Robert Schumann – Szenen aus Goethes “”Faust”” (Scene dal “”Faust”” di Goethe), per soli, doppio coro, coro di voci bianche e orchestra

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Robert Schumann – Szenen aus Goethes “”Faust”” (Scene dal “”Faust”” di Goethe), per soli, doppio coro, coro di voci bianche e orchestra

Sembra che già nel 1832, a ventidue anni, Schumann avesse accarezzato l’idea di mettere in musica il Faust di Goethe, terminato appena l’anno prima ma a lui ben noto, per quanto riguardava la prima parte della tragedia (1808), sin dagli anni dell’infanzia. Uno degli Intermezzi op. 4 per pianoforte – il secondo in mi minore – sarebbe stato ispirato dal canto di Margherita all’arcolaio che inizia con le parole Meine Ruh’ ist bin, canto sul quale, diciotto anni prima, Schubert aveva creato con Gretchen am Spinnrade (1814) un tipo di Lied assolutamente nuovo per carattere e forma e che Schumann avrebbe qui parafrasato mediante il pianoforte; forse a voler dare espressione a una pena d’amore, più probabilmente a uno stato interiore di profondo disagio esistenziale, che di lì a poco sarebbe sfociato in una devastante crisi depressiva: la prima di una lunga serie. Schumann ne uscì inventandosi un mondo fittizio – la lega dei fratelli di Davide – e un impegno fantastico – la lotta contro i filistei – abbandonando per il momento ogni idea faustiana.

Ripresa oltre un decennio piìi tardi, quest’idea si sarebbe sviluppata in una delle più corpose e impegnate partiture di Schumann, di un genere la cui definizione risulta a prima vista problematica: non oratorio profano, benché sia intriso del suo spirito, impieghi i suoi mezzi compositi e ne adotti la veste drammatica non rappresentativa; non vera e propria opera destinata al teatro, benché il titolo – Scene dal “Faust”di Goethe – sembri sottolineare l’importanza dell’elemento scenico-drammatico; non sinfonia con voci e coro, per quanto l’incidenza della componente sinfonica sia rilevante. E neppure, da ultimo, semplice illustrazione dei passi virtualmente “”musicali”” presenti nel Faust, giacché l’interno di Schumann mirava a raggiungere la piena unità e corrispondenza non soltanto di parole, fatti e suoni ma anche, in un senso assai più profondo, di pensiero, poesia e creazione musicale.

La stessa genesi, lunga e tormentata, della composizione, alla cui realizzazione occorsero quasi dieci anni, rispecchia l’impegno con cui Schumann, nel rivestire di musica un testo che lo entusiasmava tanto quanto lo ossessionava, strenuamente agì al fine di appropriarsi del Faust e ritagliarne un’interpretazione congeniale alla sua natura di artista; un’interpretazione che dovendo fatalmente scegliere fra una massa incredibilmente ricca di temi e di situazioni, fin dal principio privilegiò quelle valenze mistiche e quelle risonanze spirituali che sembravano predestinate a incarnarsi nella musica. La via seguita appare a questo riguardo estremamente istruttiva e condizionante per il significato stesso dell’opera.

Fu dunque alla fine del 1843 che Schumann decise di mettere in cantiere il progetto a lungo vagheggiato. Nel 1844, di ritorno da un viaggio in Russia con Clara, iniziò la composizione partendo dall’ultima parte del Secondo Faust, e precisamente dall’imponente scena finale del poema che, nella versione definitiva del musicista, costituirà la terza e ultima parte ma, dal punto di vista compositivo, è il nucleo centrale e originario del lavoro. Interrotta più volte, quest’ultima parte fu completata nell’aprile 1847; salvo aggiungersi, in luglio, una seconda versione del conclusivo Chorus Mysticus. Due anni dopo Schumann estese il lavoro a ritroso alla prima e alla seconda parte. Le tre scene iniziali, tutte dal Primo Faust (Scena nel giardino, Margherita davanti all’immagine della Mater dolorosa, Scena in duomo), videro la luce nella prima metà del 1849, insieme con al quarta, prima della seconda parte (Ariel e il risveglio di Faust), che si distacca dalle precedenti per un evidente mutamento di clima ma è in stretta relazione con esse “”per contrasto””. Si attua qui infatti un primo passaggio verso l’atmosfera meno cupamente drammatica e più diffusamente simbolica del Secondo Faust, cui appartengono anche le due restanti scene della seconda parte, Mezzanotte e Morte di Faust, composte nel 1850. Alla forma dell’opera così come noi la conosciamo mancava soltanto l’Ouverture, che Schumann stese per ultima nel 1853 riassumendovi, in una struttura saldamente sinfonica, il materiale musicale fondamentale e i toni caratteristici elaborati nelle sette scene.

Il percorso tenuto da Schumann per estrarre dal Faust la materia di una composizione formalmente sui generis non segue, come è chiaro, un mero calcolo compositivo, ma nasce da precise scelte interpretative che stabiliscono una gerarchia fra le tre parti in base a significati non soltanto poetico-musicali ma anche metafisico-spirituali. Non è senza valore che Schumann cominciasse proprio dalla fine del poema. L’importanza dominante di questa vasta scena articolata in sette numeri non risiede tanto nel fatto che da sola essa occupi una buona metà del lavoro quanto piuttosto nel suo significato di trasfigurazione dei conflitti precedenti, subordinati e finalizzati alla contemplazione di una realtà immateriale di puri angeli e di essenze perfette cui la voce del coro (non soltanto nel conclusivo Coro mistico) conferisce toni di universale conciliazione. Non sembra esagerato asserire che Schumann vi abbia potuto vedere quella realizzazione dell’assoluto musicale cui la metafisica romantica della musica, da lui ripristinata anche teoricamente dopo l’applicazione pratica nella lotta contro i filistei, costituzionalmente tendeva; e niente meglio di questo Finale “”incommensurabile”” poteva esprimere l’aspirazione all’assoluto incondizionato, all’infinito come totalità organica riconquistata e divenuta, attraverso la musica, percepibile ed eloquente.

È in relazione con questo stadio ultimo delle possibilità espressive della musica – intrecciato con il tema della Redenzione e della progressiva conquista della Perfezione come svuotamento della Sehnsucht (nostalgia) e dello Streben (anelito), stante l’interpretazione schumanniana dell’estrema visione di Goethe – che si dispongono le altre due parti del lavoro. La prima parte, drammatica e movimentata, ispirata dal Primo Faust, dipinge la vicenda amorosa di Faust e Margherita; e ad esserne protagonista, nella brevità essenziale delle tre scene, è la giovane donna: vittima predestinata del sacrificio, appena consumati gli attimi di una felicità fugace, costei si consegna intera al dolore e all’angoscia, solo per far risaltare più lucidamente il trionfo del suo riscatto.

La seconda parte, della quale è Faust il protagonista, trascende l’elemento terreno per svolgersi nel mondo fantastico degli spiriti (Elfi, ma anche spettri e dèmoni) e della natura. Il peso allegorico è marcato: Faust è un simbolo dell’umanità intera. È la parte più fiorita, suggestiva e romanticamente rigogliosa, del lavoro: gli stessi elementi descrittivi e illustrativi valgono a incorniciare i simboli che vi appaiono nel mondo di fiaba di una natura dai vasti confini. Se la terza parte è il punto di arrivo e nello stesso tempo l’origine della partitura schumanniana, sarebbe sbagliato vederne l’articolazione come un movimento lineare e continuo di ascesa, o addirittura come un processo di tipo dialettico che trova la sintesi nella contemplazione mistica, dopo aver attraversato la regione delle vicende umane e quella degli spiriti e della natura. Le tre parti, e meglio le sette scene complessivamente, sono altrettanti quadri a sé stanti, non legati da continuità drammatica né tantomeno scenica, che illuminano, a livelli differenti, un unico tema poetico: l’aspirazione all’assoluto incondizionato, privato da ogni carico materiale. Sotto questo profilo il Faust di Schumann è opera fortemente ideologica in quanto risultato di una concezione estetica radicale; ma é anche opera autobiografica, che ci parla delle ossessioni, delle visioni e delle più intime aspirazioni del suo autore; e più volte, nei suoi sogni inquieti, Schumann si era visto circondato dagli Elfi, dilaniato dai Lemuri, trasportato in cielo dagli Angeli. Né Faust, né Margherita, né Mefistofele hanno una storia in quanto personaggi d un’azione, men che mai se intesa in senso unitario e omogeneo: essi sono aspetti di un’unica realtà la cui vera sostanza sta nella musica che l’avvolge e ne dischiude le zone più riposte, per depurarsi infine nella concentrazione assorta e nella solennità dell’apoteosi finale E forse nessuno meglio di Schumann ha saputo cogliere queste senso di perfezione immanente cui il poema di Goethe da ultimo guarda, in una intuizione mistica che appare romanticamente la piìi prossima alla musica. Riassumendo: l’intenzione di musicare, del Faust, anzitutto la scena finale, è la ragione stessa dell’opera di Schumann. Essa condiziona la sua concezione globale. E le altre scene sono per così dire stadi preparatori di essa.

 

Nonostante le oscillazioni tra fasi d’ispirazione e di inaridimento, con la maligna incidenza di depressioni e crisi nervose ricorrenti, gli anni nei quali Schumann lavorò al Faust circoscrivono un periodo – l’ultimo prima del crollo definitivo – di relativa tranquillità e di forte impegno compositivo.

Conclusa la serie stupefacente delle creazioni pianistiche giovanili, consolidata la sua posizione nel campo del Lied con la raccolta impressionante del 1840 (l’anno del matrimonio con Clara Wieck), Schumann aveva intrapreso una energica azione di sfondamento sul terreno delle grandi forme sinfoniche e da camera, per estenderla poi al teatro (con scarsissimo successo) e ai generi che consentivano di legare l’orchestra alle voci e ai cori, in un nuovo tentativo, sovente contraddittorio, di “”spontanea”” fusione poetico-musicale. L’oratorio Il Paradiso e la Peri (1841-43), l’opera Genoveva (1847-50), le musiche cli scena per il Manfred di Byron (1848-51), l’indecifrabile Pellegrinaggio della rosa (1851), la Messa e il Requiem (1852), oltre naturalmente alle Scene dal “”Faust””, sono lavori che testimoniano lo sforzo di agganciare la musica a grandi temi ideologici cui senza dubbio Schumann annetteva enorme importanza. L’influenza di Goethe, antica ma a lungo dissimulata dal piìi istintivo contatto con Jean Paul e Hoffmann, s’impone in questo periodo per la sua complessità meno soggettiva e più controllata. Il ciclo di Lieder und Gesänge op. 98a (1841) e il Requiem für Mignon op. 98b (1849), entrambi dal Wilbelm Meister – opera che Schumann stimava alla stessa altezza del Faust -, segnano l’approdo a un romanticismo più decantato e più sereno nel quale la musica, senza perdere i suoi caratteri espressivi, diviene un mezzo per comunicare pensieri e stati d’animo profondi.

Nelle Scene dal “Faust”, che abbracciano l’intero periodo della piena maturità di Schumann, è possibile seguire le tracce di questi diversi atteggiamenti e scorgere i semi di un lavoro sperimentale sul linguaggio che non appare altrove in modo così esteso e grandiosamente ambizioso. Il rapporto con il testo di Goethe, che Schumann adatta alle proprie esigenze tagliando e ricucendo i versi, parte senza dubbio da presupposti letterari ma è volto, più che all’intonazione della parola o della frase, alla caratterizzazione poetica dell’immagine e alla sua definizione musicale. Il trattamento estremamente differenziato delle voci soliste, ognuna delle quali incarna un personaggio reale e uno o più personaggi simbolici, spazia dalla molteplice varietà dello stile liederistico a modi di stampo operistico (dal recitativo all’arioso), mantenendo una linea di autonomia musicale anche nei passi più drammatici: a metà strada, si crea un declamato aperto e flessibile, particolarmente adatto alle visioni estatiche della terza parte. Di grande impegno è la partecipazione del coro, protagonista di molti episodi e spinto a tessiture impervie secondo un uso che si rifà a tradizioni corali specificamente tedesche: tradizioni che del resto proprio Schumann contribuì ad arricchire e consolidare. Ma è l’orchestra il mezzo attraverso il quale Schumann crea il clima poetico dell’opera. Un’orchestra continuamente in primo piano non soltanto nei passaggi strumentali introduttivi o di collegamento ma anche nell’azione musicale vera e propria. La ricchissima varietà delle proposte timbriche, dove Schumann eccelle come maestro dei particolari e delle sottigliezze combinatorie, sembra nascere da un’idea di orchestrazione assoluta più che di strumentazione a tavolino.

Anche nei passi più compatti e imponenti circola all’interno della compagine strumentale una brulicante gradazione di accenti e di tinte che costituisce il tono fondamentale della scrittura schumanniana.

Da un percorso armonico stratificato deriva quella pertinente allusività tonale che, con le sue deviazioni e riconduzioni cicliche, collega e chiarisce episodi anche lontani fra loro. E proprio sotto il profilo armonico-tonale la partitura è sorretta da simmetrie e corrispondenze che cementano le diverse scene in unità non drammatica ma strutturale, quasi a ribadire l’interpretazione dei significati poetici e spirituali in un’ascesa, anche musicale, verso lo stadio supremo della definitiva compiutezza.

La prima esecuzione completa delle Scene dal “”Faust”” avvenne a Colonia il 13 gennaio 1862 sotto la direzione di Ferdinand Hiller. Schumann era morto da sei anni. Aveva potuto ascoltarne soltanto un’edizione incompleta nell’estate 1849 quando il lavoro, nello stato in cui si trovava, era stato eseguito a Dresda, Lipsia e Weimar – su interessamento di Liszt – in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita di Goethe.

«Quest’opera bella e grandiosa – aveva scritto Liszt all’amico – ha suscitato l’impressione più bella e più grandiosa». E Schumann gli aveva risposto: «Gli attestati di simpatia che mi giungono da vicino e da lontano testimoniano che il mio lavoro non è inutile. Così noi tessiamo, tessiamo la nostra tela e finiamo per divenire tutt’uno con essa».

Jeffrey Tate /  Martin Gantner, Lynne Dawson,Harry Peters, Christopher Ventris, Donna Brown, Mette Ejsing, Annette Jahns, Eteri Gvazava, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e Athestis Chorus diretto da Filippo Maria Bressan
Auditorium “G. Agnelli” Lingotto di Torino, Concerti 2000-2001

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