Sergej Rachmaninov – Sinfonia n. 2 in mi minore op. 27

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Sergej Rachmaninov – Sinfonia n. 2 in mi minore op. 27

 

La composizione della Seconda Sinfonia in mi minore op. 27, avvenuta tra l’ottobre 1906 e il gennaio 1908, segna la fine dell’apprendistato e l’inizio della maturità di Sergej Rachmaninov. Terminati gli studi ufficiali e dopo il fallimento della Prima Sinfonia (1897), Rachmaninov, già affermato come pianista, si dedicò prevalentemente all’attività di direttore d’orchestra e compì numerosi viaggi all’estero (a Londra, a Bayreuth, a Parigi, in Italia, ossia nei centri principali delle grandi tradizioni musicali europee), accumulando un importante bagaglio di esperienze. Il successivo, più lungo soggiorno a Dresda, con l’intensa frequentazione dei concerti del Gewandhaus, lo spinse a tentare nuovamente l’avventura sinfonica. E proprio a Dresda la Seconda Sinfonia venne composta quasi per intero. Eseguita il 26 gennaio 1908 a San Pietroburgo, venne replicata pochi giorni più tardi a Mosca, con confortante accoglienza. Ma fu il successo che le arrise allorché venne eseguita a Londra nell’ambito dei concerti organizzati dalla Philharmonic Society, promossa e diretta da Arthur Nikisch, a convincere Rachmaninov di aver finalmente imboccato la strada giusta: strada che peraltro, in ambito strettamente sinfonico (eccettuati cioè i Concerti per pianoforte e orchestra, almeno due dei quali sono famosissimi, nonché i poemi e le danze per orchestra), non avrà in seguito sbocchi altrettanto significativi (la Terza e ultima Sinfonia, del 1936, rimase un lavoro epigonale).

La Seconda Sinfonia è dunque l’unica composizione priva di pianoforte di Rachmaninov che goda non solo di notorietà ma anche di vero e proprio successo internazionale. Da sempre terreno d’elezione dei direttori di scuola russa, che vi si trovano naturalmente a proprio agio; banco di prova invece scivoloso per i virtuosi della bacchetta d’altra estrazione, spesso inclini a esaltarne soprattutto gli aspetti più rutilanti ed esteriori: questa partitura offre alle orchestre sontuose occasioni di mettere in luce tanto la compattezza dell’insieme quanto la bravura delle prime parti, impegnate in numerose uscite solistiche. Per esplicita dichiarazione del suo autore essa si tiene lontana dalle influenze dei contemporanei più evoluti (i francesi, Strauss, Mahler, Skrjabin), né va in cerca di collegamenti particolari con il popolare, nel senso propriamente russo del termine. È invece popolare in un’accezione più immediata e ingenua, per così dire folcloristico-sentimentale, come prodotto di un tardo romanticismo che si prende ancora tremendamente sul serio, senza porre in discussione le radici da cui proviene (con i molteplici, posteriori innesti) né gli obbiettivi a cui tende; che non siano solo quelli di una musica ricca di tensioni armoniche e di rilassamenti melodici: in una formula, spontaneamente espansiva. Ciò non toglie che alla base non vi siano un solido impianto formale e una disposizione affatto originale. I quattro movimenti tradizionali risultano infatti legati a due a due da tratti comuni: il primo con il terzo, il secondo con il quarto. Inoltre, ognuno trova modo di riferirsi, in termini più o meno espliciti, al tema che compare nella introduzione lenta (Largo), e che ha il carattere di un vero e proprio motto.

Fin dall’inizio la Sinfonia ha un piglio spiccatamente teatrale: Rachmaninov dipinge un paesaggio in cui si manifestano i segni dell’inquietudine, filo conduttore di tutta l’opera. Il tema-motto, esposto da violoncelli e contrabbassi, è a questo proposito indicativo. La cellula di un semitono ascendente, sospesa nell’attesa, si allarga in una sequenza discendente di tono, ripetuta due volte: il riferimento all’incipit del Dies irae è tutt’altro che nascosto. Seguono lugubri fanfare alternate con l’ondeggiare via via più mosso degli archi, che presto tornano a placarsi, poi nuovamente a incresparsi. La melodia del corno inglese conduce infine all’Allegro moderato. Con lo sviluppo, dove frequente è l’uso degli ottoni, si raggiunge un vero e proprio climax, in un’agitazione che ricorda le tempeste wagneriane: segue la ricapitolazione, che impone dapprima toni lirici, poi nuove ombre nel crescendo conclusivo.

Il secondo movimento (Allegro molto) è tripartito. L’esordio è scintillante e si caratterizza timbricamente con l’impiego dei corni e del Glockenspiel; segue una melodia di intensa cantabilità, agli archi. Una netta cesura introduce la parte centrale (Meno mosso): un fugato che combina ritmi militari di marcia con un disegno sarcastico dei legni. La ripresa del Tempo I conduce a conclusione il movimento con la citazione del motto, ora trasformato nella sequenza gregoriana.

Siamo così all’Adagio, che riprende le linee cullanti del primo movimento sovrastandole con un’ampia melodia arpeggiata dei violini primi. Grande parte hanno gli interventi solistici del clarinetto, che dispiega con cantabilità una struggente melodia; ma sono poi gli archi a riprendere in mano il filo del discorso, reiteratamente tortuoso, fino all’immancabile punto culminante e allo scioglimento repentino delle tensioni.

L’Allegro vivace si basa sulla contrapposizione di una vivacissima linea in maggiore, ancora una volta largamente debitrice nei confronti del motto, con contrastanti ritmi di marcia in minore. L’effetto teatrale di un colpo di piatti avvia la parte centrale dello sviluppo, che accanto a materiale nuovo ripropone frammenti tematici dei movimenti precedenti. Torna a farsi sentire l’inquietudine, le colorazioni sarcastiche si incarnano in nuovi ritmi di marcia, ma a poco a poco si fa strada l’idea di una apoteosi, con la vittoria della cupola cantabile e melodica sulla stratificazione di una materia densa e ribollente. L’ultima citazione del motto conferma l’avvenuta trasformazione dell’inquietudine in trionfante splendore di luce, al suono di campane e nel clangore degli ottoni, in un mi maggiore che ha tutta l’ambizione di squarciare orizzonti di tripudio.

Yuri Temirkanov / Associazione Orchestra Fialrmonica della Scala
Teatro alla Scala

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