Wagner in concerto
Un programma di concerto interamente dedicato a musiche di Wagner è diventato oggi in Italia una preziosa e un po’ stravagante rarità, quasi (siamo certi che qualcuno ne adombrerà il sospetto) una temeraria provocazione. Sono ormai lontani i tempi in cui tutti i maggiori rappresentanti della cosiddetta scuola storica dell’interpretazione wagneriana, da Walter a Toscanini, da Furtwängler a Knappertsbusch, inserivano regolarmente nei loro programmi concertistici non soltanto una pagina sinfonica come l’«Idillio» di Sigfrido ma anche singoli brani tratti dalle opere teatrali, o addirittura sceglievano come bis al termine dei loro concerti la cavalcata delle Walkirie o il preludio al terzo atto del «Lohengrin» (sì, la famigerata marcia nunziale), per la gioia puramente musicale, come a una festa, di ascoltatori felici di inabissarsi, sia pure per un attimo, nelle acque profonde del mitico mondo wagneriano.
Allora, Wagner era un punto di riferimento fondamentale essenzialmente come musicista, degno in tutto e per tutto, perfino come «sinfonista», di stare accanto a Mozart o Debussy, e al suo amatissimo Beethoven. E non crediamo che questa prassi significasse tradire i caratteri peculiari e la sostanza vera di quel mondo, universale in primo luogo in quanto musica, e dunque comprensibile e intatto anche al di fuori della sua destinazione naturale, che naturalmente è quella della scena. O che almeno non lo tradisse molto di più delle odierne mode che si affidano a vane farneticazioni di registi che odiano la musica, nella assurda pretesa di attualizzare o smitizzare Wagner, per renderlo nostro «contemporaneo». Come se la sua contemporaneità non stesse invece proprio nella predetta universalità e intangibilità delle sue partiture.
Sta di fatto che, dopo la guerra, una feroce polemica si scatenò contro la tradizione di proporre Wagner in versione concertistica, da parte di chi, in nome e a tutela di diritti sacrosanti, volle erigersi a baluardo di una verità tanto ovvia quanto spesso male intesa: che Wagner, avendo creato un tipo di opera d’arte totale strettamente connaturata al teatro, con una ferrea logica di svolgimento drammatico anch’essa radicata in un concetto di totalità compiuta e significante, non sopportasse esecuzioni di singoli brani staccati, anche quando essi si presentassero come forme in un certo senso chiuse e autosufficienti all’interno di quella superiore totalità. Perdutasi così quella tradizione puramente musicale che aveva avuto fra l’altro il merito non secondario di avvicinare a Wagner pubblici quanto mai eterogenei, spesso privati da ragioni oggettive e pratiche della possibilità di vederlo eseguito in teatro, si è finito per essere in contrasto, se si vuole, con le stesse intenzioni di Wagner che, nel momento stesso in cui chiariva a livello concettuale i termini della sua riforma o vagheggiava la costruzione di un teatro adatto alla rappresentazione delle sue opere (Bayreuth, il sacro tempio), non si stancava di ribadire che la sua musica racchiudeva in ogni momento il significato complessivo di un tutto, essendo ogni nota o battuta o episodio una luce autonoma riverberata su un mondo di luci infinite. Entrarci, fare il primo passo, voleva dire restare prigionieri per sempre, portare in sé il tarlo di una ricerca inesauribile, fonte di arricchimento spirituale e umano.
Tutto questo discorso non deve essere equivocato: non intendiamo di certo schierarci con quei polemisti italiani e francesi, che si fregiano di avere per condottieri nientemeno che Stravinskij e Cocteau, i quali, giudicando le opere di Wagner troppo prolisse e scenicamente improponibili, ne consigliavano la versione antologica, una sorta di crestomazia della sua musica. Tutt’altro, naturalmente. Le grandi pagine sinfoniche o i culmini dei finali d’atto non possono essere in nessun modo staccati dal contesto in cui sono sorti, e la pretesa ineguaglianza di momenti diversi è opinione astratta e preconcetta. Come ogni nota ha in sé in potenza la sostanza del tutto, così il tutto vive in ogni nota, necessariamente e realmente. È soltanto in nome della grandezza e della coerenza di Wagner, con cui avremmo bisogno di confrontarci in ogni momento, che oggi salutiamo con gioia la possibilità che viene offerta di accedere, sia pure in un concerto che non dura neanche la metà di una sua opera, nell’universo delle sue creazioni; per molti, sarà occasione di rimeditazioni e ricordi, per altri, forse, di un primo contatto dal vivo. Wagner si serve, e servendolo si dimostra di amarlo, anche cosí.
I Maestri Cantori di Norimberga
Il preludio all’atto primo dei «Maestri Cantori di Norimberga» sintetizza e riassume in espressione musicale, come forse mai accade in altra opera di Wagner, tutto lo spirito e i contrasti dell’azione scenica sino alla finale, solenne celebrazione a lode dell’arte tedesca. Rappresentata per la prima volta a Monaco il 21 giugno 1868, l’opera ebbe, cosa per Wagner consueta, una lunga gestazione, dalla casuale scoperta delle vicende del calzolaio-poeta Hans Sachs, avvenuta a Marienbad nell’estate 1845 leggendo la «Storia della letteratura poetica nazionale dei Tedeschi» del Gervinus, fino al periodo di composizione letteraria e musicale vera e propria, durata quasi sette anni, dal 1861 al ’67. II fatto che questo lavoro di argomento storico e di carattere comico ,oltre che dal segno compositivo particolarmente insolito (un’architettura musicale maestosamente gotica, contrappuntisticamente assai ricca su un tessuto armonico di lucente trasparenza dia-tonica, con largo impiego di cori e danze) succeda alla vertigine tragica del «Tristano e Isotta» (1857-59), al suo inquieto e cupo mondo notturno permeato di lacerazioni cromatiche, non ha mancato di disorientare chi di Wagner pretendeva una immagine univoca, chiusa in schemi preconcetti. In realtà le due opere denunziano una coerenza interiore estrema pur nella massima diversità, coerenza anzitutto stilistica e drammatica con il proprio composito mondo poetico. Musicalmente il preludio è costruito su alcuni dei temi fondamentali che ritorneranno nel corso dell’opera seguendo i criteri della tecnica dei
«Leitmotive» o motivi conduttori: unità musicali legate a determinati simboli o situazioni con funzioni drammatiche.
È dal contrasto di tali motivi che la forma musicale ha vita, e originandosi si articola: ai due temi principali legati alla maestà della Corporazione (scandito il primo in una marcia ostinata e metodica di accordi poderosi, simile il secondo a una squillante fanfara) si intrecciano uno dopo l’altro, con sfumature cangianti, i motivi dell’amore di Walther von Stolzing, cavaliere ardente di vita e di poesia.
Dallo sviluppo di questi elementi indotti al massimo della tensione, il tema della Corporazione emerge di nuovo come potenziato, prima di combinarsi con quello in mi maggiore dell’amore di Walther, quasi a rendere esplicita la fusione armoniosa del vecchio e del nuovo, di tradizione e modernità, che avviene con grande solennità alla fine dell’opera.
Alexander Sander / Ingrid Bjoner, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente Autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Manifestazioni Estive 1978