Edvard Grieg – Peer Gynt, musiche di scena op. 23, per soli, coro e orchestra, dal dramma di Henrik Ibsen

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Edvard Grieg – Peer Gynt, musiche di scena op. 23, per soli, coro e orchestra, dal dramma di Henrik Ibsen

Quando scrisse Peer Gynt, nell’estate del 1867 tra Casamicciola sull’isola d’Ischia e Sorrento (aveva lasciato la Norvegia nel 1864, e per ventisette anni sarebbe praticamente vissuto all’estero), Ibsen non pensava ancora a un dramma destinato alla scena ma a un poema in versi che facesse da contraltare e da completamento al suo più recente lavoro poetico, Brand (1866). Si sentì dunque libero di immaginare scene di variabile lunghezza in un gran numero di ambienti diversi, senza curarsi troppo delle verosimiglianze, e di mescolare non soltanto le forme metriche a seconda delle situazioni e dei personaggi ma anche i più svariati generi letterari, dall’epico al lirico al drammatico; senza rinunciare ad ammiccamenti satirici riferiti alla contemporaneità e più in generale al carattere nazionale norvegese, che detestava. Come scrive Claudio Magris, «Ibsen assale a volte la società contemporanea in forme esplicitamente satiriche, ma più spesso la indaga nel segreto della psicologia individuale, dove più insidioso si cela il compromesso tra l’autenticità della vita e la menzogna di regole di comportamento passivamente subite». Per il personaggio di Peer Gynt, Ibsen attinse alle storie d’avventure dei racconti popolari fioriti nella regione della Norvegia chiamata Gudbrandsdal, dai quali forgiò la figura dell’amabile perdigiorno che vive tutto e solo sul piano edonistico, tra piaceri materiali e trovate fantastiche. Una figura a cui Ibsen aggiunse di suo, con le dovute amplificazioni, una certa verità di sentimenti e una forza d’immaginazione poetica che possono far pensare a una sorta di piccolo Faust nordico; sgravato dal rovello – che era stato incarnato da Brand – della vocazione eroica e del senso del dovere, alieno dalle grandi scelte morali e tuttavia in perenne lotta con la propria coscienza: infine salvato, goethianamente, dall’amore di una donna. Pubblicato a metà novembre del 1867, Peer Gynt fu accolto in patria con sussiego: anche chi riconobbe i meriti dell’opera, ne negò decisamente il valore poetico. Ibsen reagì indignato e in una lettera scritta da Roma il 9 dicembre 1867 all’amico e letterato norvegese Bjornstjerne Bjornson profetizzò una svolta che non sarebbe tardata a venire: «Il mio libro è poesia; e se non fosse evidente, lo diventerà. Nel nostro paese, in Norvegia, l’idea di poesia dovrà adeguarsi al mio libro». Per poi aggiungere: «Comunque sono felice dell’ingiustizia che mi è stata fatta; e in questo c’è la mano, un segno di Dio; perché le mie forze aumentano per lo sdegno. Si vuole la guerra, e sia! Se non sono un poeta, non ho niente da perdere. Proverò a fare il fotografo. Prenderò i miei contemporanei lassù a uno a uno, personaggio per personaggio […], non risparmierò né il bimbo nel grembo materno, né il pensiero o l’intenzione dietro le parole di nessuna anima umana che meriti l’onore di essere considerata».

Non sappiamo per quali motivi Ibsen, che allora viveva a Dresda, decidesse, all’inizio del 1874, di adattare il testo del Peer Gynt per il teatro. È probabile che a ciò lo spingesse Ludvig Josephson (1832-1899), un ebreo svedese che nel febbraio del 1873 era diventato direttore del Teatro di Christiania, la futura Oslo. Josephson puntò subito sul repertorio ibseniano, allestendo con successo I pretendenti alla corona e La commedia dell’amore: ciò spianò la strada al mai rappresentato Peer Gynt. In una lettera da Dresda del 23 gennaio 1874 Ibsen chiese a Edvard Grieg, che aveva conosciuto personalmente a Roma nel 1866 e che a quell’epoca era il maggior compositore norvegese, di collaborare scrivendo le musiche di scena. A Ibsen sembrava infatti che la musica fosse un elemento essenziale e imprescindibile per una rappresentazione teatrale del Peer Gynt: non solo ne dava motivazioni estetiche, ma forniva anche suggerimenti precisi circa la sua funzione nel testo rielaborato per la scena. Non dubitava che altri importanti teatri avrebbero accolto con entusiasmo il progetto.

Grieg, pur non essendo affatto entusiasta della proposta, accettò ugualmente, un po’ per vanità, un po’ perché lusingato dalla generosità di Ibsen, che gli aveva offerto la metà dell’intero onorario. Lavorando a intermittenza su quel dramma che riteneva «il meno musicale di tutti i soggetti», «un tema terribilmente intrattabile», giunse a terminare la partitura nell’agosto del 1875. L’opera, ridotta e potenziata soprattutto nei suoi aspetti lirico-popolari, con poche concessioni alla satira, andò in scena per la prima volta al Teatro di Christiania il 24 febbraio 1876 in un ricco allestimento, riscuotendo un notevole successo: 37 rappresentazioni fino al gennaio 1877, quando lo spettacolo fu bloccato a causa di un incendio. Grieg per parte sua non fu completamente soddisfatto del proprio lavoro, soprattutto per quanto riguardava l’orchestrazione, che vide sia in occasione di un nuovo allestimento a Copenaghen nel 1886 sia quando l’opera fu nuovamente rappresentata a Christiania nel 1892: revisioni della partitura dalle quali nacquero le due suites per orchestra op. 46 e op. 55 del Peer Gynt, pubblicate rispettivamente nel 1888 e nel 1893 e destinate ad avere vita autonoma nel repertorio concertistico, fino a staccarsi quasi completamente dalla destinazione originaria. Esse constano ognuna di quattro brani: in tutto otto pezzi ricavati dai 26 che costituivano l’intero lavoro.

Oggi che il dramma di Ibsen ha a sua volta raggiunto una totale indipendenza dalla musica di Grieg, è per noi difficile giudicare fino a che punto, al di là della cornice storica, questa musica si armonizzi col dramma e lo valorizzi realmente. Se da un lato l’abitudine a provvedere di musiche di scena non solo i drammi del passato ma anche quelli contemporanei, secondo un’aurea tradizione che, per citare solo i massimi esempi, andava da Mozart a Beethoven a Mendelssohn a Schumann, faceva ancora parte del costume teatrale corrente, non bisogna dimenticare dall’altro lato che Grieg aveva scarsa esperienza di tal genere, e che forse, stante la sua fervente fede wagneriana (di lì a poco avrebbe partecipato al battesimo del Ring wagneriano a Bayreuth), non vi era neppur troppo portato. Maestro nel pezzo lirico per pianoforte, sensibile al rapporto tra poesia e musica nel Lied, che apparteneva al suo bagaglio tecnico ed espressivo di musicista nazionale ma educato in Germania, non ebbe mai il coraggio di tentare l’avventura del teatro, consapevole com’era non tanto dei suoi limiti quanto della sua natura intimamente antidrammatica.

Dall’altra parte, Ibsen. Il quale, e la cosa non può mancare di suscitare meraviglia, proprio giudicando indispensabile il supporto di vaste musiche di scena sembrava non aver colto la portata rivoluzionaria del suo dramma, la sua assoluta modernità in quanto teatro dell’anima, refrattario proprio a un connubio così convenzionale. La lettera con la prima proposta a Grieg appare un caso raro di inconsapevolezza dell’artista nei confronti delle potenzialità della propria opera: ma ancor più singolare, a non volerla ritenere semplicemente uno stratagemma per ottenere consenso, suona quest’altra affermazione dell’autore stesso: che la musica dovesse «addolcire la pillola, così che il pubblico potesse inghiottirla».

Addolcire perché, e in che modo? È possibile che Ibsen temesse la nuda e cruda visionarietà di tante situazioni al limite dell’assurdo, che potevano anche essere fraintese; o che lo preoccupasse la caricatura del nazionalismo norvegese presente nel testo, tanto evidente alla superficie quanto secondaria rispetto ai contenuti sia poetici che drammatici più profondi, quelli umani, soprannaturali e metafisici, che ne costituiscono l’essenza. Fermo restando il valore poetico del dramma, alla musica di Grieg sarebbe toccato il compito di descrivere le situazioni e di illustrare i personaggi, di intensificare gli aspetti popolareschi e mistici, ironici e seri, creando l’atmosfera adatta per giustificare l’inconsueto favoloso e alleggerirne l’amara metafora. Anche a non voler condividere il drastico giudizio del maggior biografo inglese di Ibsen, Michael Meyer, per il quale la musica di Grieg «trasforma il dramma di Ibsen in una gaia fiaba di Hans Christian Andersen», non si può negare che l’immagine del Peer Gynt secondo Edvard Grieg non esaurisce l’intera gamma dell’ideale, riducendosi a proporzioni espressive piìi immediatamente comunicative che simbolicamente elevate.

Che si tratti di musica molto nobile oltre che a modo suo fortemente impegnata non è tuttavia da porre in dubbio. Grieg vi espande la sua genuina vena melodica fiorita di brevi illuminazioni appena increspate dall’ombra di un’armonia raffinata e funzionale, sempre tendente a denotare un clima: con risultati specialmente notevoli nei momenti di ripiegamento lirico, ossia quando nell’azione intervengono le figure femminili di Åse e Solvejg, o nei passi più introspettivi di Peer, o ancora nelle evocazioni di paesaggi naturali, accarezzati con finezza strumentale sottile. Ma anche gli episodi più sinfonici, nei quali Grieg mette in mostra una coraggiosa appropriazione della tecnica motivica wagneriana, sono costruiti con saldo senso formale e timbrico, e toccano nella rappresentazione del diabolico e del demoniaco vertici per lui inconsueti di ebbrezza sonora. Leggerezza e garbo connotano le scene di danza del quarto atto, nelle quali Grieg fa uso di un orientalismo esotico insieme estroso e pungente, con misurata ironia. Va da sé che il compositore si trova del tutto a suo agio nel mondo della musica contadina e popolare, che viene reinventato con perfetta adesione allo spirito nazionale più autentico sia nella melodia che nel ritmo: la scena delle nozze nel primo atto, che sembrerebbe una magnifica ghirlanda di citazioni ed è invece sostanziata di composizioni tutte originali, ne è l’esempio probante. Più emblematico, invece, l’uso che Grieg fa del melologo, ossia della recitazione accompagnata dalla musica, quasi d’obbligo in questo contesto. Se Solvejg e Anitra avevano parti cantate già nel dramma, per così dire già offerte all’intonazione, era difficile pensare di caratterizzare Peer attraverso questo mezzo: e difatti il protagonista, salvo che nella scena realistica della Serenata di corteggiamento del quarto atto, non canta mai, ma recita.

Eppure la musica lo accompagna sempre nei momenti di svolta della sua vicenda, contrapponendosi a lui o accompagnandone le peripezie lungo il cammino della conoscenza. Forse è eccessivo affermare che sia proprio la musica la voce più misteriosa e intima della coscienza di Peer, l’altro da sé a cui il suo inconscio aspira per rimanere fedele a se stesso. Certo è però che mai nelle scene in cui si sprigiona il potenziale espressivo del melologo, con arcane risonanze cli suoni e di voci immaginarie in lontananza, Grieg si avvicina a penetrare compiutamente l’essenza del dramma di Ibsen.

Kristjan Järvi / Julie Kaufmann,Urban Malmberg, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e Coro Filarmonico “Ruggero Maghini” di Torino
Auditorium “G. Agnelli” Lingotto di Torino, Concerti 2000-2001

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