “”Lento. Solenne””: lasciando isolato al centro lo Scherzo, con la sua ebbrezza motoria un po’ visionaria, a far da cerniera tra i due movimenti estremi, concepiti distesamente e simmetricamente. È chiaro che in una disposizione di questo tipo il problema del Finale avrebbe richiesto una soluzione eccezionale, quasi esclusa per via di coerenza in ambito sinfonico. Forse il ricorso alle voci soliste e al coro, come nella Nona di Beethoven, di cui Bruckner voleva fare fino in fondo il suo modello dopo averne ripreso non soltanto la tonalità di re minore ma anche lo stesso esordio caratterizzato da una specie di vuoto cosmico, con tremoli e lunghi pedali? L’abitudine invalsa su consiglio di Hans Richter, e approvata dall’autore, di utilizzare come Finale il Te Deum, composto tra il 1881 e il 1884, è un espediente che salva le apparenze e forse la storia, ma segna all’interno della partitura una frattura stilistica evidente.
Giacché il punto di svolta di tutta la composizione è il terzo tempo, che non è soltanto una delle pagine più ispirate di tutto Bruckner ma anche l’agente primo della perfetta incompiutezza della Sinfonia. La tonalità di mi maggiore, così lontana dal re minore d’impianto, introduce, dopo la compatta articolazione del primo tempo e la vivacità un po’ surreale dello Scherzo, una lunga processione di incisi brevi e pregnanti, che si aprono come una finestra sulla luce, ma divengono ben presto anche dubbio proliferante, rinuncia e fuga nell’introspezione. Dopo gli ampi salti liberatori dei violini dell’inizio, il lavorio tematico sembra attorcigliarsi su se stesso, cromatizzandosi e arrovellandosi fino all’esasperazione. Un velato presentimento di morte si stende a poco a poco sulla Sinfonia, appena confortato dal solenne misticismo dei corali degli ottoni: un progressivo addio alla vita che nella sua serena accettazione del destino esala gli ultimi respiri inerpicandosi come il Cristo in croce, in alto, confidando nel “”buon Dio””. Tutto si spegne sempre più lentamente, in pianissimo e in dissolvenza, come andando incontro a una dolce sepoltura. A cui non è concesso di esplodere nel gaudio della resurrezione, ma solo di rimandarlo a un altro tempo. Che forse non è già più quello della Sinfonia.
Zoltan Pesko / Orchestra e Tecnici del Teatro Massimo Bellini
Teatro Massimo Bellini, concerti sinfonici, musica da camera, recital 1998/99