Franz Schubert – Sinfonia n. 9 in do maggiore “”La Grande”” (1828)
La Sinfonia in Do maggiore è l’ultimo lavoro portato a termine da Schubert nel genere sinfonico. L’appellativo di “”Grande”” le venne dato per distinguerla dall’altra Sinfonia in Do maggiore (detta appunto “”La Piccola””) del 1817-18, che era anche l’ultima sua sinfonia intera e completa prima di questa. Ciò non significa che nel frattempo Schubert non si fosse occupato di sinfonie. A parte quella in Si minore dell’ottobre 1822, in due soli movimenti, a cui sarebbe toccata una grande fama postuma col titolo di Incompiuta (la sua riscoperta avvenne solo nel 1867), Schubert aveva iniziato altri lavori sinfonici rimasti tutti, per vari motivi, allo stadio più o meno frammentario. Di una Sinfonia in Re maggiore (maggio 1818) abbiamo gli schizzi di due movimenti; di una in Mi maggiore (agosto 1821) gli abbozzi in partitura che, rinvenuti nel 1934, furono ricostruiti e strumentati nelle parti mancanti da Felix Weingartner (cosicchè questa Sinfonia entrò nel catalogo schubertiano col numero di settima). Quanto a una testimoniata ma mai ritrovata Sinfonia detta di Gmunden-Gastein, perchè ivi composta nel giugno-settembre 1825, ci sono state tramandate solo la dedica e l’offerta alla Società degli Amici della Musica di Vienna: pare ormai certo che essa vada identificata con La Grande, di cui sarebbe per così dire una prima versione; e ciò spiegherebbe il fatto che non sia mai stata ritrovata.
Tutte queste circostanze hanno provocato una notevole confusione nella catalogazione dell’ultima produzione sinfonica di Schubert: a seconda che si contino o meno i frammenti e le opere incomplete, La Grande e la stessa Incompiuta assumono una numerazione diversa. Se si accetta come settima la Sinfonia in Mi maggiore, l’Incompiuta avrà il numero otto e La Grande il nove; altrimenti, a scalare, rispettivamente il sette e l’otto. Numeri a parte, la Sinfonia in Do maggiore, fosse o meno anticipata dalla perduta Sinfonia di “”Gmunden-Gastein””, fu composta nella stesura definitiva nel marzo 1828, come si legge in testa al manoscritto completo della partitura. Sappiamo inoltre che in quell’epoca Schubert offrì il lavoro, forse già per la seconda volta, alla Società degli Amici della Musica di Vienna: la quale registrò il ricevimento della partitura ma poco dopo la respinse giudicandola “”troppo lunga e difficile””, e rifiutando dunque l’esecuzione. A Schubert non rimase altro che riprendersi il manoscritto e riporlo in un cassetto in casa di suo fratello Ferdinand, dove allora alloggiava. Pochi mesi dopo, il 19 novembre 1828, Schubert moriva senza aver potuto udire una sola nota del suo ultimo capolavoro.
A riconoscerlo come tale fu per primo Robert Schumann, dieci anni dopo. Recatosi a Vienna nel gennaio 1839, fece visita a Ferdinand Schubert e fra i numerosi manoscritti del fratello da lui custoditi rinvenne una Sinfonia di cui nessuno aveva ancora sentito parlare. “”Chissà per quanto tempo ancora”” – commentò lo strabiliato compositore – “”essa sarebbe rimasta in quell’angolo oscuro e polveroso, se io non avessi subito persuaso Ferdinand Schubert a spedirla alla direzione dei concerti del Gewandhaus di Lipsia, o anche allo stesso artista che vi presiedeva””. Schumann sapeva quel che faceva: quell’artista era infatti Felix Mendelssohn Bartoldhy, il quale ne rimase non meno scosso e decise subito di eseguirla. Cosa che avvenne il 21 marzo 1839, di fronte a un pubblico ammirato e perfino entusiasta. Non pertanto la strada al tardivo riconoscimento della Sinfonia fu spianata; né a molto valse la pubblicazione della partitura a Lipsia nel 1840 da parte di Breitkopf & Hàrtel, il più importante editore musicale del tempo. Dopo le esecuzioni lipsiensi, infatti, Mendelssohn la portò nel ’42 a Londra; ma qui l’orchestra della Società Filarmonica si rifiutò di eseguire il Finale, che ai primi violini parve noioso (forse un eufemismo per nascondere obiettive difficoltà tecniche ed esecutive). Di peggio avvenne nel ’44 a Parigi, dove l’orchestra della Società dei Concerti diretta da Habeneck si fermò sconcertata già dopo il primo tempo. Vienna aveva conosciuto sul finire del 1839 i primi due movimenti, eseguiti dai Filarmonici con l’inserzione in mezzo, secondo una prassi che a noi sembra barbara ma che era invece del tutto abituale nella moda del tempo, di un’aria d’opera, per l’esattezza della Lucia di Lammermoor. Sull’autorevole “”Allgemeiner Musikalischer Anzeiger”” si lesse fra l’altro: “”Dopo i due movimenti di questa Sinfonia nessuno può mettere in dubbio il fatto che Schubert avesse una profonda conoscenza dell’arte della composizione; ci sembra però che egli non sapesse padroneggiare con altrettanta sicurezza le masse tonali. Così questa Sinfonia è una specie di schermaglia di strumenti, da cui non riesce a emergere un disegno efficace. A dire il vero c’è un filo rosso che si snoda attraverso l’intero lavoro, ma è troppo stinto perchè si possa individuarlo sempre con precisione. A mio parere quest’opera sarebbe stato meglio lasciarla dov’era””. Questo parere è assai istruttivo sull’affidabilità dei critici di professione.
Che però anche Schubert fosse consapevole della novità e dell’arditezza nella concezione formale e tonale della sua grande Sinfonia, lo lascia intuire una lettera scritta il 31 marzo 1824 – dunque ancor prima di iniziarne la composizione – all’amico pittore Leopold Kupelwieser: “”In fatto di Lieder non ho scritto granchè di nuovo; in compenso mi sono esercitato con numerosi lavori strumentali: ho composto due Quartetti e un Ottetto, e ho in mente di scrivere un altro Quartetto [alludeva ai tre ultimi Quartetti per archi in La minore, Re minore e Sol maggiore, quest’ultimo poi composto nel 1826, e al prodigioso Ottetto in Fa maggiore per archi e fiati, quasi una cartone di sinfonia]. Soprattutto voglio in questo modo prepararmi la strada verso la grande Sinfonia””. Se si tien conto che la Nona Sinfonia di Beethoven, la “”grande”” sinfonia per antonomasia, era nata giusto fra il 1823 e il 1824, queste parole assumono un significato quasi profetico: non soltanto Schubert vedeva i lavori strumentali appena composti o progettati come una sorta di trampolino di lancio verso il cimento massimo della creazione di una sinfonia, ma intendeva questa meta, e la strada che vi conduceva, come un’ascesa verso le vette più alte dell’arte, nel rinnovato contatto con la forma più elevata, complessa e impegnativa che un musicista cresciuto nella venerazione per i classici potesse immaginare. La Sinfonia in Do maggiore è il risultato di questa aspirazione, la conseguenza di uno sblocco anche psicologico nei confronti della tradizione; raggiunto non sulla falsariga dell’imitazione di Beethoven ma con la lenta, caparbia riflessione sulle possibilità di una realizzazione linguistica e formale più ampia e articolata nei domini della musica strumentale pura.
La mediazione di Schumann è a questo punto decisiva. Egli colse per primo quel misto di fedeltà alla tradizione – i valori dello stile sinfonico classico – e di tensione romantica verso l’ampliamento e la trasformazione dei mezzi espressivi – la nuova distribuzione degli elementi melodici, ritmici e tonali nell’impianto formale – che contraddistingue questa Sinfonia come un unicum nella storia della sinfonia ottocentesca. E anche questa unicità non sfuggì all’occhio acuto di Schumann, fin dalla recensione apparsa sulla sua rivista, “”Zeitschrift fiir Musik””, per “”l’apertura dell’anno 1840″”: “”Chi non conosce la Sinfonia in Do maggiore conosce ben poco di Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’arte. Oltre a una magistrale tecnica della composizione musicale, qui c’è la vita in tutte le sue fibre, il colorito fino alla sfumatura più fine, v’è significato dappertutto, v’è la più acuta espressione del particolare e soprattutto infine v’è diffuso il romanticismo che già conosciamo in altre opere di Franz Schubert. E questa divina lunghezza della Sinfonia, questo sentimento di ricchezza profuso dovunque ricrea l’animo. […] Questa Sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quella di Beethoven””.
Divina lunghezza. Se Schumann avesse potuto sapere a quali fraintendimenti avrebbe portato quest’espressione peraltro felicissima, probabilmente l’avrebbe ritirata. Le estensioni per l’epoca amplissime e la stessa dimensione dell’organico, arricchito da ben tre tromboni, denotano già esteriormente la Sinfonia in Do maggiore come un’opera di proporzioni grandiose. Ma quel che più conta è che il grandioso e la lunghezza non nascano soltanto da una fecondità straordinaria di ispirazioni melodiche e da una vastità di intenzioni armoniche certo notevolissime, ma soprattutto racchiudano un’idea e una disciplina formale unitariamente e organicamente compiute da cima – la vasta e solenne Introduzione da cui germina la proposta tematica fondamentale – a fondo – la colossale costruzione in forma di sonata del Finale. Quest’idea s’apre la strada verso una concezione della forma tanto profondamente nuova quanto densamente significativa per i compositori successivi, e perfino nei versanti opposti di Brahms da un lato, di Bruckner dall’altro: al criterio beethoveniano di contrasto e sviluppo drammatico subentra qui il principio dello svolgimento ciclico basato sulle metamorfosi di un motivo elementare, che appare all’inizio intonato da due corni. E’ questo motivo, una vera “”idea originaria”” lungamente inseguita da Schubert, a conferire unità a tutti i movimenti, trasformandosi e trasfigurandosi, nel tempo e nello spazio, attraverso apparizioni palesi o latenti: lo sentiamo risuonare, nel primo movimento “”Allegro ma non troppo””, dapprima nel possente richiamo di tromboni, poi nella Coda in forma di corale, e invece alleggerito nel secondo tema in Mi minore. Nell’ “”Andante con moto”” si rispecchia nel basso, affidato a violoncelli e contrabbassi; ed è qui che il motivo dei corni intraprende nuove avventure: al lirismo di episodi teneramente imploranti si alternano, quasi come in un’antifona, le imperiose affermazioni dei fiati, lasciando però nuovamente spazio, nella parte centrale, alle effusioni gentili del dialogo fra oboe e violoncello, e a un passaggio in cui, come scrisse Schumann, “”da remote distanze ci giunge il richiamo del corno, e tutto tace come se frammezzo all’orchestra si muovesse leggero un visitatore celeste””.
Lo Scherzo (“”Allegro vivace””) è caratterizzato da una marcata energia ritmica, con la quale Schubert abbandona ormai del tutto le cadenze di danza e le movenze popolaresche che spesso, anche nelle grandi forme strumentali, avevano trovato in questi luoghi appartati espressioni relativamente serene e contemplative. Lo Scherzo è a suo modo un robusto ponte verso lo slancio fremente, spesso interrotto da brividi, del Finale: dove il tema iniziale è ripreso e dilatato fino all’ebbrezza dionisiaca, e il ritmo assume a tratti il furore di una danza macabra. La forma di sonata è forzata a limiti estremi, prima nella moltiplicazione degli episodi tematici, tra indugi, attese e nuovi, sempre più incisivi ritorni, poi, dopo un tentativo di coesione nella Ripresa, attraverso incandescenti accensioni, a cui si contrappongono gli ultimi ripensamenti della Coda, sublimi e nostalgici insieme. II tripudio di suoni con cui la Sinfonia si conclude riattestandosi sull’iniziale Do maggiore non è più un gesto convenzionale, ma la consapevolezza della conquista e del coronamento di una meta, destinata a rimanere isolata.
Carl Melles / Orchestra del Teatro Verdi
Stagione sinfonica d’autunno 1991, Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Trieste