Ferruccio Busoni -Concerto op. 39 per pianoforte, coro virile e orchestra
All’appuntamento col Novecento Ferruccio Busoni si presentò con la coscienza di avere ormai raggiunto sufficienti certezze circa i propri compiti e fini, sia come pianista sia come compositore. L’opera di revisione e di trascrizione dei lavori di Bach e Liszt cominciava a produrre sostanziosi risultati, ma per il momento Busoni si sentiva spinto verso ulteriori tentativi di ampliare i confini della sua ricerca: anzitutto lo tentava sempre più l’avventura dell’opera lirica, dopo alcune prove lasciate a metà, mentre anche la “”musica italiana”” cominciava a far sentire concretamente il suo richiamo. Nato in questo periodo di trapasso, il ciclopico Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra op. XXXIX (la numerazione in cifre romane è dell’autore) può essere visto come un compendio di tutto ciò che si agitava allora nella mente fertilissima di Busoni: più propriamente questo lavoro di ambizioso impegno, unico nella sua produzione, rappresenta lo sforzo immane di riunire e far emergere in un sol colpo un coacervo di elementi eterogenei e diversissimi sia per carattere sia per forma.
Busoni cominciò a interessarsi al progetto di un Concerto per pianoforte nella primavera del 1901; il lavoro di composizione ebbe inizio solo nell’estate del 1902 e procedette con rapidità e facilità, tanto che già alla fine di luglio il primo abbozzo era ultimato. Ripreso nell’estate del 1903 (Busoni in quegli anni poteva dedicarsi alla composizione soltanto d’estate, quando i suoi viaggi per concerti venivano interrotti), il Concerto fu compiuto alla fine d’agosto; anche se fu ritoccato, soprattutto nella strumentazione, fino alla metà del 1904. La prima esecuzione avvenne a Berlino il 10 novembre di quelo stesso anno nell’ambito del ciclo di musiche contemporanee “”nuove o raramente eseguite”” organizzato da Busoni stesso, con la direzione di Karl Muck e l’autore al pianoforte. Sempre con Busoni solista e con Bruno Mugellini come direttore, il Concerto fu poi eseguito per la prima volta in Italia a Bologna nel 1906, nel corso di quel viaggio che tanto entusiasmo per le sorti della musica italiana fece nascere in Busoni, sì da fargli desiderare di stabilirsi nel suo paese natale (italiano di nascita, Busoni era ormai tedesco per formazione e cultura).
Nel Concerto Busoni si serve di ritmi, melodie e forme caratteristicamente italiane. In italiano sono non soltanto i titoli dei cinque movimenti, ma anche il titolo completo, che suona assai solenne: “”Concerto – per un pianoforte principale e diversi strumenti ad arco, a fiato e a percussione – aggiuntovi un coro finale per voci d’uomini a sei parti – le parole allemanne del poeta Oehlenschlaeger, danese, la musica di Ferruccio Busoni da Empoli. Anno MCMIV, opera XXXIX””.
Ma se italiani sono l’assunto programmatico e buona parte del materiale, l’impianto dell’opera è invece solidamente puntato sulle fondamenta della tradizione tedesca, come ideale prolungamento della forma sette-ottocentesca del Concerto per pianoforte. L’ultimo tempo, poi, sembra addirittura capovolgere, teatralmente, il segno globale della composizione, introducendo un coro maschile invisibile che intona le parole misticheggianti di un Inno in lode di Allah, tratto dall’Aladino di Oehlenschlaeger.
Costui, Adam Gottlob Oehlenschlaeger (1779-1850), di origine tedesca, è considerato uno dei massimi rappresentanti della letteratura fiabesca romantica, letteratura molto amata da Busoni fin dai tempi del suo soggiorno in Finlandia. Da una lettera alla moglie Gerda datata 10 febbraio 1902, antecedente dunque all’inizio vero e proprio della composizione del Concerto, si ricava che Busoni voleva scrivere un lavoro teatrale sul testo dell’Aladino di Oehlenschlaeger; se questa idea non arrivò mai a compiersi, pure una traccia di quel progetto rimase appunto nel Cantico finale del Concerto. Espressamente Busoni scriveva che il Coro di Oehlenschlaeger “”simboleggia il misticismo della natura””; e verso una dimensione effettivamente mistica e trascendente, di misurata interiorità, esso tende, con notevole scarto rispetto alle parti che lo precedono. Musicalmente, egli se ne servì in maniera strumentale, intendendo fornire con il Coro una nuova fonte sonora, che esprimesse in un respiro melodico ampio una sorta di “”al di là dei sentimenti””: in questo senso, la prescrizione che “”il coro sia lasciato internamente e non visibile”” è indubbiamente significativa. Ma anche la scelta del testo rientra nel quadro della spiritualità busoniana, proiettata verso una eterna trascendenza, rivelata e rappresentata dalla musica.
Da ciò si capisce che un’opera complessa e singolarmente contraddittoria come il Concerto offre lo spunto per molteplici riflessioni, e non pochi problemi interpretativi. Anzitutto, esso rappresenta una specie unica di grandiosa ricapitolazione del genere concertistico, ma è anche, rispetto alla sua tradizione, un’opera postuma. Il suo carattere composito fu ben definito da Busoni stesso in uno scritto di alcuni anni più tardi, Autorecensione (febbraio 1912): “”È un’opera che tenta di riassumere i risultati del periodo della mia prima maturità e rappresenta la sua conclusione. Come ogni opera che sorge in tale periodo di sviluppo, è matura per esperienza acquisita e si basa sulla tradizione. Non indica certo il futuro, ma rappresenta il momento della sua nascita. Le proporzioni e i contrasti sono distribuiti con cura, e, per il fatto che il piano era stabilito definitivamente prima che ne incominciassi l’esecuzione, non c’è niente in essa di casuale””.
Non bisogna dimenticare che, negli anni immediatamente precedenti il Concerto, Busoni aveva eseguito come pianista, anche in cicli organici, tutti i maggiori lavori della letteratura concertistica da Bach a Liszt; come compositore, intendeva ora dimostrare che il genere del concerto per pianoforte poteva avere sviluppi e arrichimenti ulteriori, moderni: a patto di rinunciare agli stilemi convenzionali per puntare con decisione verso una forma aperta, composita, di dimensioni e caratteri più liberi, onnicomprensiva, anche nel rapporto fra pianoforte e orchestra. Le note illustrative dettate da Busoni per la prima esecuzione sono a questo proposito una fonte preziosa anche per comprendere la struttura del lavoro:
“”La parola “”concerto”” è usata qui nel suo significato originale, intendendo una cooperazione di mezzi diversi di produzione del suono. Questo Concerto differisce da quelli che lo hanno preceduto anzitutto per la forma esterna, che per la prima volta è estesa a cinque movimenti. I primi a essere composti sono stati i numeri 1, 3, e 5, che nel sentimento di fondo sono movimenti tranquilli; gli altri due naturalmente hanno portato al Concerto ritmi più vivaci. Di questi il secondo celebra la vivacità dell’immaginazione, il quarto quella del temperamento, e quest’ultimo raggiunge un così alto grado di energia che l’ispirazione fondamentale del lavoro sarebbe stata distrutta se il quinto movimento non l’avesse ricomposta. Questo quinto movimento è pertanto indispensabile; esso completa il cerchio attraverso cui siamo passati e unisce la conclusione all’inizio. E la musica ha percorso una così multiforme varietà di sentimenti umani che le parole di un poeta si rendevano necessarie per riassumerli in una conclusione. L’aggiunta di un coro di voci maschili è la seconda novità di questo lavoro. Il coro non si distacca dallo stato d’animo di ciò che lo precede per tendere all’estremo opposto del sentimento, come accade nella Nona Sinfonia; esso somiglia piuttosto a qualche qualità originale e innata in una persona che nel corso degli anni si manifesta e viene fuori raggiungendo l’ultimo stadio della sua evoluzione. Terza caratteristica di questo lavoro è l’insistenza sulle melodie e i ritmi italiani. Accanto a tre autentiche canzoni popolari italiane vi sono parecchi giri di frase decisamente di sapore italiano. Il quarto movimento – una specie di carnevale napoletano – è una forma di trantella altamente sviluppata””.
La prima delle tre canzoni popolari si presenta nel secondo movimento, Pezzo giocoso, un intermezzo scherzoso di effervescente vivacità e energia ritmica. Qui Busoni cita, come secondo tema affidato al pianoforte, la famosa canzone napoletana Fenesta ca lucive, sottoponendola sì a una raffinata mutazione modale e poi cromatica, ma senza privarla del suo carattere melodico, immediatamente riconoscibile. Il quarto movimento è addirittura emblematico nel titolo, All’Italiana. Si tratta di una vorticosa tarantella napoletana costruita, oltre che su Fenesta ca lucive, ora genialmente parafrasata a mo’ di canzone a ballo, su due motivi popolari molto noti: quello dei bersaglieri di Lamarmora, sulle parole “”e sì, e sì che la porteremo, la piuma sul cappello, davanti al colonnello, giuriam la fedeltà””, e l’altro della canzone popolare La bella gigogin, sulle parole “”la dis, la dis, la dis che l’è malata…””; essa segue alla prima in un crescendo di concitata e quasi furiosa baldoria fino all’acme impressionante, anche se di effetto discutibile, della stretta finale (“”a passo a passo infuriando””). “”La Tarantella”” – scriveva Busoni alla moglie nell’estate del 1902 – “”deve diventare Napoli stessa; solo un po’ più pulita, ma non così pulita come gli altri tempi””; e ancora: “”Questa Tarantella che segue l’Adagio dà la stessa impressione che si prova quando si esce dal Foro e ci si trova in una strada popolare di Roma. O di una festa popolare che prende l’avvio dal
A Pantheon””. L’uso che Busoni fa qui del materiale popolaresco italiano è in funzione principalmente coloristica: esso mira cioè a ricreare una istintiva efresca musicalità di segno immediatamente positivo. Non si apparenta perciò minimamente all’impiego delle fonti originali del folklore in Bartók, o dei motivi canzonettistici in Mahler.
Del tutto opposto è il carattere dei tempi dispari. Il primo, Prologo e Introito, è una solenne introduzione nella quale due temi principali, ambedue presentati dall’orchestra, acquistano un progressivo e ampio sviluppo nel dialogo con il pianoforte: mentre il primo per la sua classica epicità richiama alla mente Brahms, il secondo ha una tendenza eroica e iperbolica, di sapore quasi skrjabiniano. Procedimenti contrappuntistici assai estesi, in una dinamica orchestrale inquietamente cangiante, contribuiscono alla solidità della architettura musicale. Il terzo tempo, Pezzo serioso, diviso in quattro parti (Introductio; Prima pars; Altera pars; Ultima pars), è un Adagio di vaste proporzioni e di problematica definizione. Busoni vi riutilizzò, oltre a uno Studio inedito, spunti della sua “”opera romantica”” incompiuta Sigune, oderdas stille Dorf (Sigune, ovvero il villaggio silenzioso), cui lavorò negli ultimi anni Ottanta. Un certo clima wagneriano è evocato dal tema che apre la Introduzione, tutto pervaso da una espansiva ansia cromatica. Fra il virtuosismo timbrico di Liszt e l’intimismo lirico di Chopin si colloca l’ampio svolgimento, basato sulla reiterata successione di slanci e sospensioni, sapientemente guidata dalla presenza del pianoforte. Al Pezzo serioso si collega anche tematicamente l’ultimo tempo. Esso presenta fin dall’inizio una instabilità tonale che si allarga anche a squarci politonali, e ha un’impronta decisamente “”tedesca”” e nordica, austera e riservata, fino all’entrata del coro maschile, con carattere di Corale. Lo svolgimento conduce ad un crescendo di nobile intensità, che si distende poi in orchestra nel bellissimo canto dei violoncelli; la didascalia, “”Molto solenne””, indica perfettamente il carattere della sezione finale di questo tempo, pervasa da un sentimento intimo cui il Concerto sembra da ultimo tendere.
Gianluigi Gelmetti / Michele Campanella, Orchestra sinfonica e Coro della Rai di Torino
Auditorium “G. Agnelli” Lingotto di Torino, Stagione di Primavera 1988