Franz Schubert
Der Wanderer (II viandante) D. 493
Gruppe aus dem Tartarus (Tartareo gruppo) D. 583
Frühlingsglaube (Fede primaverile) D. 686
Heidenröslein (Rosellina della landa) D. 527
Die Forelle (La trota) D. 550
An die Leier (Alla lira) D. 737
Erlkönig (Il re degli Elfi) D. 328
Nacht und Träume (Notte e sogni) D. 827
Du bist die Ruh (Tu sei la pace) D.776
Wanderers Nachtlied (Canto del viandante notturno) D. 224
Der Zwerg (ll nano) D. 771
Du liebstmich nicht (Tu non mi ami) D. 756b
Dem Unendlichen (All’immenso) D. 291 b
Pietre miliari del Lied romantico
L’impaginazione di questo concerto presenta tre momenti capitali della storia del Lied romantico, genere creato agli inizi dell’Ottocento da Schubert e coltivato, per citare solo i maggiori, da Schumann, Brahms, Wolf, Reger, Pfitzner, Strauss e Mahler.
Prima di Franz Schubert (1797-1828), il Lied per voce sola con accompagnamento di pianoforte era considerato un “”genere inferiore””. E come tale lo avevano trattato Haydn, Mozart e perfino, con qualche eccezione, Beethoven. Più che punto di arrivo di un processo evolutivo, i cui antecedenti si cercherebbero invano nelle scuole liederistiche classiche di Carl Friedrich Zelter (1758-1832) e Johann Friedrich Reichardt (1752-1814), ma semmai nelle ballate protoromantiche di Johann Rudolf Zumsteeg (1760-1802), il Lied di Schubert delimita una svolta netta nella concezione del rapporto tra poesia e musica, che coincide con la creazione stessa del Lied romantico: ossia di una
composizione nella quale la musica non è più semplice rivestimento di un testo poetico ma compimento della poesia. Il Lied di Schubert racchiude nelle dimensioni del “”piccolo pezzo”” per voce e pianoforte l’universo intero: non è né illustrazione poetica né astrazione musicale, ma sintesi dialettica del sentimento poetico e del pensiero musicale. Da questo punto di vista, il Lied per Schubert rappresenta prima di tutto una concezione del mondo, un modo di essere e di sentire: non un modulo, ma un sistema di variabili che nel suo insieme configura una forma aperta in continua trasformazione.
Schubert usò con la massima disinvoltura, in periodi cronologicamente sia vicini sia lontani fra loro, modi e forme di Lieder alquanto diversi: dal semplice Lied strofico, con una musica che si ripete identica (o con limitate varianti) in ogni strofa (es. Heidenröslein, 1815, da Goethe), o strofico “”modificato””, a strofe alternate (Die Forelle, 1817, testo di Ch. F. D. Schubart), al Lied durchkomponiert, ossia musicato per disteso su un accompagnamento pianistico uniformemente caratterizzante (Dem Unendlichen, 1815, da Klopstock); dal Lied in forma di ballata come il celeberrimo Erlkönig (1815, ancora Goethe) a quello strutturato sulla grande scena drammatica come Gruppe aus dem Tartarus (1817, da Schiller), dalla canzone di tono popolare al poema di carattere concettuale. Se la forma della ballata costituì il vero e proprio laboratorio linguistico del Lied e quella durchkomponiert la presa di possesso di una andatura sciolta con uso di episodi recitativi, in seguito Schubert tese piuttosto a recuperare e a raffinare il modello classico del Lied strofico e variato, inserendolo nelle trasformazioni e nelle relazioni di cui sono permeati i rapporti tra voce e accompagnamento nei canti della maturità, fino ai cicli estremi della Schöne Mullerin, della Winterreise e dello Schwanengesang. La grande sfida degli ultimi anni, l’annuncio di una nuova epoca nella storia del Lied la cui eredità sarà raccolta da Brahms e da Wolf, consistette nel superamento graduale di queste distinzioni verso una fusione dei generi: l’integrazione, in uno statuto retto da figure simboliche, della forma aperta lineare con quella strofica circolare.
Naturalmente a questa conquista non fu estranea l’azione della poesia, soprattutto di quella romantica e contemporanea. Schubert attraversò con la sua musica l’intera galassia della Romantik, dallo Sturm und Drang, che con Schiller e Klopstock aveva alimentato la fiamma dell’entusiasmo negli anni della sua formazione, sino alle estreme propaggini, già crepuscolari e tinteggiate di cupo pessimismo, di Wilhelm Müller e Heinrich Heine, passando attraverso tutta una costellazione di autori che aveva come stella polare Goethe. Non si precluse nessuno degli spunti che i poeti gli offrivano, trovandosi a proprio agio tanto nelle grandiose evocazioni della lirica della natura (Frühlingsglaube, 1820, Uhland) quanto nei fragili quadretti del “”piccolo mondo quotidiano””, così caro al sentimentalismo Biedermeier (Der Zwerg, 1822, Collin; Du liebst mich nicht 1822, Platen). E non trascurò neppure i poeti dell’antichità e delle vestigia classiche (An die Leier, 1823, da una anacreontica), dei sentimenti cosmici e delle sfide devastanti (ancora Gruppe aus dem Tartarus), e quelli moderni dell’ironia e del dissolvimento.
L’affermazione che vede la qualità principale del Lied schubertiano nella naturalezza dell’inventiva melodica, quasi che la melodia scaturisse di getto da un’ispirazione immediata, centra un aspetto, certo il più vistoso, di una capacità di definizione musicale altamente espressiva. Molti Lieder di Schubert, e tra questi, alcuni dei più famosi come Du bist die Ruh (1823,
da Rückert), sembrano davvero semplici melodie accompagnate, nelle quali la cantabilità è tutto. In questi casi il pianoforte resta un supporto, uno sfondo armonico che non entra in rotta di collisione con la voce: tutt’al più gli vengono assegnate brevi sezioni strumentali di introduzione all’inizio e di conclusione alla fine, funzionali alla melodia del canto. Nei Lieder di tono popolaresco la scrittura pianistica diviene ancora più spoglia ed essenziale, quasi elementare. Ne è un famoso esempio il goethiano Heidenröslein, dove il pianoforte, usato a mo’ di fisarmonica, con la mano destra sostiene la melodia e con la sinistra crea il pungente sottofondo armonico: canto e accompagnamento si rispondono come nel gioco di una filastrocca infantile, scandito da un identico ritornello strumentale. In Die Forelle il pianoforte allude divertito con il suo disegno scivoloso al guizzare della trota, in senso quasi descrittivo. Ma in altri casi la melodia riceve e assorbe marcati tratti strumentali, diviene essa stessa voce strumentale che emerge dal fitto intrico dell’accompagnamento pianistico come un esile filo: nel mirabile Nacht und Träume, su testo di Mattähus von Collin del
1825, il canto si nasconde nelle pieghe del tessuto avvolgente del pianoforte e si dispiega per ampi intervalli cromatici, inquieti e mobili, di sapore quasi espressionistico. L’immagine dei sogni che svaniscono con la notte, “”come il raggio di luna attraverso le stanze, nel cuore silenzioso dell’uomo””, è resa proprio da questo estatico lievitare del canto all’interno di una rete strumentale insieme diafana e compatta, di cui il canto stesso, quasi negando la sua natura vocale, è parte.
Una tematica trasversale percorre l’intero arco del Lied schubertiano e lo costella di segnali allegorici, di ossessivi indicatori stradali. Uno di questi è la figura del Wanderer, il Viandante: emblema, nelle sue molteplici incarnazioni, del tragico simbolismo schubertiano. Il Viandante che non trova consistenza nel mondo è condannato a errare senza meta. La sua solitudine è fatale e ineluttabile, la sua Sehnsucht indefinita e struggente. Se l’anelito alla pace e alla gioia è un miraggio, le superbe accensioni e le cadute vertiginose, i ripiegamenti e le avanzate sono passi verso il compimento: e il compimento è la morte.
In Schubert i viaggi del Viandante sono scanditi da inesorabili ritmi di marcia, mai così atroci come quando il movimento si arresta a contemplare il vuoto circostante. Solo allora il Viandante riconosce fino in fondo la verità sulla sua condizione. Le sue visioni, sia che si materializzino in figure, luoghi o immagini della memoria, sia che si riverberino in assorte, malinconiche meditazioni, attraversano paesaggi senza spazio e senza tempo, perché hanno conosciuto tutti gli spazi e tutti i tempi.
L’immaginazione, nel suo ricordare e fantasticare, rende l’errare assai prossimo al sognare. Ma il Viandante rappresenta anche, nel suo tratto eroico di esule volontario o di espulso dalla società, il cammino della conoscenza. Nel riproporsi e rinnovarsi instancabile del suo pellegrinaggio egli prende coscienza, rifiutando e combattendo, della totalità del percorso e non solo del suo perdersi all’infinito.
Tutti questi motivi si trovano concentrati nei Lieder che chiamano direttamente in causa, per così dire a deporre, il Viandante stesso, come Der Wanderer, pubblicato nel 1816 come op. 4 n. 1 su parole non eccelse ma pregnanti di Georg Philipp Schmidt von Lübeck, e Wanderers Nachtlied da Goethe (1815), degno, nelle sue undici misure, dell’economia espressiva di un Webern. Che dialoghi con le sue ombre o monologhi con se stesso, il Viandante di Schubert sembra – ben prima dei compagni erranti, i Fahrenden Gesellen di Mahler – “”der Welt abhanden gekommen””, “”perduto al contatto col mondo””. La notte è il suo sudario, le sue stagioni sono l’autunno e l’inverno, i cui colori crepuscolari o freddi come la neve finiscono per essere rifratti dal contrasto con la luce splendente del giorno o con la freschezza rigeneratrice della primavera. Ma, nello stesso tempo, il Viandante è anche la coscienza, l’anima e il destino del mondo. Se l’annuncio di morte è la sua bandiera, la sua forza sta nel sapere che tutto è già accaduto e nel non rassegnarsi a immaginare (o sognare) che tutto non possa ancora accadere: la riconciliazione con la natura e con gli uomini, la riconquista di un senso e di una meta, la realizzazione dell’anelito alla pace e alla gioia. La sua tragicità si manifesta in questa scissione spirituale ai confini della morte, nella condanna a ripetere la commedia della speranza e della disperazione mettendo e togliendo continuamente la maschera.
Myung-Whun Chung, Roberto Gabbiani /Waltraud Meier,Nicholas Carthy, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica da camera 2003-2004