L’enigma della Città Morta
Tra le opere teatrali di Erich Wolfgang Korngold – cinque in tutto, di cui due sono brevi atti unici – Die tote Stadt è non soltanto quella che maggiormente contribuì a creare la fama del suo autore ma anche la più rappresentativa. Né l’una né l’altra cosa significano di per sé molto di fronte alla scomparsa di quest’opera dal repertorio e all’oblio da cui Korngold è tuttora in generale circondato, ma giustificano la scelta di un suo recupero scenico al di là di ragioni meramente storiche e culturali. Nonostante l’eclettismo stilistico e la ridondanza di simbolismi del libretto, Die tote Stadt è un’opera in piena regola, che rispetta in tutto e per tutto le convenzioni del genere, in primo luogo conservando al canto un ruolo centrale rispetto al pur densissimo tessuto sinfonico dell’orchestra. In un certo senso, essa appartiene a un’epoca che precede la crisi dell’opera: le sue radici sono ancora nel tardo Ottocento romantico e pur incamerando molti tratti moderni non mettono in discussione il principio di identità delle forme del teatro musicale. Ciò la rende storicamente datata nella misura in cui non partecipa se non marginalmente a quel processo di trasformazione che l’Opera in quanto genere attraversò successivamente, fin quasi a cambiare nella sostanza il rapporto fra drammaturgia e musica: e questo spiega almeno in parte perché Die tote Stadt finisse relegata ai margini del repertorio. Inoltre, fu di ostacolo a Korngold, come a molti altri compositori austro-tedeschi della sua generazione, l’esilio a cui furono costretti con l’avvento del nazismo e la condanna che si abbattè sulla loro musica in quanto “”arte degenerata””. La frattura che ne seguì ebbe ripercussioni nefaste sulla circolazione delle opere, oltre che sulla attività creativa. Per Korngold ciò significò l’inizio di una nuova fase, come compositore di colonne sonore per il cinema americano. Ebbe successo: di fatto, la sua carriera di compositore europeo, iniziata precocemente con i migliori auspici, fu compromessa alle soglie della maturità.
Die tote Stadt è un documento prezioso di un periodo ben preciso della cultura europea tra la fine dell’Impero asburgico e gli Anni Venti, sospeso tra espressionismo e neoclassicismo,
decadentismo e nuova oggettività: con le sue molteplici suggestioni letterarie può ambire a risvegliare sensazioni arcane di tempi non troppo lontani, di cui possediamo le chiavi; ribadendo tuttavia soprattutto i valori di concretezza dell’opera anche nel laboratorio brulicante uscito dalla fine del secolo. Essa promana un vago profumo d’antico, di “”già udito”” (in stretta connessione con l’argomento, che parla di un “”già vissuto””) e nello stesso tempo tocca in modo inquietante i confini minati della modernità, accarezzando voluttuosamente gli abissi della dissoluzione. Apprestandoci all’ascolto, non possiamo rinunciare al filtro estetico di una mediazione intellettuale, senza tuttavia privarci della gratificazione che può venire, giacché concepiti in modo diretto ed esplicito, tanto dalla musica quanto dal soggetto.
Prima di affrontarne i caratteri principali, sarà opportuno considerare qual è questo soggetto e come sia svolto nella forma drammatica e musicale. Alla base dell’opera si trova un libretto ricavato dal “”romanzo lirico”” dello scrittore belga Georges Rodenbach (1855-1898): Bruges-la-Morte, la città morta del titolo. Questo breve romanzo di un centinaio di pagine, pubblicato nel 1892 sotto l’evidente influsso di Poe e a stretto contatto con Maeterlinck, divenne una sorta di libro di culto nella mitologia Fin-de-siècle e Liberty delle città morte, aggiungendo il nome di Bruges a quelli più famosi di Venezia, Ravenna, Pisa, Toledo: città-simbolo di un modo di sentire e di pensare appartato e solitario, tutto rivolto al culto del passato, nel quale una disposizione d’animo decadente, che già intravvede la fine di una intera civiltà con tutto il suo carico di dolci ricordi e di congedi malinconici, si sposa con l’anima di un luogo, quasi incarnandosi in essa. Questa disposizione d’animo può esser definita funebre e onirica, a patto di non trascurarne la componente magica, mistica, demonica e in senso lato, quasi filosoficamente, religiosa.
Come s’imbattè il giovane Korngold in questo soggetto? In rapida sintesi: dopo il successo dei due atti unici Der Ring des Polykrates e Violanta, rappresentati a Monaco nel 1916 sotto la direzione di Bruno Walter, a Korngold, che allora aveva diciannove anni ma già poteva vantare un notevole credito negli ambienti musicali mitteleuropei, fu suggerito dall’amico Siegfried Trebitsch, che si era fatto un nome come traduttore tedesco di George Bernard Shaw, il testo di Rodenbach come argomento di una nuova opera (a titolo di curiosità può essere utile sapere che il soggetto era già stato preso in considerazione e rifiutato sia dal compositore di operette Leo Fall che da Puccini). Della stesura del libretto si incaricò, ricorrendo per prudenza a uno pseudonimo (Paul Schott), il padre stesso di Korngold, Julius: che era da anni uno dei più autorevoli e temuti critici musicali viennesi, avendo raccolto sulle colonne della “”Neue Freie Presse”” l’eredità nientemeno di Eduard Hanslick, il fervente paladino di Brahms e il feroce avversario della cerchia wagneriana. Korngold senior si servì anche dell’adattamento teatrale che Rodenbach aveva ricavato dal proprio romanzo, sotto il titolo Le Mirage, e che Trebitsch aveva tradotto fedelmente in tedesco (Das Trugbild): pur optando per il titolo originale, relegò il simbolismo della città morta sullo sfondo e puntò su una drammaturgia più diretta e realistica, accentrando l’azione sul protagonista come se essa fosse la proiezione di un suo sogno; prendendosi la libertà non soltanto di dare spazio adeguato a momenti lirici nelle visioni del sogno ma anche di modificare la chiusa con una sorta di “”lieto fine”” trionfalmente tradizionale, che dal sogno riporta alla realtà. Sapeva di che pasta era fatto il figlio, di cui era il primo ammiratore fin da quando lo aveva sostenuto nella sua fama di fanciullo prodigio; ma ancor più poteva contare su una lunga esperienza in materia di effetti teatrali e su una conoscenza pragmatica delle esigenze cui un’opera doveva sottostare per avere successo in quel tempo.
Dopo la parentesi del servizio militare, nell’anno di guerra 1917 trascorso nella banda militare di un reggimento di fanteria, Korngold cominciò a lavorare alla composizione dell’opera nel 1918. Il 15 agosto del 1920 la partitura era terminata, già in pista di lancio per la rappresentazione: la quale, caso abbastanza unico nelle cronache teatrali, avvenne la stessa sera, il 4 dicembre 1920, contemporaneamente in due teatri diversi, a Colonia sotto la direzione di Otto Klemperer e ad Amburgo con Egon Pollak sul podio. L’anno successivo approdava trionfalmente a Vienna (con Maria Jeritza nel ruolo di Marietta) e, dopo una discreta fortuna in teatri minori, riceveva la consacrazione finale a Berlino nel 1924, direttore Georg Szell e protagonisti Lotte Lehmann e Richard Tauber. Questi nomi addirittura mitici di interpreti ammantano di un’aura speciale la fortuna della città morta, che fino al bando e alla partenza di Korngold per l’America, avvenuta nel 1934, rimase un successo popolare paragonabile con pochi altri.
Veniamo ora all’opera. L’azione si svolge a Bruges, la città morta, alla fine dell’Ottocento. Prima considerazione: siamo dunque in epoca contemporanea, in un’attualità lontana tanto dalla storia quanto dal mito. Solo apparentemente, però: come scopriremo subito nella prima scena del primo atto (o meglio, come indica la partitura, Bild, quadro: quasi a suggerire un ambiente incorniciato in una raffigurazione puramente immaginaria), Bruges è un luogo ideale dell’anima, sospeso tra realtà e sogno, nel quale tutto è antico e abitato dai fantasmi del passato. Frank, venuto a Bruges in visita dall’amico Paul, viene introdotto dalla governante Brigitte nel “”tempio del passato””, nel quale Paul vive sepolto conservando i ricordi della moglie morta Marie, tra cui, venerata come una reliquia, una treccia di capelli. Paul racconta a Frank come la sua vita trascorsa nel culto della memoria di una felicità perduta e come la moglie morta e la città morta, dove si è ritirato in solitudine crepuscolare, siano facce complementari di uno stesso silenzioso mistero. Un fatto miracoloso è venuto però a turbare il suo isolamento: per caso, vagando nella città morta, ha incontrato una sconosciuta rassomigliante come una goccia d’acqua alla moglie, tanto da fargli credere a una reincarnazione. Invano Frank lo ammonisce di lasciare in pace i morti: più forte è la volontà di approfondire il sogno del ritorno.
Si individuano già in questa prima parte del primo atto alcuni caratteri linguistici destinati a diventare ricorrenti. L’enorme apparato orchestrale (che ricorda l’organico sterminato della “”Sinfonia dei Mille”” di Mahler, con l’aggiunta di cori e strumenti d’ogni tipo dentro e fuori la scena) stabilisce un’atmosfera arroventata e turgida, non disdegnando però finezze di linee arabescate e disegni floreali; l’armonia, con la sua incessante mobilità, accresce il senso di mistero e di inquietudine in una sorta di inafferrabile trascolorazione di toni, su cui si ergono brevi incisi profilati tematicamente, di plastica nettezza, per ampi salti diatonici, accompagnati da accordi pieni e sviluppati con progressiva accumulazione. Consonanza e dissonanza sono valori elementari per individuare stati d’animo contrastanti, da cui nasce un’elaborazione sempre più complessa. Anche il canto dei due personaggi definisce già una psicologia: svettante e stentorea quella tenorile di Paul, estatica nei ripiegamenti lirici; più riflessiva nella declamazione quella baritonale di Frank.
Nella seconda parte del primo atto, con l’entrata di Marietta, la sconosciuta, il clima si stempera in giocosa leggerezza, sulla quale tuttavia non cessa d’incombere l’ombra tragica di una oscura minaccia. Marietta, una ballerina di teatro che ha tutto il pepe di una vispa soubrette, tipo irresistibilmente classico di donna fatale, seduce Paul non solo con la sua straordinaria rassomiglianza nell’aspetto e nella voce alla defunta moglie di Paul ma anche con la sua prontezza ad assecondare i suoi stupefatti feticismi: tra cui quello di cantare una canzone accompagnandosi sul liuto già appartenuto a Marie offre occasione per un inserto in forma chiusa di spavalda provocazione. Siamo non lontani dal mondo dell’operetta viennese, con la sua frizzante allegria intrisa di profumo di morte: qui declinata anch’essa ormai al passato, come tentazione di un sogno perduto.
Il secondo quadro si apre con la scena dell’apparizione di Marie, una delle pagine in cui più risaltano le non comuni doti di strumentatore di Korngold, applicate a una situazione drammatica insieme funebre e onirica: l’uso della celesta sui rintocchi delle campane gravi è una trovata di studiato effetto, ma il risultato generale non manca di genuina pregnanza teatrale, sempre sul versante di una magica attesa sospesa simbolicamente tra luce del giorno e tenebra della notte. E quanto più Paul anela a fare chiarezza interrogandosi sulle sue allucinazioni, tanto più viene irretito in un cono d’ombra che lo allontana dalla padronanza di sé, spingendolo a gesti estremi. Il pregio della musica in questa scena sta nel combinare questo cupo senso di perdizione con una frenesia di vitalistica spensieratezza.
Momento centrale dell’atto, e probabilmente dell’intera opera, è la scena della resurrezione. Essa è preceduta dalla burlesca delle maschere che improvvisano alla maniera della Commedia dell’arte: una scena tutta animata da folle eccitazione, lanciata fino ai limiti di una gioconda isteria, su cui con repentino stacco si staglia l’incantato, nostalgico Lied in forma di valzer cantato da Pierrot. L’episodio delle maschere introduce la detta scena della resurrezione. Si immagina che la compagnia teatrale di Marietta rappresenti ora la grande scena del sabba dall’opera Roberto il Diavolo di Meyerbeer; Paul assiste con orrore alla reincarnazione di Marietta in una figura del passato: nel presente della finzione teatrale egli vede la sconsacrazione del suo sogno. Da questo canonico esempio di “”teatro nel teatro””, con tanto di citazione ironica, duplice finzione e svelamento finale, si origina un crescendo parossistico che conduce alla peripezia. Musicalmente, la tenuta pressoché perfetta dell’episodio, ottenuta grazie a un controllato gioco di rimandi e di ammiccamenti, di sfolgorio orchestrale e di sapiente intreccio di voci, sfocia in una conclusione di pretta retorica teatrale, scontatamente convenzionale.
Atto terzo. Nuovamente un Preludio orchestrale, questa volta ruotante attorno ai rovelli interiori di Paul in lotta con se stesso e con i suoi fantasmi, e dunque percorso da forti tensioni, da improvvisi scarti di tempo e accenti, accelerazioni e frenate. Ciò che ora egli desidera è l’oblio, la scomparsa dei fantasmi: nel più sicuro rifugio nella fede, nella sfida della preghiera e del pentimento, la salvezza. L’autore sembra sentire la gravità del momento e tocca la corda della solennità, della trasfigurazione, perorando assai con gli ottoni spiegati e contrapponendo laceranti dissonanze a distensivi segnali di pace, dove il peccato e la colpa cercano consolante rifugio. Il cammino deve essere però percorso fino in fondo con un duplice omicidio: nel delirio che segue apprenderemo con un certo raccapriccio che la treccia di capelli non è solo una santa reliquia ma anche uno strumento di morte. Al vertice della scena un ultimo colpo d’ala la musica lo riceve con la danza selvaggia di Marietta, scatenata non meno di Salomè, prima che Paul la strangoli con i capelli di Marie e la renda così in tutto simile a lei: un oggetto da mettere nella teca dei ricordi e della cui presenza finalmente liberarsi, per poterlo celebrare dando fiato ai polmoni in una apoteosi da vero tenore eroico.
E qui, stando a Rodenbach, la vicenda finirebbe. Non è così. E non solo perché dopotutto non siamo in un’opera verista, e Korngold é troppo scaltro per accontentarsi di un finale da Grand-Guignol, nel quale tuttavia ha dimostrato di sentirsi a proprio agio. Che cosa è realtà e che cosa sogno? In fondo, è questo l’enigma ambiguamente sospeso sulla città morta. Ed è appunto lì che si riallaccia l’epilogo. Paul non ha vissuto: ha semplicemente sognato. Forse non si è mai allontanato dal “”tempio del passato””, se non con l’immaginazione, seguendo le sue allucinazioni e i suoi desideri. La serva Brigitta annuncia la signorina Marietta, la quale, più viva e vegeta che mai, è venuta a riprendere il suo ombrello e le sue rose, dimenticate nel convegno amoroso del giorno prima; poi è la volta di Frank, che Paul nel suo delirio aveva creduto d’avere ucciso in duello per gelosia di Marietta, a ripetere la visita. L’opera finisce dov’era cominciata, ma con esito di segno opposto: il sogno ha distrutto il sogno, ora ricomincia la vita. Paul comprende che la felicità che gli resta è in un altrove sconosciuto, purché lontano dalla città morta. E a tale congedo serenamente si dispone.
Nella musica della città morta, un’opera che si dipana da cima a fondo all’insegna del “”Déjà vu”” e del “”Déjà entendu””, le citazioni intenzionali (da quella di Roberto il Diavolo a quella del motivo dell’Oro del Reno, per segnalare solo le più esplicite) si intrecciano con tutta una serie di richiami e influssi a prima vista riconoscibili: Richard Strauss e Gustav Mahler nella strumentazione, che oscilla tra i furori del gigantismo orchestrale e le finezze di tipo cameristico, anche in corrispondenza delle alternanze tra momenti epici e lirici, tra episodi di tragedia e di commedia; Puccini per certa analogia nella capacità di creare “”vere”” melodie di ampia gittata, perfettamente intonate al canto e all’azione; Debussy per gli impasti timbrici e le soluzioni armoniche; Schönberg per la violenza espressionista delle tensioni e delle dissonanze; l’operetta in genere, nelle scene di raccordo e di complemento, che costituiscono peraltro una presenza importante nell’economia del lavoro.
L’accusa di eclettismo e di epigonismo che convenzionalmente accompagna Korngold trova facili appigli questi accostamenti evidenti. Ma che cosa significa in concreto? Significa semplicemente che Korngold partiva dal linguaggio sedimentato della propria epoca e lo utilizzava per i propri scopi senza porsi il problema teorico di essere originale o moderno a tutti i costi, né tantomeno privarsi di nessuna delle esperienze di cui poteva disporre. La sua lingua non copia nessuno: si serve di vocaboli comuni, un lessico e di una grammatica che rispecchiano lo stato della musica del suo tempo, privilegiando la melodia e le più recenti acquisizioni in fatto di armonia, di strumentazione, di timbrica.
Non un sistema, ma un campo aperto di possibilità: dove il difetto sta semmai nel non voler rinunciare a nessuna strada, nell’accumulare anziché distillare, fidandosi della onnivora capacità di assimilazione del teatro. Da un punto di vista formale, opta per l’eterogeneità di scene in sé compiute, a blocchi contrastanti, l’uno collegato all’altro per rapidi trapassi, evitando così tanto la cesura quanto l’arco drammatico-musicale continuo.
Questa era del resto la sua natura di musicista istintivo, flessibile, assai preparato tecnicamente e straordinariamente ricettivo, pratico più che astratto: doti senza le quali non avrebbe potuto adattarsi al cinema senza abbassarsi a troppi compromessi. Il teatro fu l’ambiente più consono a esprimere questa natura senza preventive esclusioni: almeno fintantoché ne ebbe la possibilità. Forse in seguito sarebbe diventato davvero un epigono, ma non ebbe il tempo per diventarlo. In quell’ambiente era cresciuto, si sentiva a casa sua, né troppo largo né troppo stretto. Viveva la tradizione dell’operetta viennese come un tesoro da tener caro (e lo fece con numerosi rimaneggiamenti all’uso del tempo); amava il balletto, nel quale si cimentò come autore a undici anni; adorava Mahler, di cui intuì subito la grandezza; stimava Zemlinsky, di cui fu allievo, e teneva in alta considerazione gli esperimenti della sua scuola. Era un figlio felice della sua epoca, finché la sua epoca fu felice; e successivamente non la rimpianse, ma semplicemente la ricordò rallegrandosi di averla vissuta.
Non crediamo che il suo approccio al soggetto della città morta fosse di tipo intellettualistico o estetizzante, né che condividesse nell’intimo la tematica che vi era contenuta, e che peraltro il padre aveva abbondantemente annacquato nel libretto. Era però un argomento magnifico per un’opera, ricco di effetti teatrali e di colpi di scena, vivace e concettoso, “”alla moda”” senza essere troppo sofisticato, e dunque di sicuro successo. E come tale lo compose, senza immedesimarsi troppo nella parte ma rivivendolo con vera passione creativa. Sicuramente disponeva dei ferri del mestiere per venirne a capo senza problemi. Conosceva a fondo i grotteschi Pierrot e le deliziose Mariette, che forse a vent’anni non avrebbe saputo apprezzare per una fugace avventura ma che comprendeva bene nel sottile gioco della seduzione: non sorprende che a questi personaggi vitali e al loro mondo straordinariamente vero siano dedicati i momenti più originali e ispirati dell’opera.
Quanto a Paul, egli era un personaggio a tutto tondo, da trattare non nella verità della vita ma nella finzione del teatro: dove era possibile immaginare e sognare, nobilitando e spiritualizzando anche gli istinti più brutali. Perfino lo sfondo lugubre della città morta perde qualcosa del suo significato funereamente simbolico e diviene cornice sontuosa di un quadro d’epoca
Nella città morta il tempo si è fermato, ma l’utopia del sogno dell’eterno ritorno si scontra con la coscienza che rivivere il passato significa perderlo, annullarlo nel presente. Solo ciò che scompare diviene veramente realtà.
Da ultimo, l’enigma della città morta è forse soltanto l’eterno enigma del teatro, racchiuso nel sottile lembo spaesato che separa la passione dal discernimento. In questa meravigliosa terra di nessuno è inutile chiedersi se si viva o si sogni: si vive e si sogna, insieme.
Ralf Weikert / Orchestra, Coro (diretto da Nicola Luisotti) e Tecnici del Teatro Massimo Bellini
Teatro Massimo Bellini, Opere e Balletti 1996/97