Sergej Prokof’ev – Concerto n. 3 in do maggiore op. 26, per pianoforte e orchestra
Il Concerto in do maggiore op. 26 occupò Prokof’ev per molti anni, dal 1911 (parte del primo movimento risale ad allora) al 1921: iniziato in Russia, fu ripreso e ultimato in Francia, prima della partenza per gli Stati Uniti dove, a Chicago, il 16 dicembre 1921, venne eseguito per la prima volta con l’autore al pianoforte e sotto la direzione di Frederick Stock. Il Terzo è il più noto dei cinque Concerti pianistici di Prokof’ev, e riassume molti dei caratteri peculiari del suo stile maturo, sia nel tratto incisivamente motorio e percussivo dei suoi slanci ritmici che nel tono eminentemente russo dei temi e della colorazione armonica. Fu scritto anzitutto col chiaro intento di affermarsi in America come pianista, e solo secondariamente per richiamare sul compositore “”moderno”” l’attenzione di un pubblico il più possibile vasto. Di qui un’articolazione tendenzialmente rapsodica (vedi il secondo movimento) e ricca di effetti a sorpresa, ma tenuta insieme da un senso della forma fondamentalmente tradizionale, se non addirittura limpidamente classico.
Il movimento iniziale è costruito su una duplice alternanza di un Andante con un Allegro. Il primo si basa su un tema vagamente modale esposto dal clarinetto senza accompagnamento, di esplicita impronta russa, che prepara, sostenuto dalle elaborazioni sempre più incalzanti del pianoforte, l’Allegro in forma di sonata: scintillante ma come nervosamente teso nella prima parte, più pacato e quasi serioso nella seconda, dove l’oboe accompagnato dai pizzicati degli archi intona un tema preziosamente settecentesco, con andamento di gavotta. Con calcolata proporzione al centro dello sviluppo si riaffaccia la tranquilla sezione dell’Andante, trattata con maggiore ampiezza di abbandono lirico. Un crescendo vorticoso conduce alla ripresa dell’Allegro, nel quale si compie il confronto fra i due temi contrastanti, rivolto per così dire a integrare gli aspetti complementari di tensione e distensione sul piano di una modernità ben temperata.
Il secondo movimento è costituito da una serie di cinque variazioni incorniciate dal tema in tempo Andantino. La musica si addentra qui nei paesaggi del sogno romantico e vi si adagia con effusivo lirismo, quasi decantandosi in visioni luminose e assorte meditazioni che non escludono la tentazione di sconfinamenti drammatici. La vibrante levità (li questo movimento, una delle pagine più felici e ispirate di Prokof’ev, è come sospesa sulla urgenza di un contenuto emotivo che nel processo delle variazioni si depura senza perdere in intensità espressiva.
L’equilibrio si spezza con l’eruzione del terzo e ultimo tempo, Allegro ma non troppo, introdotto da un tema di fremente vitalità prima esposto oscuramente da fagotto, violoncelli e contrabbassi e poi ripreso con slancio perentorio dal pianoforte, che lo trasformerà in un tripudio di invenzioni e di colori. Ma prima che il solista si erga nettamente a protagonista assoluto del pirotecnico finale, con gesto riconoscibile Prokof’ev, quasi a voler richiamare lo spunto iniziale, introduce un tema di marcia lenta (preannunciato solennemente dai fiati, Meno mosso) dal profilo inequivocabilmente russo: ricordo intriso di immensa nostalgia per la patria lontana, ma non perduta nell’anima.
Yuri Temirkanov / Associazione Orchestra Filarmonica della Scala
Teatro alla Scala