Le musiche in programma
A Londra, una volta, un critico chiese a Ferruccio Busoni quale fosse la sua professione. «Io sono un musicista, come certo saprà», ribatté Busoni. «Oh sì, naturalmente; ma, voglio dire, quale strumento suona in particolare?». Questo accadeva nell’autunno 1897, durante la prima tournée in Inghilterra. Busoni confidò alla moglie di sentirsi «un po’ depresso da questa sensazione di dover ricominciare sempre dal principio, un Sisifo dei debutti»: aveva appena passato i trent’anni, vantava una lunga carriera di concertista militante, ma ogni nuova apparizione pubblica, ogni nuova tappa in città o paesi sconosciuti seguiva un rituale penoso, poco importa se immancabilmente concluso da successi trionfali, e indimenticabili. Quando Busoni ritornò a Londra l’anno dopo nessun critico, anzi nessuno che l’avesse udito suonare, avrebbe più osato chiedere quale fosse la sua professione.
Ma Busoni non si considerò mai, di professione, soltanto un pianista. «I am a musician!», aveva infatti risposto in quell’occasione. E in altre ancor più spiacevoli situazioni aveva reagito con amarezza, talvolta con sarcasmo, talaltra con fine ironia su quella “”existence de saltimbanque”” che lo costringeva a far mostra di sé in pubblico, a dare agli altri un’immagine che corrispondeva solo in parte a quello che sentiva di essere e che realmente era: un musicista completo e impegnato su fronti distinti ma complementari. Per lunga parte della sua vita soffrì, ora in silenzio ora protestando con veemenza, dell’esser considerato solo un fenomenale virtuoso, e non per esempio un interprete altrettanto grande, o soprattutto un compositore. Eppure al concertismo non rinunciò finché poté, e non solo per ambizione o per il guadagno materiale, che pure gli era indispensabile; e quando fu costretto a farlo quasi non ebbe pace, arrivando perfino a rimpiangerne i riti («Dopo tutto – disse – sono un cavallo da circo!»).
Se Busoni fu anzitutto un pianista e un virtuoso per vocazione, nato per suonare il pianoforte, e che si realizzò in una completa incarnazione, spirituale e fisica, nello strumento “”malfamato ma unico””, non va dimenticato che il pianismo di Busoni fu soltanto una faccia della poetica del creare e del comporre: comporre musiche di, da e sopra altri autori in veste di revisore, trascrittore e rielaboratore di opere pianistiche; creare egli stesso opere per il pianoforte, come ultimo erede di una lunga tradizione che da Bach giungeva fino a Liszt e ai moderni, e al tempo stesso convinto assertore di nuove possibilità tecniche ed espressive dello strumento. Oggi che la fama di Busoni pianista è stata fatalmente oscurata dal tempo (ne rimangono soltanto il ricordo di un mito e poche incisioni discografiche) si tende a considerare sotto altra luce la sua opera di compositore, che è stata ampiamente rivalutata in tutti i generi con i quali egli si confrontò: opera che consegna alla storia un autore complesso e problematico, ma di prima grandezza.
Nell’estate del 1890 Busoni ebbe il primo importante riconoscimento ufficiale della sua carriera di compositore vincendo a Pietroburgo il premio di composizione al primo Concorso Rubinstein. Le nuove opere che gli valsero un’affermazione così prestigiosa furono la Prima Sonata in do maggiore per violino e pianoforte (pubblicata nel 1891 come op. 29 e con la dedica al violinista Adolf Brodsky), due pezzi per pianoforte (nei cui titoli Kontrapunktasches Tanzstück e Kleine III Ballettszene ritroviamo le due costanti della poetica pianistica busoniana: l’antica, polifonico-costruttiva, e la moderna, virtuosistico-brillante) e soprattutto il Konzertstück per pianoforte e orchestra, scritto a Helsinki nel 1890 e pubblicato poi da Breitkopf & Härtel nel 1892 (op. 31a) con la dedica al padrino del concorso, appunto il pianista e compositore russo Anton Rubinstein. Busoni, secondo quanto confidò alla moglie rievocando quell’evento, avrebbe senza dubbio dovuto vincere anche il premio come miglior pianista se Anton Rubinstein, come presidente della giuria,
non si fosse opposto e non l’avesse fatto assegnare al russo Dubassov, per motivazioni – diremmo noi oggi – geopolitiche. In realtà Rubinstein non aveva affatto inteso fare un torto a Busoni, di cui
ammirava le grandi qualità pianistiche e che eseguendo proprio il Concerto in re minore dello stesso Rubinstein aveva strabiliato la giuria; anzi. Dovendosi però “”per forza”” dare uno dei due premi a un russo, si pensò di riservare a Busoni quello di composizione, nell’intento di aiutare così la parte meno nota e riconosciuta della sua attività di musicista. Busoni non serbò alcun rancore verso Rubinstein, né allora né mai: fu anzi grato di esser stato valutato più come compositore che come pianista.
Va subito aggiunto che cercheremmo invano nel Konzertstück (ossia: “”Pezzo da concerto””) il segno distintivo del capolavoro, o almeno del lavoro personale e compiuto: esso appartiene alla fase della primissima maturità di Busoni (che aveva allora 24 anni) e presenta ancora molti risvolti acerbi. E’ però un’opera sintomatica, rivelatrice di alcune tendenze. Il dubbio, avvalorato dalle vicende del concorso, che il premio fosse stato assegnato a Busoni come compenso del mancato conferimento di quello per l’esecuzione pianistica è legittimo; senza contare che tra i partecipanti al concorso di composizione, riservato ai giovani da venti a ventisei anni, non figuravano né nomi né lavori di grande spicco. Inoltre Rubinstein a suo modo voleva proteggere Busoni, e Busoni, che lo ammirava sinceramente anche come compositore, gli aveva composto un pezzo su misura, il Konzertstück per pianoforte e orchestra appunto, scintillante di un virtuosismo trascendentale e gonfio di epica monumentalità, che tocca l’apice nella cadenza dell’Allegro, in un fugato di ardimentose proporzioni. L’Allegro è preceduto da una Introduzione lenta, pagina disuguale ma riscattata qua e là da pregevoli intuizioni armoniche e timbriche, specialmente nella scrittura pianistica.
Com’era sua abitudine con le composizioni giovanili più promettenti, Busoni ritornò in età matura su questo lavoro e aggiunse al dittico originario (Introduzione e Allegro) una seconda parte intitolta Romanza e Scherzoso (op. 54, del 1921) dedicandola ad Alfredo Casella, con il quale a quest’epoca aveva stretto rapporti di amiizia. La prima versione e l’aggiunta posteriore, pubblicate nel 922 con il nuovo titolo di Concertino (ossia piccolo Concerto), sostituiscono globalmente un’opera più equilibrata e completa, anche se stilisticamente eterogenea.
Philippe Entremont / Giovanni Bellucci, Orchestra dell’Arena di Verona
Fondazione Arena di Verona, Stagione sinfonica 2002/2003