Boris Blacher – Divertimento per tromba, trombone e pianoforte
La notorietà di Blacher in Germania (non in Italia, dove il suo nome è praticamente ignoto) risale agli anni Cinquanta ed è il risultato, sia pure parziale, del riconoscimento del diritto all’esistenza anche per compositori non dichiaratamente impegnati nella missione di «mandare avanti la storia» secondo le categorie dell’ineluttabile progresso del linguaggio e delle preventive teorizzazioni ideologiche. Un tale diritto Blacher si conquistò con i fatti, ossia con una mole considerevole di lavori specialmente, ma non unicamente, dedicati al teatro, che attirarono l’attenzione per l’originalità e la verità della loro concezione, benché essa non fosse di natura affatto semplice, e trovarono a Berlino, città nella quale Blacher risiedeva e occupava un posto di primissimo piano alla Hochschule für Musik, realizzazioni anche storicamente importanti e vasta risonanza internazionale.
Musicista isolato, il che significa non inquadrabile in scuole e tendenze precise, Blacher è tuttavia un compositore salda-mente radicato nel proprio tempo, di cui rispecchia, volta per volta, la situazione disorganica e conflittuale, senza però arrischiare improbabili ritorni al passato (ché non di un epigono si tratta, né dell’Ottocento né dei movimenti novecenteschi: per quanto la sua simpatia vada più a Stravinsky e Hindemith che a Schönberg) o futuristici salti in avanti. La sua posizione di fronte alla musica si rende esplicita in un atteggiamento solo all’apparenza contraddittorio: da un lato la consapevolezza che non sia più possibile scrivere musica in forma ingenua, immediatamente espressiva e felicemente creativa, ma che occorra confrontarsi ed elaborare l’effettività delle condizioni stesse in cui il compositore si trova a creare nel suo tempo (e dunque si interessò del problema del linguaggio e dei diversi stili, occupandosi anche di musica elettronica); dall’altro lato la convinzione che scrivere musica rimanga comunque un fatto di comunicazione ed un’esigenza espressiva, che si esaurisce nella nuda e cruda realtà dell’opera d’arte, fuori d’ogni altra giustificazione. Realtà che in lui sovente si sostanzia delle stesse nudità e crudezza di un linguaggio spoglio e asciutto, nutrito di ritmi taglienti, orientato pur sempre sui valori della tonalità, anche quando n’estende i nessi verso inflessioni politonali di scabra modernità.
Che poi questi tratti siano caratterizzati da un’ironia amara, ma mai sfrontata o sarcastica, o viceversa da un’allegria tumultuosa e un po’ sinistra, come di chi, scampato al naufragio (e un naufrago Blacher fu anche nelle vicende della sua esistenza), si ritrovi abbacinato a rinnovare il contatto con i suoni e a ricercare, almeno momentaneamente, un ordine perduto: ciò conferisce alla sua musica un tono individuale e vivo che la rende partecipe di un dramma umano, privato, elevato a componente affettiva e risolto nella forma complessiva dell’atto compositivo. Di cui l’ossessiva emergenza del ritmo, che scandisce con incisive asimmetrie metriche il divenire di un processo inventivo che si vorrebbe ben altrimenti organico (e ciò acuisce la nostalgia di un ordine perduto, ma anche la vitalità della sfida, l’audacia del rischio) rappresenta l’elemento più chiaramente simbolico.
Il Divertimento per tromba, trombone e pianoforte, composto nel 1946, contiene molti di questi caratteri stilistici, e li presenta per così dire allo stato ptiro, irriflesso. Né nel titolo né nell’organico v’è alcunché di provocatorio, di dimostrativo o di eccentrico. 11 titolo non sottintende intenti arcaizzanti e non strizza l’occhio alla omonima forma settecentesca, indicando soltanto una successione di brevi movimenti, sette, variamente alternati nel ritmo e senza una forma prestabilita: esso sarà da intendere piuttosto nel senso etimologico di semplice, innocente svago, e forse anche, considerando la data di composizione, come distrazione da pensieri angosciosi e da eventi comunque inobliabili. L’organico manifesta la tendenza alla chiarezza timbrica, alla oggettività asciutta e scarna, a una certa scheletrica linearità sorretta da elementari materiali costruttivi. C’è una cupa ostinazione, quasi un’acribia ossessiva, nel modo in cui Blacher elabora le diverse combinazioni strumentali, alternando il trio (nn. 1, 4 e 7, cioè i tre pilastri che reggono l’edificio sonoro) a duetti (trombone e pianoforte, tromba e pianoforte, tromba e trombone) e all’assolo di pianoforte (n. 6), senza dubbio il pezzo di più avanzata, tagliente modernità. Complessivamente i sette pezzi, con le loro segmentazioni irregolari e i loro spezzettamenti metrici, richiamano l’immagine di schegge di un discorso più vasto che emergono con puntuta, aspra evidenza: e anche nella brillantezza dei passaggi solistici non c’è gioioso virtuosismo, ma soltanto, e a intermittenza, allarmata frenesia.
L’ostinato ritmico, l’altra faccia dei «metri variabili», compare con significativa frequenza, al pari di imitazioni e canoni (come all’inizio), in contrasto con la scrittura del pianoforte, prevalentemente accordale. Ma anche sullo sfondo tonale, raramente abolito del tutto, quando non appaia velato in andamenti politonali, risalta l’intrusione di note estranee all’armonia, soprattutto nelle triadi, che costituiscono il costante punto di riferimento del linguaggio di Blacher: non vere e proprie dissonanze, ché come tali non vengono pressoché intese, ma forze centrifughe che si estendono a raggiera come onde concentriche alla perpetua ricerca di una fonte originaria.
Diego Masson / London Sinfonietta (Paul Archibald, David Purser, John Constable)
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, 67° Maggio Musicale Fiorentino