Robert Schumann . Sinfonia n. 4 in re minore op. 120 (versione originale)

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Il ‘Kleinharbeit’ di Schumann

 

Quando all’età di trentun anni Schumann prese la decisione di accantonare per qualche tempo il pianoforte e il Lied per dedicarsi alla composizione sinfonica, le sue idee sul genere da affrontare erano già nettamente delineate. Alle sue spalle stava il modello gigantesco di Beethoven, le cui granitiche certezze avevano pur sempre fatto trionfare la solidità della forma, per quanto scossa da contrasti talvolta fortissimi. L’ammirazione per Schubert e Mendelssohn era altrettanto viva nonostante le diversità; se il primo era riuscito a creare con la sua “”Grande Sinfonia”” una nuova dimensione del tempo e dello spazio in musica, la cui completa originalità proprio Schumann per primo aveva compreso e riconosciuto, il secondo rappresentava ai suoi occhi la cesellata compostezza, la serena visione di paesaggi dell’anima sublimati dal sentimento: valori luminosi che Schumann aveva in parte, ma solo in parte, sognato di possedere.

L’inizio di quella svolta compositiva che con la Prima Sinfonia avrebbe aperto la strada all’entusiasmo creativo dell””`anno sinfonico””, il 1841 (due Sinfonie compiute, una terza abbozzata, oltre alla “”Sinfonietta”” Ouverture, Scherzo e Finale e alla Fantasia per pianoforte e orchestra in la minore, che sarebbe più tardi diventata il primo movimento del Concerto), sembra avvenire sotto un duplice impulso: da un lato la volontà di perseguire l’ideale di una concezione unitaria del processo sinfonico per via essenzialmente monotematica, per mezzo di un procedimento ciclico nel quale le trasformazioni di una figura fondamentale, quasi motto della composizione, si generano l’una dall’altra, senza contrapporsi; dall’altro il desiderio di sperimentare una sintassi poetico-musicale intrinsecamente simbolica, contemperando aneliti e slanci in una fioritura di divagazioni fantastiche chiuse in se stesse, quasi illuminazioni autosufficienti, dal timbro patentemente romantico. La Prima Sinfonia è da questo punto di vista esemplare: il supporto programmatico previsto all’origine (una poesia di Adolph Böttger dedicata alla primavera) venne abbandonato nel momento stesso in cui i riferimenti extramusicali si chiarirono in elemeriti compositivi: quel che rimane da ultimo è la disposizione ciclica adombrata dal programma, affilata nella logica formale e materializzata nella traduzione sonora.

La genesi della Sinfonia in re minore è assai più complessa, tale da abbracciare di fatto l’intero periplo dello Schumann sinfonista. Iniziata il 30 maggio 1841, fu portata a compimento il 9 ottobre dello stesso anno ed eseguita per la prima volta il 6 dicembre 1841 al Gewandhaus di Lipsia: non sotto la direzione del titolare Mendelssohn, che dell’amico aveva già presentato il 31 marzo con grande successo la Prima, bensì del “”Konzertmeister”” David. Essa ottenne consensi assai modesti: anche perché “”oscurata”” – e la cosa non deve sorprenderci troppo considerando la moda del tempo – da una esibizione a due pianoforti, avvenuta la stessa sera, di Liszt e Clara Schumann, impegnati a suonare 1′Hexameron-Duo (una serie di variazioni su un tema di Bellini composte da sei allora celebri pianisti parigini). Schumann ritirò la partitura, per riprenderla in mano ben dieci anni dopo, nel 1851, quando erano già apparse la Sinfonia in do maggiore op. 61 (1846) e la Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 97 detta “”Renana”” (febbraio 1851). Di conseguenza la Sinfonia in re minore, presentata in questa nuova veste al Festival del Basso Reno di Düsseldorf nel 1853 e subito dopo stampata a Lipsia, divenne Quarta Sinfonia con il numero d’opera 120. Fu in pratica l’ultimo grande successo di pubblico ottenuto da Schumann come direttore d’orchestra e compositore.

Sul frontespizio della partitura Schumann indicò che il lavoro consisteva di Introduzione, Allegro, Romanza, Scherzo e Finale “”in un solo movimento””; al tempo della revisione, in parte correggendo la concezione strutturale della Sinfonia, aveva pensato di servirsi del titolo “”Fantasia sinfonica””, che gli sembrava più adatto a un’opera tutta contesta di legami tematici tra un movimento e l’altro e senza interruzione fra gli stessi: un po’ come aveva fatto Mendelssohn nella sua Sinfonia “”Scozzese”” (1842). Più prossimi nel tempo erano gli esempi dei “”poemi sinfonici”” di Liszt (Les Préludes sono del 1848, Prometheus del 1850); ed è probabile che anche questi avessero convinto Schumann a voler diversificare la sua opera, pur constatandone con interesse certe affinità. Per il resto, la revisione si appuntò soprattutto sulla strumentazione, rinvigorendola e, secondo alcuni, appesantendola. Non è qui il luogo per discutere il problema delle presunte inefficienze e debolezze di Schumann come orchestratore, denunciate dalla critica già lui vivente (e non solo dalla critica: Brahms ne condivideva molte riserve, e Mahler ritenne addirittura necessario ritoccare l’orchestrazione, specie della Quarta). Basterà aggiungere, per curiosità, che nel materiale informativo della tournée europea della Philadelphia Orchestra anche il suo direttore Wolfgang Sawallisch spezza una lancia in favore della prima versione, annunciando in questa esecuzione il ripristino dell’originale.

Sta di fatto che nessuna delle grandi forme di Schumann è cosi tematicamente unita e conchiusa come quella della Sinfonia op. 120. Per Giorgio Pestelli “”proprio in questo minuto lavoro di variazione, di allacciamento, di transizione impercettibile (di ‘Kleinarbeit’, di lavoro in miniatura parlava Hugo Riemann), si riconosce il grande Schumann che ricava i temi di Carnaval da quattro note, che argina l’onda compositiva con i rispecchiamenti formali, che oscilla perennemente fra dottrina e poesia estemporanea; perché se l’occhio rintraccia sulla partitura le derivazioni, le inversioni dei temi, l’orecchio è conquistato dalla fioritura di motivi che sembrano del tutto nuovi””.

L’intera Sinfonia si basa sullo sviluppo di due brevi frammenti tematici presentati nell’Introduzione lenta, impostata un po’ come l’apertura della Quarta di Beethoven: il primo da fiati, archi e timpani, il secondo dai violini primi. Questi germi tematici sono poi rielaborati nel corso di tutto il primo movimento, ma riappaiono anche in quelli successivi. Nella “”Romanza”” la melanconica melodia dell’oboe è alternata da una ripresa variata del primo frammento tematico e da una figura in terzine del violino solo, figura che ritorna nello Scherzo come Trio intermedio ripetuto due volte: la relazione con l’esordio lento della Sinfonia è evidente, ma del tutto trasformato ne è il carattere. Ancora più straordinaria la trovata della transizione al Finale: quando ci si aspetta la definitiva ripresa dello Scherzo, ecco invece un episodio in tempo lento che introduce lontani appelli di tromboni, corni e trombe e immette senza soluzione di continuità al tripudio del Finale. L’analogia con il passo corrispondente del Finale della Quinta di Beethoven non può sfuggire. Non vi è però più niente di eroico in questo tratto: la luce che squarcia di colpo le nebbie di un paesaggio ossianico, che è anche un paesaggio-simbolo dell’anima romantica, non segna il battere di un destino, richiama la nostalgia di infinito di un mondo irreale.

Ente Autonomo del Teatro Comunale di Firenze, 60° Maggio Musicale Fiorentino

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