Il Te Deum di Bruckner
Il Te Deum, che Bruckner aveva pensato di collocare a conclusione della Nona Sinfonia come suo ideale completamento corale sull’esempio nella Nona beethoveniana, può altresì servire, come qui avviene, da suggello trionfale dell’intima e introspettiva Messa in fa minore: di essa, per fasto e colorito, risuonando ancora più “”grande””. Composto nel maggio 1881 e rielaborato in una seconda versione ampliata con la fuga finale tra il settembre 1883 e il marzo 1884, esso risente del clima delle ultime Sinfonie, ad esse prestando, e alla Settima in particolare (che vide la nascita appunto tra le due versioni), anche qualche simbolica citazione. Dopo esser stato presentato con accompagnamento di solo pianoforte a Vienna il 2 maggio 1885, venne eseguito per la prima volta nella sua veste integrale sempre a Vienna il 10 gennaio 1886 sotto la direzione di Hans Richter. Rispetto alla Messa in fa minore, quest’opera corale, grandiosa nonostante la sua brevità, sembra perseguire una riduzione all’essenza delle sue stesse peculiarità compositive ed espressive, condensare gli appelli di una fede incrollabile in pochi elementi, soprattutto ritmici, ossessivamente affermati e ripetuti; rinunciando perciò alle differenziazioni sinfoniche dei preludi e degli interludi orchestrali e restringendo perfino gli artifici della polifonia a un tessuto denso e compatto, liberato solo nell’apice della poderosa fuga finale (fra l’altro un ripensamento dell’ultima versione). Questo carattere per così dire monolitico è confermato anche dallo splendore radioso della tonalità di do maggiore, altrimenti pochissimo usata da Bruckner, dal ritmo di 4/4 costante dall’inizio alla fine, dall’apparato massiccio, usato a blocchi addensati e contrapposti, dell’orchestra (rafforzata da 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani e organo, oltre ai consueti legni e archi), dallo spessore granitico del coro a quattro voci e perfino dall’insieme in sé omogeneo, riservato del quartetto dei solisti. Un tale spiegamento di forze è messo al servizio di un’unica idea, innalzare un inno di lode a Dio che non ammetta distinzioni e riserve. Eppure raramente una professione di fede così esaltata ha raggiunto risultati di pari convinzione e riuscita artistica.
Il materiale tematico, e di conseguenza l’armonia, che nonostante l’apoteosi del do maggiore tradisce una certa tendenza verso i modi ecclesiastici, sono segnati dal motivo iniziale del Te Deum gregoriano, martellato “”solennemente con forza”” dal coro raddoppiato da trombe e tromboni su lunghe note tenute di legni, corni e organo, mentre gli archi disegnano una figura ritmica ostinata che articola gli intervalli elementari di quarta e quinta discendenti (questa figura avrà speciale importanza nel corso del pezzo: la ritroveremo anche nel finale dell’incompiuta Nona Sinfonia). A questo tripudio ininterrotto segue una breve sezione contrastante in fa minore e in tempo Moderato, Te ergo quaesumus, attaccata liricamente dal tenore solo e cesellata dagli altri solisti su tenui arabeschi del violino solo, mentre l’orchestra assottigliata accompagna discretamente il canto. Con Aeterna fac tornano l’Allegro e l’ostinato implacabile a piena orchestra, ora ripreso dal coro con fitto incedere omofonico (da notare agli archi la variante della figura iniziale, questa volta ascendente). Ancora una parentesi di distensione, Salvum fac (come prima in fa minore e sempre in tempo Moderato, con analogie nelle evoluzioni del violino solo e nel canto arioso dei solisti, ma armonizzati con il coro e con un’orchestra più screziata), fa da intermezzo al nuovo ritorno dell’Allegro in do maggiore con il tema iniziale del Te Deum sulle parole Per singulos dies benedicimus te (ripresa anche musicalmente a tutto tondo): si prepara così l’entrata dell’ultimo blocco, In te, Domine, speravi, di forma tripartita. La prima parte è costituita dall’invocazione dei quattro solisti, caratterizzata da ampi salti su una tela orchestrale rarefatta. Da questa si enuclea al coro, con forza ora marcata, il tema del non confundar in aeternum che, combinato con quello di In te, Domine, speravi, viene subito dopo slanciato (seconda parte, la più estesa) in una colossale doppia fuga a tutto organico, vocale e strumentale, certo non immemore, né indegno, delle cattedrali sonore di Bach. Una volta toccata la vetta di un esplosivo fortissimo, la carica a poco a poco si attenua, il contrappunto si dirada e il tema (leggermente modificato) del non confundarviene isolato e trattato per siglare diffusamente, sotto un segno ora beethoveniano di ascesa trasfigurata, la composizione (terza e ultima parte). Di questa fervida melodia corale Bruckner si ricorderà nel punto culminante dell’Adagio della Settima Sinfonia.
Il Te Deum era l’opera prediletta di Bruckner: forse vi vedeva realizzata senza complicazioni quell’aspirazione alla chiarezza e alla semplicità che era il corrispettivo di una fede limpida e ferma, non sempre così nitidamente operante nelle frementi arcate a cielo aperto delle sue Sinfonie. Ma anche a spiriti esigenti il Te Deum parve un’opera singolare, un esito musicale di tutto rispetto, perfettamente compiuto. A Mahler per esempio, che l’aveva diretto ad Amburgo nella stagione 1892-93 e che, avanti di tenerne conto con una citazione letterale nella prima parte della sua Ottava Sinfonia (intitolata all’inno cristiano Veni Creator Spiritus) , nel suo personale esemplare della partitura aveva sostituito il sottotitolo (“”per soli, coro misto eccetera””) con queste parole: “”per voci angeliche, uomini alla ricerca di Dio, cuori tormentati e anime purificate dal fuoco””. E forse, a onta delle certezze ostentate dall’autore, sono proprio queste parole a costituire il miglior commento non solo al Te Deum, ma anche all’intera figura di Bruckner.
Wolfgang Sawallisch, Norbert Balatsch / Susan Anthony, Marjana Lipovšek, Deon van der Walt, Kurt Moll, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica sinfonica 2001-2002