Wolfgang Amadeus Mozart – Quintetto in mi bemolle maggiore per pianoforte e fiati K. 452

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Il Quintetto in mi bemolle maggiore di Mozart

 

Nei suoi primi anni viennesi, e specialmente a partire dal 1784, Mozart dedicò gran parte dei suoi sforzi ad affermarsi come virtuoso di pianoforte, sia partecipando a numerose Accademie, ove oltre a presentare le proprie creazioni era chiamato a improvvisare, sia componendo appositamente Concerti per pianoforte e orchestra. Si ha notizia che solo nei primi tre mesi di quell’anno Mozart si esibì in una ventina di serate pubbliche e private; tra il febbraio e il dicembre di quello stesso 1784 nacquero ben sei Concerti per pianoforte e orchestra (K. 449, K. 450, K. 451, K. 453, K. 456, K. 459), tutti eseguiti ripetutamente con grande successo e divenuti subito popolari. Sia pure con frequenza meno ossessiva, questa attività si protrasse fino al dicembre 1786, periodo durante il quale la serie dei grandi Concerti viennesi si arricchì di altri sei titoli, e tutti di grande spicco: il regale terzetto del 1785 (K. 466, K. 467, K. 482) e quello non meno elevato (K. 488, K. 491 e K. 503) del 1786.

Incastonato tra questi gioielli, il Quintetto per pianoforte e fiati in mi bemolle maggiore K 452, composto alla fine del mese di marzo 1784 (nel catalogo di mano di Mozart reca la data del 30 marzo 1784), ne risente il clima stilistico soprattutto nel trattamento del pianoforte, che giunge a sfoggiare la magnificenza delle sue risorse espressive senza prevaricare sugli altri strumenti, instaurando con essi un dialogo disteso e limpido: sostenuto come ruolo e insieme discreto come potenza sonora. L’organico offerto dal Quintetto – oboe, clarinetto, corno e fagotto, oltre al pianoforte – non era in fondo così distante dalla versione “”ridotta”” dei Concerti per pianoforte, dove lo strumento solista poteva, a piacere, in caso di esecuzione nei salotti, essere accompagnato da un piccolo complesso da camera (ne è un esempio il Concerto K. 449, anch’esso in mi bemolle maggiore, dove la partecipazione dei fiati, oboi e corni, è indicata ad libitum). Nello stesso tempo, la dimensione cameristica aggiungeva al carattere del pezzo un che di intimo e di raccolto, con caratteri morfologici ed espressivi funzionali alla fusione timbrica tra il pianoforte e gli strumenti a fiato.

Mozart aveva scritto questa pagina in previsione di un concerto “”a proprio beneficio”” (secondo l’usanza delle Accademie pubbliche, che si tenevano per sottoscrizione) ospitato al Teatro di corte (Burgtheater) di Vienna il 1° aprile 1784. Nel programma, oltre al “”nuovo grande Quintetto”” suonato dal “”Signor Mozart””, figuravano anche tre Sinfonie (tra queste la K. 425, “”Linzer””), un “”nuovo Concerto sul fortepiano”” (probabilmente il K. 451, suonato e diretto dal compositore), tre Arie (una cantata da “”M.11e Cavalieri””) e una improvvisazione. Il successo fu splendido, soprattutto per il Quintetto: Mozart, riferendone con entusiasmo l’accoglienza al padre in una lettera del 10 aprile, non esitò a definirlo “”la cosa migliore che abbia mai scritto finora in vita mia […] Mi sarebbe piaciuto farlo ascoltare anche a lei; e che splendida esecuzione! A dire il vero, alla fine ero stanco dal gran suonare – e non è poco onore per me che i miei ascoltatori non si stancassero mai””. Questo giudizio sul Quintetto, tutt’altro che di circostanza, è confermato dal fatto che Mozart lo scelse per eseguirlo alla presenza di Giovanni Paisiello in un concerto privato, organizzato il 10 giugno a Döbling, sobborgo di Vienna, da Gottfried Ignaz von Ployer, suo concittadino trasferitosi a Vienna, la cui figlia Barbara era una delle sue allieve preferite. Il giorno prima del concerto, Mozart informò il padre con la consueta fretta: «Il Signor Ployer ha organizzato un concerto a Döbling: la signorina Babette [vezzeggiativo di Barbara] eseguirà il suo nuovo Concerto in sol [K. 453, “”suo”” in quanto a lei dedicato] e io il Quintetto [il K. 452, appunto]; dopo suoneremo insieme la grande Sonata per due pianoforti [K. 448]. Ho intenzione di andare a prendere Paesello [sic], perché voglio che senta la mia allieva e il mio Concerto». Anche la critica è unanimemente concorde nel considerare questo unicum della produzione mozartiana una vetta, vero punto di svolta di tutta la successiva opera cameristica con pianoforte. Se Abert ne sottolinea la “”straordinaria tensione”” e Halbreich lo qualifica come “”esempio perfetto di dialogo concertante””, per Bernhard Paumgartner “”esso rimane ancor oggi il più nobile esempio di musica da camera per strumenti a fiato. Beethoven lo tenne evidentemente a modello, componendo il suo Quintetto op. 16; ma non lo superò””. Il rango speciale riservato da Mozart a questa composizione si palesa già nell’anomalia di un vasto Largo introduttivo di particolare solennità, che si estende per venti battute intrecciando al pianoforte in spazi piccolissimi le entrate dei quattro fiati, ora da soli, ora a due a due, ora riuniti in un insieme d’incantata trasparenza timbrica. L’atmosfera muta repentinamente con il tema dell’Allegro moderato, di piglio cavalleresco, iniziato dal pianoforte solo in piano ed energicamente scandito dai fiati nel forte.

Il dialogo così avviato si intensifica nella presentazione del secondo tema, distribuito fra la tastiera e i fiati, e prosegue ininterrotto alternando evoluzioni brillanti, ricchi virtuosismi, episodi corali di sonorità pregnante, animate rincorse ritmiche, scambi di parti e di ruoli tra portatori della sostanza tematica e accompagnatori nelle ripetizioni. A uno sviluppo conciso segue una ripresa variata, quasi trasfigurata dall’abile gioco concertante dei motivi. Questa vitalità si stempera nell’intimità del Larghetto, “”romantica rêverie basata su effetti di magica bellezza sonora”” (Abert). Il primo tema annunciato da oboe, corno e fagotto ha carattere pastorale, quasi “”napoletano”” (forse a questo pensava Mozart quando volle che Paisiello ascoltasse il Quintetto) e conduce spontaneamente a una nuova idea esposta da pianoforte, clarinetto e oboe, cui segue una straordinaria varietà di episodi secondari. Si attua qui un percorso armonico di audacia estrema, che culmina nella modulazione al lontano mi minore (il brano è in si bemolle maggiore), senza perdere tuttavia, pur nella violenza dei contrasti dinamici e nella densa polifonia, la tenuta dei rapporti timbrici. Da questa selva agitata e a tratti oscura il tema principale riemerge come liberato da un accerchiamento, e insieme potenziato nei suoi aspetti caratteristici dalle esperienze attraverso le quali è passato. Il passaggio al Rondò finale (Allegretto) sancisce questa ritrovata armonia nel segno di un’esuberanza incline alle grandi sonorità, al superamento dei confini cameristici in un tratto concertistico di ampia gestualità, sia nei passaggi solistici sia nelle impennate virtuosistiche. Ma anche qui, dopo una Cadenza in tempo che impegna tutti gli strumenti in una serie di entrate in rigoroso stile imitato, il senso dell’equilibrio impone una riduzione dei pesi specifici in favore di un mite, lieve congedo: esso avviene ripresentando il tema principale e lasciandolo svanire in una dissolvenza incrociata, unita a un canto dolcemente suadente dei fiati sull’accompagnamento discreto, a dinamica sempre più smorzata, del pianoforte.

Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica da camera 2001-2002
Alexander Lonquic, Solisti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ( Paolo Pollastri, Stefano Novelli,Francesco Bossone, Salvatore Accardi)

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