Le musiche in programma
La longevità ha nuociuto, invece di giovare, alla fortuna postuma di Camille Saint-Saëns. Compositore alquanto prolifico grazie a ma invidiabile facilità di scrittura, di lui si ricordano soltanto pochi titoli: Introduction et Rondò capriccioso per violino e orchestra (1870), il poema sinfonico Danse macabre (1874), l’opera Samson et Dalila (1877), la fantasia Le carnaval des animaux (1886). soprattutto, però, quasi a contrassegnarne la personalità, si è soliti citare l’acerrima avversione di lui, già anziano, per uno dei pilastri dell’avanguardia musicale novecentesca, il Sacre du printemps di Stravinsky, ostilità che ha contribuito a far sì che nella considerazione generale Saint-Saëns venisse etichettato come uno dei più pervicaci conservatori della storia musicale francese. Giudizio guanto meno ingeneroso, se affibbiato a colui che negli anni Settanta dell’Ottocento, partecipando, all’indomani della sconfitta di Sedan, alla fondazione della Société Nationale de Musique, intese promuovere la rinascita di una produzione strumentale autoctona, rapace di far concorrenza all’egemone musica tedesca e che, durante il quinquennio di insegnamento presso l’Ecole Niederneyer (1861-65), educò allievi spesso poco più giovani di lui, fra cui Messager e l’amico per la pelle Fauré, alla comprensione della contemporaneità europea. Di cui fu anche l’alfiere in molte circostanze, per esempio come primo esecutore in terra di Francia dei
poemi sinfonici di Liszt, autore di un pezzo celebrativo dell’elettricità (Le feu céleste) per l’Esposizione universale del 1900 e primo compositore di fama a scrivere per il cinema (L’assassinat du duc de Guise, 1907).
Certo, autentico modernista Saint-Saëns non lo fu mai, e allo scoccare del Novecento, divenuto una gloria nazionale accademicamente pluridecorata (addirittura partecipò all’inaugurazione del proprio monumento a Dieppe), era ormai considerato un musicista sorpassato. La sua musica equilibrata, nitida, affabile, elegante, razionalistica, quasi cartesiana, costruita con somma sapienza musicale e con distinto mestiere, si fonda su presupposti estetici di matrice sostanzialmente classica: Mozart, dunque, insieme al romanticismo temperato di Mendelssohn. «Ciò che manca a questo giovane è l’inesperienza», aveva sentenziato Berlioz, a sottolineare la forte dottrina tecnica, la poderosa maestria contrappuntistica che sosteneva l’ispirazione di Saint-Saèns: “”spirito eclettico””, secondo la definizione datasi da lui stesso, “”favorito dagli dèi”” e “”Mozart del suo tempo””, come qualcuno che gli voleva particolarmente bene lo gratificava, “”musicista della tradizione”” a parere del non amato Debussy.
Saint-Saëns fu un famoso organista e un eccellente pianista che, oltre all’Europa e alle due Americhe, toccò per concerti lidi esotici quali il Nord Africa, Ceylon, Saigon, l’India. Cultore di letteratura francese e di lingue classiche, di matematica, scienze naturali, astronomia, archeologia e filosofia, i suoi interessi eruditi lo portarono a interessarsi perfino di lire e cetre antiche, dei dipinti di Pompei, dell’architettura dei teatri romani. Sulla sua estetica ebbe importanti riflessi l’intensa frequentazione della musica del Settecento: la riscoperta di Händel, in Francia del tutto dimenticato; le revisioni di partiture teatrali di Lully, Charpentier, Gluck; la cura editoriale, per la casa Durand, degli opera omnia di Rameau.
Per pianoforte e orchestra Saint-Saëns ha lasciato cinque Concerti e una manciata di pezzi caratteristici. Fra i Concerti solo il Secondo e il Quinto hanno goduto di una certa fortuna interpretativa: l’uno fra l’altro cavallo di battaglia di Arthur Rubinstein, l’altro amato da Busoni e, più di recente, da Sviatoslav Richter. Il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra fu composto ed eseguito da Saint-Saëns come pezzo forte della serata di festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario del suo esordio come concertista: la ricorrenza cadeva nel 1896, giacché aveva debuttato solo undicenne. A quell’epoca il musicista francese era ormai coronato da un larghissimo successo internazionale; erano però molti anni che non si cimentava più con la forma del concerto per pianoforte: dal 1875, anno del Quarto Concerto. Il nuovo lavoro venne scritto tra il 1895 e il 1896 a Luxor, in Egitto, durante uno dei consueti soggiorni invernali di Saint-Saëns nel Nord Africa. Il Concerto op. 103 porta i segni di queste peregrinazioni nel suo particolarissimo miscuglio di melodie orientali e spagnoleggianti, sposate con la quadratura della forma-sonata. Il primo movimento, assai ricco di materiale tematico, offre un esempio di scrittura elegante e appassionata in una acconcia costruzione formale; nel successivo Andante si affaccia invece prepotentemente l’elemento esotico, con citazioni di melodie nubiane (pare ascoltate dai barcaioli del Nilo), associate a spunti moreschi, tutti d’impianto modaleggiante: sono queste tinte che hanno valso al lavoro il titolo di “”Concerto egiziano””, o anche “”L’orientale””. In effetti, esso rappresenta egregiamente le suggestioni orientali della Parigi fin de siècle, le stesse che ritroviamo, proiettate però verso il futuro, nelle opere più o meno coeve di Debussy e Ravel. Il finale, brillantissimo e tecnicamente assai arduo, vive di un’effervescenza ritmica tutta mondana, ma che con i suoi richiami teatrali, operettistici, e la sua cavalcata virtuosistica ha tutto lo charme della migliore musica francese. Il pianoforte vi svolge una parte di bravura, pur riuscendo a mantenere con l’orchestra un rapporto intimamente concertante e a dar luogo a una riuscita fusione anche sotto l’aspetto timbrico e coloristico.
Philippe Entremont / Giovanni Bellucci, Orchestra dell’Arena di Verona
Fondazione Arena di Verona, Stagione sinfonica 2002/2003